Collaborare stanca?


Gianfranco Marocchi | 5 Gennaio 2021

È un paradosso, ma è proprio il successo delle iniziative di coprogrammazione e coprogettazione e delle altre iniziative amministrative ispirate al principio di collaborazione, diffusesi in proporzioni inattese negli ultimi due o tre anni nel nostro Paese, a portare con sé una potenziale fatica che vale la pena di esaminare. Non ci si riferisce alle imperfezioni talvolta presenti nei processi collaborativi: una coprogettazione poco “co”, troppo simile ad un appalto, una coprogrammazione in cui gli enti di terzo settore hanno l’impressione che in realtà tutto già sia stato deciso e così via. Non ci si riferisce, in altre parole, alle esperienze collaborative che deludono perché sono “fatte male”, ma ai casi in cui le fatiche emergono in occasioni di collaborazione di buona qualità; anzi, forse proprio perché di buona qualità e quindi prevedono accurati processi di decisione collettiva.

In un territorio in cui l’approccio collaborativo ha fatto breccia, il presidente di un’associazione si lamentava: la sua settimana era trascorsa con un tavolo di coprogettazione con l’ente che gestisce i servizi socioassistenziali, una coprogrammazione con il Comune, un tavolo di consultazione con l’Azienda sanitaria. Riunioni, richieste di contributi, sollecitazioni a produrre e confrontare dati. Tutto ciò gratifica, onora, corrisponde a quanto auspicato da molte cooperative o associazioni in termini di riconoscimento del proprio ruolo, ma richiede al tempo stesso un impegno notevole, talvolta difficilmente sopportabile. Certo, la partecipazione alle riunioni, le discussioni in gruppi di lavoro allargati, i noti costi di transazione della decisionalità democratica; ma poi ci sono anche gli approfondimenti necessari a partecipare in modo competente ai tavoli: numeri sui propri destinatari, esame dei dati condivisi dall’ente pubblico, insomma tutto ciò che è utile ad aggiungere qualità al lavoro comune. Ma che richiede ulteriori energie, tempo e competenze, di più di quante l’associazione o la cooperativa sono in grado di sopportare. È chiaro che una delle reazioni a questa situazione è dubitare. Dubitare che, in fondo, questa collaborazione magari a lungo richiesta, sia proprio la strada giusta, che il gioco valga la fatica sopportata. Non sarebbe più facile fare come prima, contrattare direttamente con l’ente pubblico una richiesta di contributo oppure partecipare ad una gara sperando in un esito positivo? Tanto più che spesso la collaborazione richiede tutti gli sforzi prima richiamati per interventi innovativi, stimolanti, originali, ma talvolta con budget piuttosto piccoli.  

Cosa fare?

Certo una risposta univoca non c’è ed è normale che, in un tipo di esperienze sviluppatesi solo negli ultimi anni, sia necessario trovare equilibri che prima non erano mai stati ricercati e dunque le difficoltà non devono spaventarci oltremisura; ma al tempo stesso sarebbe irragionevole ignorarne l’esistenza perché si preferisce mantenere un’immagine idealizzata della collaborazione. Quindi, anche se le considerazioni che oggi siamo in grado di fare non possono essere complete ed esaustive, vale comunque la pena di iniziare ad annotarle nella loro provvisorietà. Va premesso che in parte si tratta di cercare un corretto equilibrio tra impegno richiesto dai procedimenti collaborativi e loro entità, trovando quindi il giusto equilibrio evitando, oltre che i tavoli frettolosi, anche quelli che implicano un impegno sproporzionato rispetto ai risultati da ottenere. Ma accanto a questo aspetto di buon senso è probabilmente utile qualche riflessione in più.   Iniziamo esaminando una risposta a nostro avviso sbagliata ad un problema giusto. Dicono i soggetti di Terzo settore che partecipano ad un tavolo collaborativo: “non è giusto, non abbiamo risorse per partecipare ai tavoli, in fondo chi presenzia per conto della pubblica amministrazione è pagato per farlo, noi no…”. Ma a fronte di una difficoltà reale, la soluzione non può essere il gettone di presenza per il partecipante, cosa che pone peraltro taluni problemi giuridici non secondari. Il problema va affrontato in modo più ampio e si collega alla questione, ben evidenziata da Carola Carazzone, del necessario superamento della diffidenza dei finanziatori pubblici e filantropici a destinare risorse al rafforzamento delle organizzazioni invece che a singoli progetti. Il timore di sprecare risorse per finanziare inutili sovrastrutture, non meglio specificate figure di staff, eventi, ricerche di dubbia utilità, porta i finanziatori a ricercare la compressione dei costi di struttura, a preferire casi in cui la totalità delle risorse fluisce dal finanziatore al destinatario, sperando che l’ente di Terzo settore sia in grado di produrre tutto ciò in assenza di costi di struttura; salvo poi meravigliarsi se è difficile per tale l’ente partecipare in modo competente e continuativo ai tavoli di lavoro, raccogliere dati sulla propria attività, elaborarli, investire nel confronto con altri soggetti e così via.

Facciamo un parallelo: nelle competizioni la legge richiede obbligatoriamente la previsione di costi per la sicurezza sul luogo di lavoro, che vanno considerati non comprimibili in sede di offerta; certo che poi vi può essere chi, malgrado disponga di tali risorse, non mette i propri lavoratori al sicuro e ciò va individuato e perseguito, ma non porta a mettere in dubbio che sia opportuno investire in sicurezza. Allo stesso modo, tutto ciò che fa di un ente di terzo settore un soggetto pensante, capace di partecipare, di analizzare, ecc. non è forse da imporsi per legge, ma va considerato tra gli elementi che debbono essere previsti e per i quali è giusto sostenere costi, non in relazione al momento singolo in cui si partecipa ad un tavolo di lavoro, ma in generale, in ogni forma di relazione con un finanziatore pubblico o filantropico: se in ciascuna coprogettazione, bando per contributi, appalto, ecc. – si tenesse conto a dovere di questo elemento, il problema della partecipazione ai tavoli sarebbe affrontato alla radice, in quanto – non come “gettone” per la partecipazione ai tavoli, ma in via ordinaria – gli enti di Terzo settore disporrebbero di strutture tali da poter più agevolmente, tra le altre cose, prendere parte con competenza e contributi originali in occasione di momenti collaborativi. Utopia? Sì, se guardiamo il dato odierno, parrebbe proprio che lo sia. Ma nel momento in cui questi contenuti sono dimenticati non solo dai finanziatori, ma dal terzo settore stesso, il problema diventa irrisolvibile, mentre affermare e argomentare questi ragionamenti e sperimentarli potrebbe dare luogo a cambiamenti inattesi.   Una seconda pista di lavoro è quella di ragionare su come far sì che le coprogettazioni non riguardino solo ambiti innovativi e stimolanti, ma economicamente marginali. Si tratta di una questione complessa e che va trattata con delicatezza. Certamente alcuni casi di coprogettazioni proposte in contesti territoriali non abituati alla collaborazione e riguardanti interventi di importi economici significativi hanno rischiato di generare dinamiche non dissimili da quelle degli affidamenti; può essere saggio quindi “allenarsi” alla logica collaborativa su interventi nuovi e di dimensioni economiche contenute. Una volta però che i diversi soggetti iniziano a sperimentare la nuova logica, a fidarsi reciprocamente, può essere il caso di valutare un passaggio ulteriore. In sostanza, si chiedono molti enti, è sensato avere positivamente sperimentato i vantaggi della collaborazione e relegarla solo su interventi di entità minima, lasciando che le logiche della competizione pervadano la parte di gran lunga più rilevante del welfare locale? La risposta a questa domanda non è immediata e richiede più di una attenzione. Non sarebbe corretto, infatti, “importare” in una coprogettazione un servizio (un’attività di assistenza domiciliare, un centro giovanile, un servizio territoriale per persone con disabilità, ecc.), laddove si intendesse comunque confermare un impianto di servizio esistente di cui sono già delineate a monte le caratteristiche. Diverso è il caso in cui si scelga di ripensare le risposte al bisogno cui tali servizi danno risposta, di mettere in discussione l’assetto consolidato e di inserire eventuali elementi anche già esistenti entro un insieme di interventi – professionali, mutualistici, volontaristici, di vicinato, ecc. – che rendono di fatto la risposta complessiva frutto di un’attivazione diffusa di più soggetti della società civile. Fatta questa premessa, per quanto riguarda l’oggetto specifico di questo articolo, laddove le coprogettazioni non riguardino solo interventi magari innovativi e stimolanti, ma economicamente trascurabili, ma inizino a dare forma agli aspetti centrali del welfare locale, possono mobilitare una quota di risorse più significativa e quindi divenire più sostenibili per chi vi partecipa. Una cosa è dedicare giornate di lavoro a coprogettare interventi sui quali convergono poche migliaia di euro, un’altra è farlo su interventi complessi con una disponibilità, solo con riguardo alle risorse pubbliche, di alcuni milioni di euro.   Allo stesso tempo, e questa è una terza pista, vi è uno sforzo che riguarda più direttamente il Terzo settore che, come ben evidenzia Scalvini, deve pensare alla riconversione di una quota non marginale delle risorse destinate alla competizione – uffici gare per sopravanzare i competitors, uffici legali per gestire i contenziosi – in risorse dedicate alla costruzione di reti, alla lettura e analisi dei bisogni, alle pratiche di collaborazione. Cosa che diventa possibile nella misura in cui il punto precedente – collaborazione non solo per interventi marginali – rende la competizione non l’unico luogo da frequentare per ottenere le risorse necessarie al sostentamento. E questo a sua volta richiede un cambio culturale e, ragionevolmente, di dirigenza, che deve essere capace ad interpretare questa nuova fase. Tale cambiamento organizzativo non può riguardare solo le singole organizzazioni ma anche le loro relazioni e le reti di varia natura cui esse danno vita. Pur ipotizzando una maggiore disponibilità e una diversa allocazione delle risorse come qui auspicato, è evidente che non è verosimile pensare che ogni piccola organizzazione possieda in modo compiuto tutte le funzioni qui auspicate e quindi strutture in grado di produrre analisi, valutazioni, formazione, cultura, lettura dei bisogni ecc. Questo significa ragionare su quali funzioni collocare a livello di singole organizzazioni e quali a livello di reti.   In conclusione: lo sviluppo vorticoso avvenuto in questi anni porta le esperienze collaborative a doversi misurare forse con la prima “crisi di crescita”, in quanto esse talvolta portano a generare una quantità di incombenze connesse alla partecipazione ai tavoli di lavoro superiore a quanto gli enti interessati in grado di assicurare. Questa pur positiva testimonianza del diffondersi della collaborazione va compresa e affrontata; qui si sono proposte, senza pretesa di completezza, tre piste di lavoro. Si è consapevoli della necessità di affinarle e probabilmente di affiancarle con altre; ma il punto di partenza è appunto assumere consapevolezza circa l’esistenza della questione e dunque circa la necessità di individuare risposte adeguate; il resto, c’è da sperare sulla base di quanto avvenuto nel corso degli anni, emergerà un passo alla volta dalle pratiche, se solo avremo la capacità e la pazienza di osservarle.