Immigrazione: i dati contro i luoghi comuni


Maurizio Ambrosini | 20 Novembre 2018

Sono usciti nei giorni scorsi due rapporti statistici che aiutano a fare il punto sull’immigrazione nel nostro paese e oltre: il rapporto Caritas-Migrantes 2017-2018 e il Dossier Immigrazione 2018, promosso dal Centro studi e ricerche IDOS e dal Centro studi Confronti. Rispetto a un tema così controverso e politicamente incandescente, rappresentano un serio contributo a riportare la discussione su un terreno più solido e meno emotivo.

 

Anzitutto, i dati ci dicono che i migranti internazionali nel mondo sono 257,7 milioni, certamente in crescita in termini di valori assoluti (erano 173 milioni nel 2000), ma molto poco in percentuale. Rappresentano infatti il 3,4% della popolazione mondiale, di poco superiore al 2,9% dell’ormai lontano 1990. Dunque quasi il 97% degli esseri umani non si sposta dal suo paese di origine, malgrado i problemi che in tante aree del mondo deve affrontare quotidianamente. Inoltre, 111,7 milioni si sono trasferiti in paesi classificati dall’ONU come in via di sviluppo, e solo 146 milioni verso paesi sviluppati. Una fetta consistente dei flussi viaggia sulla direttrice Sud-Sud, e non mancano neppure le migrazioni Nord-Sud, così come tra gli ingressi nei paesi ad alto reddito una componente importante proviene da altri paesi del Nord globale. L’idea di orde di affamati pronti a salpare verso l’Europa si rivela una proiezione delle nostre paure, più che un dato verificabile.

 

Una seconda sorpresa si riferisce al genere dei migranti internazionali: il 48,4% sono donne. Tolta l’Africa, le donne sarebbero in netta maggioranza. Il fenomeno ha a che fare con la combinazione tra i tradizionali ricongiungimenti familiari e il crescente afflusso di donne che partono sole per cercare lavoro. Sono attratte dai fabbisogni di lavoro di cura, di personale infermieristico e di servizi domestici in tanti paesi del mondo, ad alto e medio livello di sviluppo. I sistemi sanitari e assistenziali del Nord del mondo, così come il benessere delle famiglie, dipendono in modo crescente dal contributo di lavoratori provenienti dal Sud e dall’Est, e questi lavoratori sono in grande prevalenza donne.

 

Anche i dati sull’Unione Europea riservano alcune interessanti sorprese. I residenti di nazionalità straniera sono 38,6 milioni, pari al 7,5% della popolazione, ma 17 milioni sono cittadini di un altro paese dell’UE. La mobilità delle persone nella regione è per un cospicuo 44% un fenomeno interno, facilmente spiegabile con le norme che hanno liberalizzato i flussi intracomunitari erigendo invece barriere sempre più rigide nei confronti della mobilità dall’esterno. I residenti nati all’estero sono invece più numerosi, 57,3 milioni (11,2% della popolazione). Ciò significa che nel tempo quasi 20 milioni di stranieri sono diventati cittadini: nei paesi democratici non si rimane stranieri per sempre. La popolazione è composta da una grande maggioranza di residenti storici e da una minoranza di persone che entrano e si stabilizzano, mentre altre escono. Ne consegue che paragonare la popolazione straniera in Italia con quella residente in altri grandi paesi dell’UE è operazione che richiede cautela: solo apparentemente il nostro paese ha raggiunto in tre decenni valori prossimi a quelli della Francia e del Regno Unito. In quei casi le naturalizzazioni (995.000 nell’UE nel 2016) nel tempo hanno fatto transitare milioni di stranieri nella più confortevole condizione di cittadini.

 

Venendo al caso italiano, il dato saliente è la sostanziale stabilizzazione della popolazione immigrata da quattro anni a questa parte, poco sopra i 5 milioni di persone: esattamente 5,33 milioni secondo il Dossier Idos, pari all’8,5% della popolazione. Le migrazioni non sono state fermate dagli accordi con la Libia o dalla mano dura sugli sbarchi dell’attuale governo. E’ un persistente equivoco quello che confonde sbarcati, rifugiati e immigrati. In Italia le norme prevedono 21 tipi di permessi di soggiorno, senza contare coloro che non hanno bisogno di nessun permesso per entrare, cercare lavoro e soggiornare: tipicamente i cittadini di altri paesi dell’UE (attualmente circa 1,5 milioni). La stabilizzazione dei numeri relativi agli immigrati dipende in parte dalle naturalizzazioni, che hanno assunto anche in Italia dimensioni più cospicue negli ultimi anni: 200.000 nel 2016, circa 150.000 nel 2017. Ma soprattutto ha inciso la lunga recessione 2008-2015 e la troppo timida ripresa degli ultimi anni. Per citare un dato molto eloquente, le nascite da cittadini stranieri avevano sfiorato quota 80.000 nel 2012, e sono scese sotto quota 68.000 nel 2017. Pur ammettendo che un certo numero di genitori essendo diventati italiani siano sfuggiti alla rilevazione, è difficile sostenere che stiano invadendo sale parto e asili nido, come pure nutrire la speranza che ci salveranno dal declino demografico.

 

Assieme alla stabilizzazione, l’altro dato di maggior rilievo riguarda la composizione della popolazione immigrata. Anche gli ultimi dati, pur tenendo conto dei recenti ingressi di persone in cerca di asilo dall’Africa (circa 350.000 tra rifugiati riconosciuti e richiedenti in attesa di risposta), confermano un quadro assai lontano dalle rappresentazioni correnti: gli immigrati residenti in Italia sono prevalentemente donne (52%), prevalentemente europei (50,9%, in maggioranza cittadini dell’UE: 30,4% del totale), prevalentemente originari di paesi di tradizione culturale cristiana: qui la stima è più incerta, ma il dato reso pubblico parla di un 57,5% di cristiani contro un 28,2% di musulmani (Caritas-Migrantes).

 

Un altro grande tema di dibattito pubblico si riferisce al rapporto tra l’immigrazione e le casse dello Stato. Gli immigrati sono un fardello o una risorsa per il sistema pubblico? Qui i dati salienti sono due. Il primo è demografico: gli ultrasessantacinquenni sono soltanto il 4% della popolazione immigrata. Il loro impatto sulla spesa pensionistica e sanitaria risulta pertanto modesto, tenendo conto che la spesa sanitaria nell’ultimo anno di vita delle persone è più consistente di tutta quella della vita precedente. Il secondo dato è occupazionale: 2,4 milioni di immigrati hanno un’occupazione regolare (10,5% dell’occupazione complessiva), e quindi sono sottoposti a prelievi fiscali e contributivi. Pur tenendo conto delle spese che l’immigrazione comporta, tra le quali spicca l’accoglienza dei rifugiati, il saldo positivo a favore dello Stato è cospicuo: fra 1,7 e 3 miliardi di euro.

 

Nell’ambito del mercato del lavoro risaltano altri due dati: nei servizi domestici (colf e assistenti familiari, dette comunemente badanti), gli immigrati rappresentano il 70,6% del totale.  Senza di loro, per molte famiglie di classe media sarebbe difficile conciliare lavoro extradomestico, obblighi di cura e una vita privata dignitosa.

Gli immigrati titolari di attività autonome sono invece 587.000 (9,6% del totale). Formano per esempio il 56% dei commercianti ambulanti. Di nuovo, senza di loro alcune attività importanti per la vita quotidiana degli italiani, come i mercati settimanali, sarebbero in crisi per mancanza di vocazioni.

 

Infine, merita un cenno la generazione successiva. I figli di immigrati in Italia sono quasi 1,3 milioni, e 826.000 studenti stranieri sono inseriti nel sistema scolastico italiano. Qui due aspetti meritano una sottolineatura. Il primo riguarda anche in questo caso la quasi cessazione della crescita. Il secondo concerne il fatto che questi alunni “stranieri” nel 60% dei casi sono nati in Italia, anche se la situazione varia molto a seconda degli ordini di scuola, andando dall’85% della scuola dell’infanzia al 27% della scuola secondaria superiore. Le presunte difficoltà linguistiche agli inizi del percorso scolastico, per esempio, dovrebbero essere ormai in gran parte superate. Rimane invece aperto un problema di abbandono precoce della scuola dopo i 17 anni, quando la fuoriuscita riguarda un giovane straniero su tre, contro un 15% per gli studenti con cittadinanza italiana.

Per concludere: una seria politica dell’immigrazione dovrebbe partire da questi dati, invece di immaginare invasioni che non esistono per poter proclamare di averle bloccate.