Gli eroi dimenticati nell’emergenza da Covid19


Andrea Bernardoni | 1 Aprile 2020

“Perciò questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull’inquietante argomento dei campi di distruzione. Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi di accusa; potrò piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano”.

Con queste parole, nel 1974, Primo Levi introduceva Se questo è un uomo, libro che raccontando piccoli fatti vissuti dallo scrittore di Torino deportato ad Auschwitz ha aiutato intere generazioni a comprendere cosa fosse accaduto nei campi di sterminio nazisti mettendo a nudo l’umiliazione, l’offesa e il degrado dell’uomo prima ancora che la sua soppressione nello sterminio di massa.

 

Nello straordinario periodo di emergenza che stiamo vivendo alcuni dettagli, piccoli fatti, hanno reso evidente la gerarchia del lavoro sociale ed educativo presente in Italia. Una gerarchia che divide i lavoratori pubblici dagli operatori del Terzo settore, attribuendo ai primi diritti, tutele e protezioni negate ai secondi. Il Coronavirus ha tolto il velo su una realtà, conosciuta da molti, con la quale però sino ad oggi in pochi hanno voluto confrontarsi, in cui i lavoratori pubblici sono al vertice della scala gerarchica nei servizi educativi, sociali e sanitari mentre i lavoratori del Terzo settore sono alla base di questa scala gerarchica, nonostante svolgano lo stesso lavoro o lavori molto simili.

 

Per comprendere meglio questa gerarchizzazione del lavoro sociale ci aiuta fare un piccolo viaggio nell’emergenza analizzando cosa è successo nelle scuole, nella Protezione Civile e i nei media.

 

In primo luogo le scuole. La mattina del 5 marzo, dopo la decisione assunta nella notte dal Governo di sospendere l’attività didattica nelle scuole e nelle università, gli insegnanti hanno continuato a lavorare iniziando a sperimentare forme di didattica a distanza mentre gli educatori, che affiancano gli insegnanti a supporto delle classi con particolari criticità educative, nella gran parte dei casi lavoratori del Terzo settore, già penalizzati perché non retribuiti nei mesi estivi, sono rimasti a casa, senza lavoro, nell’incertezza, senza poter continuare la propria attività educativa.

In secondo luogo la Protezione Civile. L’Italia è arrivata impreparata all’emergenza, questa impreparazione è provata dalla carenza dei più semplici dispositivi di protezione individuale come le mascherine. In questa situazione la Protezione Civile si è fatta carico di reperire questi dispositivi distribuendoli al personale sanitario e sociosanitario. Riservando però la fornitura dei dispositivi di sicurezza solamente al personale pubblico, escludendo da queste forniture tutti gli operatori sociali e sociosanitari del Terzo settore impegnati a garantire servizi essenziali come l’assistenza domiciliare e i servizi residenziali in cui vivono anziani, minori e persone con disabilità. Inclusi gli addetti alle pulizia spesso pagati  pochi euro all’ora grazie agli appalti capestro utilizzati dalle pubbliche amministrazioni nella scelta delle società che organizzano questi servizi. Operatori che si stanno prendendo cura delle persone più fragili e che, però, per la Protezione Civile, non hanno diritto a lavorare in sicurezza.

Infine i media. Carta stampata, televisione e rete ci forniscono senza interruzione informazioni, dati, interviste, commenti sull’emergenza Covid 19. In questa narrazione ci sono gli eroi che stanno “in prima linea a combattere contro il virus”, sono i medici e gli infermieri. Il personale medico ed infermieristico risulta essere particolarmente esposto al rischio di contagio e interessato anche da numerosi decessi. Ma spesso sono citati anche i lavoratori dei supermercati, gli autisti e categorie varie. Tuttavia quello che colpisce è l’assenza dalla narrazione dell’Italia al tempo del Covid 19 degli operatori sociali e sociosanitari, figure centrali nel welfare locale, che entrano nelle case delle famiglie più fragili, spesso a “mani nude”, offrendo adeguato supporto ad anziani, disabili e minori a rischio. Sono lavoratori invisibili, eroi dimenticati.

 

Lo stato di emergenza che stiamo vivendo ha quindi posto in tutta evidenza la gerarchizzazione del lavoro educativo e sociale che si è venuta a creare negli ultimi decenni. Una gerarchia che non riguarda solamente la dimensione retributiva ma che interessa in modo più ampio i diritti, le tutele ed il riconoscimento sociale degli operatori del Terzo settore impegnati nel settore educativo, in quello sociale e sanitario.

 

Per rompere questa gerarchizzazione è necessario l’impegno delle forze economiche, sociali e politiche in modo da arrivare a varare Lo Statuto dei lavoratori del settore educativo, sociale e sanitario che deve:

  1. Garantire pari diritti e tutele a tutti i lavoratori del settore siano essi lavoratori pubblici o dipendenti di organizzazioni private.
  2. Contrastare i meccanismi di precarizzazione del lavoro in ambito educativo, sociale e sanitario.
  3. Assicurare il rispetto dei contratti collettivi di lavoro e contrastare il dumping contrattuale oggi praticato da numerose organizzazioni private e premiato da altrettanto numerose amministrazioni pubbliche.
  4. Vietare l’utilizzo delle gare di appalto per selezionare i fornitori privati dei servizi educativi, sociali e sanitari.
  5. Individuare l’accreditamento e la coprogettazione quali strumenti ordinari per regolare il mercato dei servizi educativi, sociali e sanitari.
  6. Introdurre un meccanismo di adeguamento automatico dei contratti in essere e delle rette dei servizi accreditati ancorato al rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro.

 

Questi interventi sono urgenti e necessari e rappresentano il punto di partenza per costruire un nuovo welfare necessario per ricucire il tessuto sociale del Paese quando l’emergenza sanitaria sarà superata.


Commenti

Condivido, con l’autore, che questa ennesima emergenza stia rendendo evidente qualcosa che, già da tempo, è di fronte agli occhi di tutti e che nel contributo viene individuato nella “gerarchizzazione del lavoro sociale”. Ma questa gerarchizzazione è – a parere di scrive – solo l’esito di processi più profondi che vedono lo stesso Terzo Settore protagonista, passivo purtroppo.

E questa stessa emergenza potrebbe rappresentare un’occasione riflessiva del Terzo Settore su se stesso, su cosa è diventato e su come può ri-definirsi in un mutato contesto che ha contributo esso stesso a modificare.

C’è una dimensione infatti che mi sembra scomparire nell’articolo, che è quella organizzativa. Mi spiego meglio. La gerarchizzazione del lavoro sociale mi sembra possa trovare una delle proprie ragioni nella posizione che le organizzazioni di Terzo Settore hanno assunto nei confronti della pubbliche amministrazioni di cui sono fornitrici. Una posizione di provider economico, delegando in parte al proprio ruolo originario di advocacy e di soggetto competente su temi di rilievo sociale.

Mi chiedo (e sarebbe interessante davvero porsi questa domanda in relazione a molteplici settori): quante delle organizzazioni di appartenenza degli educatori lasciati a casa si sono fatte promotrici presso gli istituti scolastici di quello che la sospensione del servizio avrebbe generato in termini di esclusione e di aumento delle disuguaglianze? Quante sono state in grado di proporre forme alternative di presenza e di supporto, anche nella didattica a distanza, o anche solo trasformando il sostegno scolastico in presenza in altre forme di sostegno, vitali per quegli alunni e per le loro famiglie? Quante organizzazioni di Terzo Settore avevano investito in strumenti digitali e nella possibilità di innovazione sociale che la digitalizzazione rende possibile?

Il punto è che spesso per prime le organizzazioni di Terzo Settore non rivendicano il proprio ruolo utilizzando, in questa rivendicazione, quello che rappresenta la loro principale risorsa, ossia la competenza dei propri lavoratori. Anzi, alcune sono le prime a non essere in grado di valorizzarlo: applicando forme contrattuali contrarie all’etica fondativa (la somministrazione, ad esempio), non promuovendo piani di formazione e di aggiornamento, riducendo alla pura formalità le dinamiche partecipative interne.

Le mascherine erano una responsabilità dei datori di lavoro, a tutela dei propri lavoratori.

Come possiamo chiedere un riconoscimento esterno quando noi stessi abbiamo abdicato ai nostri principi fondativi? Quando siamo nati per creare lavoro e oggi ne produciamo di precario; quando siamo nati per dare voce alle fasce marginali della popolazione e, oggi, non sappiamo più usare il linguaggio della marginalità; quando siamo nati come assunzione collettiva del rischio imprenditoriale per rispondere alle sfide dell’intera società e oggi ci limitiamo ad assumerci rischi solo a fronte dell’esistenza di un contratto?

Eroghiamo servizi, non siamo più in grado di inventarne nuovi e scarichiamo sui nostri lavoratori – facendo leva sulla loro motivazione – i costi dell’assopimento della nostra creatività.

Chiediamo riconoscimento appellandoci al nostro “eroismo”: lo abbiamo fatto – fino a ieri – quando si trattava di migranti, lo facciamo oggi di fronte alla pandemia sanitaria. Non abbiamo bisogno di eroismo. Siamo una componente competente della società che deve – e vuole – tornare ad assumere un ruolo, definendo prima, internamente, i confini e i contenuti di questo ruolo.

Noi per primi sappiamo che è nello spazio della nostra autonomia che decidiamo come le cose possono essere fatte e quello spazio dobbiamo tornare a contrattarlo. Come insegniamo ai beneficiari dei servizi in cui lavoriamo.

Quando penso ai servizi di salute mentale con Basaglia, alle unità di strada negli anni ’90, ai progetti SPRAR prima dei decreti Salvini io non penso a eroi ma a rivoluzionari.

Se vogliamo un rinnovato riconoscimento dobbiamo tornare a essere imprenditori rivoluzionari nella società.