Gli immigrati irregolari al tempo della pandemia da Covid-19


Maurizio Ambrosini | 27 Aprile 2020

Le sanatorie in genere non sono provvedimenti molto apprezzabili: danno l’idea di uno Stato incapace di far rispettare le proprie leggi, e che alla fine si arrende ai trasgressori. In tal modo rischia di legittimare i loro comportamenti e di incitare altri a imitarli, istituendo dei precedenti.

 

Esistono casi però in cui misure del genere diventano auspicabili e persino necessarie. Non assumerle avrebbe conseguenze peggiori per la collettività. Il principio di legalità a volte deve cedere il passo ad altre considerazioni.

Sono di questo genere le proposte di emersione degli immigrati in condizione irregolare avanzate da più parti negli ultimi giorni. Ne esistono però almeno tre versioni. La prima si riferisce strettamente ai fabbisogni di manodopera del settore agricolo, e ha la ministra Bellanova come principale sostenitrice: regolarizzare gli immigrati privi di permesso di soggiorno affinché possano essere assunti dai produttori di frutta e verdura destinate alle nostre tavole.

 

La seconda versione allarga la platea dei beneficiari: dovrebbero essere regolarizzati tutti coloro che risultano inseriti in un’occupazione, al momento non formalizzata con un contratto a causa dello status legale dell’immigrato. Lo scopo, come è già avvenuto varie volte in passato, è soprattutto quello di far emergere i rapporti di lavoro di fatto esistenti, bonificando la palude del sommerso, contrastando la concorrenza sleale tra chi impiega lavoratori in regola e chi risparmia disattendendo le norme, e aumentare la platea dei contribuenti. Ai datori di lavoro in questo caso si richiede di solito un versamento forfettario all’Inps per compensare in parte i contributi evasi in passato.

 

La terza versione è ancora più universalistica, perché prevede di regolarizzare tutti i soggiornanti. In questi tempi di pandemia, è motivata in primo luogo da considerazioni igienico-sanitarie: l’emersione serve a favorire il controllo delle condizioni di salute, a favorire il passaggio a condizioni di vita più dignitose e quindi a evitare il diffondersi del contagio.

Va in quest’ultima direzione la proposta approvata dall’assemblea del Cnel nella seduta del 22 aprile, anche sulla base di un pronunciamento dei sindacati confederali. Il testo muove da una constatazione: sul territorio nazionale risultano insediate diverse migliaia di immigrati in condizione giuridica incerta e irregolare. Le stime più diffuse propongono una cifra di circa 600.000 persone (Fondazione Ismu).

In parte si tratta di richiedenti asilo denegati, il cui numero è in aumento per effetto delle restrizioni legislative in materia di asilo (in modo particolare i c.d. “pacchetti sicurezza” del 2018), in parte di persone entrate regolarmente ma rimaste sul territorio oltre la scadenza dei termini del soggiorno loro consentito. Va ricordato che da molti paesi europei ed anche extra-europei (oltre cinquanta) è possibile entrare in Italia senza obbligo di visto per soggiorni turistici di durata inferiore ai 90 giorni. Tra questi tutti i paesi dell’area balcanica, l’Ucraina, la Moldova, e diversi paesi latino-americani, a partire dal Brasile.

 

Un dato che è possibile estrapolare dai risultati delle leggi di regolarizzazione del 2002, 2009 e 2012, riguarda il fatto che la maggioranza degli stranieri regolarizzati lavorava nel settore domestico-assistenziale, alle dipendenze quindi di famiglie in larga maggioranza italiane. Genere femminile e provenienza prevalentemente europea completavano il profilo maggioritario degli stranieri regolarizzati.

La proposta di emersione è legata, come si è accennato, all’emergenza sanitaria. La lotta contro la diffusione della pandemia da Covid-19 risulta intralciata dalla difficoltà di raggiungere e monitorare una popolazione che per definizione si trova ai margini della società, non ha diritto di accedere a gran parte dei servizi pubblici, tende a evitare di entrare in contatto con le istituzioni dello Stato. La possibilità di ricevere cure mediche per i soggiornanti irregolari è ristretta per legge alle sole cure “necessarie e urgenti”: se questo dispositivo potrebbe consentire il ricovero nella fase acuta del manifestarsi del contagio, è quanto meno assai incerto che possa assicurare un monitoraggio dei primi sintomi e delle condizioni di salute complessive. In molte città sono attivi ambulatori promossi da istituzioni religiose e associazioni di volontariato che tamponano questa falla nella protezione dei diritti fondamentali, con la collaborazione gratuita di centinaia di medici, ma in tempi come questi non si può certo lasciare al volontariato la salvaguardia dell’igiene pubblica.

In base a considerazioni di questa natura, il governo portoghese ha già disposto un provvedimento di regolarizzazione che risponde a questa esigenza.

 

La soluzione alternativa, quella di un controllo capillare della popolazione immigrata non autorizzata al soggiorno, seguito da detenzione ed espulsione con accompagnamento degli stranieri privi di documenti idonei, si scontra con numerose difficoltà: scarsa dotazione di posti nei Centri deputati al trattenimento (neppure 2.000 in tutta Italia), mancanza di accordi con molti paesi di provenienza e scarsa collaborazione dei medesimi, elevati costi delle espulsioni per via aerea, impossibilità o quasi di effettuare controlli nelle abitazioni private. Le espulsioni effettivamente attuate dallo Stato italiano sono state in tutto 6.514 nel 2017 e 6.820 nel 2018 (IDOS 2019). Nella fase attuale per di più manca completamente la possibilità di organizzare voli di rimpatrio a seguito della chiusura delle frontiere e della sospensione dei collegamenti aerei.

Per la stessa ragione, il potenziale effetto attrattivo di una misura di emersione nei confronti di altri cittadini stranieri provenienti da paesi terzi, risulta nella fase attuale molto ridotto. Il principale canale d’ingresso non è il mare, ma i valichi aeroportuali e stradali, come confermano i dati sulla provenienza degli immigrati residenti (poco più del 20% è di origine africana, ma prevalentemente nord-africana, mentre meno del 10% proviene dalla regione sub-sahariana).

Poiché l’irregolarità del soggiorno in parecchi casi si accompagna alla precarietà delle condizioni alloggiative, il Cnel sollecita inoltre, insieme alla regolarizzazione, la predisposizione di soluzioni abitative idonee a garantire l’accoglienza temporanea delle persone che ne abbiano necessità.

 

Se la finalità generale del documento è quella della tutela dell’igiene pubblica, ad essa se n’è aggiunta una seconda, caldeggiata in modo particolare dalle organizzazioni del settore agricolo: il già menzionato reperimento della manodopera necessaria per le imminenti stagioni di raccolta.

Va ricordato in proposito che i circa 18.000 ingressi per lavoro stagionale consentiti dai decreti-flussi degli scorsi anni saranno quest’anno con ogni probabilità impossibili, o quanto meno tardivi, e che le ipotesi di reclutamento di manodopera stagionale in altri paesi dell’UE sono a loro volta ostacolate dai vincoli alla mobilità transfrontaliera. Né sembrano aver ottenuto almeno finora un riscontro adeguato presso le autorità dei paesi interessati e tra i potenziali candidati.

 

La stessa mobilità interna al nostro paese di lavoratori rimasti disoccupati, nazionali e stranieri, si scontra con vincoli di varia natura: quelli già noti, come la segmentazione del mercato del lavoro, le aspettative dell’offerta di lavoro istruita e tutelata dalle famiglie, il radicamento territoriale delle persone e dei nuclei familiari; e quelli dovuti alla presente emergenza, come i vincoli e le resistenze sia a muoversi, sia ad accogliere chi eventualmente volesse muoversi. È insomma poco realistico pensare che dei disoccupati italiani, coperti dal reddito di cittadinanza o tutelati dalle famiglie, accettino di andare a lavorare nei campi. Anche togliendo loro il reddito, non c’è motivo di credere che si trasformerebbero in braccianti agricoli: fino a due anni fa non disponevano del reddito di cittadinanza, ma non facevano la fila per andare a raccogliere i pomodori.

Raccogliendo le istanze delle organizzazioni di categoria, un provvedimento di regolarizzazione allargherebbe il bacino dell’offerta di lavoro disponibile e presumibilmente interessata alle opportunità di lavoro agricolo stagionale. Fornirebbe inoltre il primo e indispensabile requisito per l’accesso a un contratto di lavoro regolare, alle tutele normative e previdenziali dei lavoratori agricoli, alle iniziative locali di concertazione per una gestione più corretta del lavoro agricolo stagionale. Favorirebbe infine l’allestimento di iniziative idonee per la tutela delle condizioni abitative e igienico-sanitarie dei lavoratori agricoli che non dispongono di un alloggio in prossimità dei luoghi di lavoro.

 

Senza una misura di emersione, appare elevato quest’anno il rischio non solo di carenza di manodopera, ma anche di impiego di manodopera in condizione di soggiorno irregolare, ancora più esposta ad abusi e sfruttamento e ancora meno tutelata sotto il profilo sanitario.

La palla passa ora al governo e al parlamento. Il provvedimento non solo serve, ma serve subito. Adottarlo alla fine dell’emergenza, oltre che della stagione della raccolta, sarebbe una beffa per il paese, e un danno certo per la tutela della salute di tutti.


Commenti