Terzo settore. Elezioni 2018


Gianfranco Marocchi | 21 Febbraio 2018

Premessa. Le leggi non nascono dal nulla

Non vi è dubbio che la legislatura che va ora a terminare sia coincisa con uno dei periodi più intensi per il terzo settore italiano. Questo lo si afferma per gli esiti normativi che rappresenteranno l’oggetto principale di questo articolo – la Riforma del Terzo settore in primis, ma anche taluni aspetti del nuovo codice degli appalti; ma anche per il rilievo che, nel bene e nel male, il terzo settore ha avuto nel dibattito pubblico.

 

Il Terzo settore che “non è il terzo ma il primo”, come affermava l’allora presidente del Consiglio Renzi a Lucca nell’aprile 2014 lanciando il percorso che avrebbe portato due anni dopo all’approvazione della Riforma; il Terzo settore e le sue componenti che ricevono attestazioni di fiducia esplicite ( il volontariato ha stabilmente percentuali di fiducia ben superiori a tutte le istituzioni e paragonabili solo a quelle di Papa Francesco) e implicite, come testimoniano le scelte degli italiani in sede di 5×1000. Ma anche il Terzo settore identificato con lo scandalo di Mafia capitale, con la gestione disinvolta dell’accoglienza dei migranti o con le polemiche sui salvataggi in mare da parte delle ONG. Il Terzo settore che, come documentano i dati Istat di pochi giorni fa, cresce nel periodo di crisi in particolare nella componente imprenditoriale della cooperazione sociale, ma anche che riconquista, entro l’Alleanza contro la povertà un ruolo di advocacy inedito, diventando protagonista di uno dei capitoli più importanti del nostro welfare. Il Terzo settore fatto di grandi organizzazioni che si consolidano e si strutturano (sempre Istat ci dice che in 4 anni aumentano del 32% gli enti in cui vi è personale retribuito) e insieme la diffusione di azioni realizzate in forma comunitaria da soggetti limitrofi al terzo settore, fatto di cittadini che si organizzano e partecipano in modalità nuove e poco codificate.

Nel bene e nel male, nei punti di forza e nelle criticità, insomma, il Terzo settore ha avuto una parte di assoluto rilievo in questi cinque anni di vicende italiane e forse non è un caso che taluni esiti normativi abbiano visto la luce proprio in questo contesto.

La riforma del Terzo settore

Sono passati trent’anni da quando si è iniziato – prima a livello regionale, poi statale – ad avvertire l’esigenza di disciplinare i fenomeni associazionistici, di volontariato e di cooperazione sociale; venti da quando le istituzioni hanno iniziato a intravedere il terzo settore come oggetto unitario (è del 1998 il primo protocollo di intesa tra il Forum del Terzo settore e il Governo). Ma sino alla legge 106/2016 e al successivo decreto attuativo 117/2017 (il “Codice del Terzo settore”) mancava una definizione di cosa fosse il Terzo settore e di chi ne facesse parte.

La Riforma ambisce a delineare il perimetro del Terzo settore non solo in termini formali, ereditando dalle leggi di settore i soggetti che ne fanno parte, ma anche e soprattutto tracciando una “carta di identità” del Terzo settore come soggetto che realizza – per le sue finalità, ma anche per le concrete attività svolte – un interesse generale. È un riconoscimento normativo importante, che – al netto di molti aspetti perfettibili – apre la strada ad un ruolo sociale di maggior rilievo nei rapporti con le istituzioni.

Questa apertura di credito non può che legarsi inscindibilmente ad un impianto che coerentemente consenta di identificare chi è dentro, iscritto ad un apposito registro, e chi è fuori dal terzo settore, costruendo un regime di controlli interni ed esterni, formali e basati sulla trasparenza e quindi sul controllo diffuso.

La riforma ha inoltre riguardato il Servizio civile, che aspira a diventare “universale”, cioè aperto a tutti i giovani che intendono fare questo tipo di esperienza e l’impresa sociale, cioè la parte del terzo settore con vocazione imprenditoriale; a questo proposito la Riforma è intervenuta modificando una preesistente normativa del 2005-2006 che aveva avuto scarso effetto pratico e ambisce a rilanciare l’impresa sociale cercando di renderla più attrattiva anche per soggetti diversi dalle cooperative sociali.

Infine la riforma cerca di conciliare una maggiore pregnanza del sistema dei controlli con alcune importanti semplificazioni, come nel caso del riconoscimento della personalità giuridica, resa più agevole in quanto curata direttamente dal notaio in fase di costituzione e sottratta alla logica “concessoria” preesistente; tutto ciò bilanciato da una definizione più stringente delle previsioni di trasparenza.

Se con i decreti attuativi di luglio è stato compiuto un passo decisivo nel percorso di implementazione della riforma, la sua piena operatività è per molti aspetti ancora lontana; alcuni punti fondamentali che richiedono uno sforzo organizzativo non indifferente da parte delle pubbliche amministrazioni come l’istituzione del Registro, entreranno pienamente in vigore nel 2019, così come sono previsti tempi di adeguamento degli statuti. Le parti fiscali e di incentivazione entreranno in vigore dopo il placet dell’Europa e molti decreti applicativi sono ancora approvare. Senza contare che – come è per alcuni versi fisiologico, in una riforma di questa portata – sono presenti nella normativa diverse anomalie che dovranno essere corrette.

Da questo punto di vista alla nuova legislatura è affidato il compito, non scontato, di continuare con determinazione il percorso applicativo, approvando i decreti mancanti (una quarantina) le correzioni necessarie e seguendo l’iter organizzativo delle istituzioni centrali e decentrate cui la Riforma assegna un ruolo.

Il nuovo codice degli appalti

Ma la Riforma non è stato l’unico provvedimento di rilievo per il Terzo settore. Va citato almeno un altro aspetto, quello del nuovo Codice degli appalti (d.lgs 50/2017) che attua le direttive 2014/24/UE (sugli appalti) e 2014/23/UE (sulle concessioni).

Questo provvedimento è importante, culturalmente e per i suoi effetti pratici, per almeno due motivi.

Il primo è che in un contesto che, sulla spinta dei fatti di cronaca come Mafia capitale e di un’onda culturale incline a assolutizzare mercato e concorrenza come soli principi ordinatori in grado di garantire l’interesse collettivo, mostra non poche tendenze ad omologare l’ambito del welfare a qualsiasi altro settore merceologico e gli enti che vi operano a un qualsiasi operatore di mercato, il Codice degli Appalti rimarca invece in modo netto delle differenze. Non è questa la sede per ripercorrere da un punto di vista tecnico la questione, ma le disposizioni comunitarie e poi quelle del nostro Paese riconoscono la peculiarità degli affidamenti di servizi di welfare.

“Certe categorie di servizi, per la loro stessa natura, continuano ad avere una dimensione limitatamente transfrontaliera, segnatamente i cosiddetti servizi alla persona quali taluni servizi sociali, sanitari e scolastici. … Occorre quindi stabilire un regime specifico per gli appalti pubblici aventi per oggetto tali servizi”, evidenziavano le premesse della direttiva 2014/24/UE.

Ma oltre a quanto dice, il Nuovo Codice degli appalti ha meriti nel “non dire”: cioè nel fare salve le modalità di relazione ispirate dalla legislazione speciale e segnatamente dalla 328/2000 e dal dPCM 30/3/2001 e quindi di non intaccare strumenti come la coprogettazione e conseguentemente le normative regionali che la richiamano. Anche l’ANAC ha dato atto di queste peculiarità.

Il secondo motivo è che il Codice degli Appalti modifica e rende di fatto applicabile l’istituto degli “appalti riservati”, cioè la possibilità delle amministrazioni di utilizzare il public procurement per l’inserimento di lavoratori svantaggiati. Rimandando ad altri articoli per gli approfondimenti, è utile comunque sottolineare che tale strumento risulta molto più ampio e flessibile rispetto a quelli precedenti.

 

La principale eredità che la prossima legislatura è chiamata a mettere a frutto si colloca sull’intersezione tra questi temi e la riforma del Terzo settore. Quest’ultima infatti introduce disposizioni profondamente innovative circa la relazione tra enti pubblici e terzo settore, prevedendo di fatto che la co-programmazione e la co-progettazione con soggetti accreditati debbano diventare la modalità “normale” con cui gli enti pubblici si rapportano con il terzo settore, nel welfare come negli altri ambiti di interesse generale. Dare attuazione a questa disposizione e articolarla in modo che venga di fatto applicata dagli enti locali è una delle priorità sulle quali lavorare nei prossimi anni.

Guardando avanti

In generale il tema della relazione tra enti pubblici e terzo settore e dello sviluppo e diffusione di relazioni improntate al principio di collaborazione anziché al principio della concorrenza, è uno dei temi principali che, auspicabilmente, accompagneranno la prossima legislatura. Le buone prassi locali e regionali ci sono, dalle diffuse esperienze di coprogettazione alle forme pattizie. Si tratta di capire se riusciranno a diventare sistema e a dare forma ad una legislazione nazionale che, partendo dalla Riforma, riconosca e valorizzi il terzo settore sia per la sua capacità di contribuire alla definizione delle politiche, sia per la progettazione e realizzazione di interventi sociali entro una logica di collaborazione con le istituzioni locali.

 

Ma vi è anche un altro fronte di estremo interesse. Questi anni, lo si accennava in apertura, hanno visto anche la diffusione di interventi sociali basati su logiche di prossimità. Questi interventi si collocano spesso ai confini del welfare, ma proprio per questo aiutano a sviluppare una logica dell’intervento sociale più ampia e meno assistenzialistica. Empori solidali, housing e co housing, presa in carico comunitaria di aree ed edifici pubblici per restituirli al territorio e farne luogo di servizi, imprese di comunità, social street e molto altro: questi fenomeni aumentano esponenzialmente e, con ogni probabilità, sono destinati a fare evolvere anche i servizi di welfare consolidati. Già oggi stanno entrando nel lessico e nella strategia dei servizi, dall’infermiere di comunità al portiere sociale alla assistente familiare di condominio, ma probabilmente siamo solo all’inizio. Non nel senso che, né nella prossima legislatura né in tempi più lunghi, i servizi consolidati (una strutture residenziale per anziani o un centro diurno per disabili) siano destinati ad essere sostituiti da altre soluzioni a carattere comunitario; ma nel senso che le azioni di prossimità solleciteranno i servizi sino a farli mutare geneticamente ed evolvere infine in qualcosa di diverso; e, forse in un tempo più ampio di una legislatura, vedremo nuovi servizi di welfare pensati e organizzati in modo molto diverso da quello attuale, così come oggi una comunità alloggio per minori risulta incomparabile ad un orfanatrofio di qualche decennio orsono o un servizio di salute mentale è altra cosa da un manicomio.

Ma la strada è tutt’altro che spianata, perché all’interesse per la prossimità si accompagnano (preoccupanti) tendenze all’iper regolazione, a normare ogni cosa in senso professionale e formalizzato, cosa che rende impraticabile ogni (auspicabile) ibridazione con forme di attivazione comunitaria; nella prossima legislatura forse sarà possibile vedere i primi capitoli di questa battaglia.