Professioni sociali e managerialismo


Marilena Dellavalle | 1 Ottobre 2019

L’impatto del managerialismo sul sistema di welfare è oggetto di un dibattito in cui lo si considera responsabile di cambiamenti esclusivamente problematici nel sistema dei servizi alla persona.

Una ricerca condotta in Piemonte nell’ambito di due enti gestori di servizi socio assistenziali territoriali, operanti in un’area urbana e in una suburbana, ha permesso di avvicinare queste tematiche potendo rilevare il punto di vista di chi è impegnato quotidianamente con gli effetti dell’impatto del managerialismo sul lavoro sociale.

Lo studio è stato realizzato con un approccio qualitativo, attraverso l’analisi documentale di delibere e circolari e sessanta interviste, di tipo discorsivo e semistrutturato, che hanno coinvolto dirigenti, responsabili dell’area, assistenti sociali, educatori, operatori socio sanitari e istruttori amministrativi di tali servizi1.

 

Il New Public Management (NPM) ha cercato di operare nel settore pubblico un trapianto di idee e pratiche di quello privato, nell’intento di superare gli effetti perversi del modello burocratico e l’isolamento della Pubblica Amministrazione. A trovare spazio è anche il concetto di accountability, inteso come trasparenza verso l’esterno, implicando quindi la responsabilità delle organizzazioni e dei professionisti di rendere conto dei processi e dei risultati.

 

La ricerca, di cui presentiamo qui alcuni esiti, ha fatto affiorare questioni che si accostano a quanto emerso in altri studi2, come ad esempio la standardizzazione di comportamenti e risultati con la sua esaltazione della razionalità procedurale a fronte dell’estrema soggettività e complessità delle dinamiche affrontate, la misurazione dei risultati con logiche estranee a criteri quali l’influenza degli interventi sul benessere delle persone, la de-responsabilizzazione sostanziale dei professionisti, attraverso processi di mero adempimento delle regole procedurali, e il conseguente isterilimento delle funzioni di natura promozionale. Sono state evidenziate, altresì, alcune specificità legate allo sguardo incentrato sul rapporto fra logiche professionali e manageriali: proliferazione dei livelli gerarchici e aumento del controllo, indebolimento dei confini interprofessionali; va segnalata anche la questione della categorizzazione dei soggetti richiedenti.

 

Alcuni esiti della ricerca

Una prima questione riguarda l’aver incontrato un “managerialismo imperfetto” o “non maturo”3 che, non solo, non è riuscito a combattere i difetti della burocrazia, ma li ha esasperati attraverso la proliferazione di procedure, la standardizzazione di processi, la moltiplicazione delle figure intermedie, i plurimi controlli di conformità attraverso una serie di dispositivi e di pratiche standardizzate che diventano dominanti a scapito della centralità della persona. Se l’attenzione alla trasparenza e all’efficienza dei servizi va annoverata tra le buone ragioni del managerialismo nei servizi sociali, a porsi come problema è la sua traduzione in soluzioni operative caratterizzate da proceduralismo e standardizzazione, opposte al principio della personalizzazione dell’intervento. A subire una forte compromissione è, in generale, la componente relazionale compressa da un imponente incremento di compiti burocratici. Come afferma un operatore «Se tu fai un colloquio dove passi il tempo a compilare venti moduli e hai due nanosecondi per guardare in faccia la persona, va da sé che non riesci a parlarci» [29].

Alcuni intervistati ritengono, invece, che le procedure possano essere viste in una logica che sfidi i professionisti ad applicare iter predefiniti a situazioni complesse e fluttuanti, mettendo a disposizione una profonda capacità interpretativa, come testimonia questo responsabile: « Io vedo degli operatori per cui le procedure sono come una tastiera, allora io suono una musica diversa a seconda della tastiera, a seconda dello spartito che ho […] se io riesco a suonarla, quella lì è la parte creativa perché sostanzia il mio lavoro. Vedo degli operatori che veramente sanno utilizzare come degli strumenti, altri che fanno talmente fatica a starci dietro che alla fine si perde il senso e allora diventa un adempimento» [49]. Altro aspetto positivo è quello della ricaduta delle procedure in termini di tutela degli operatori, come segnala una responsabile: « […] l’altra cosa che valutiamo sempre poco come operatori sociali è che quelle procedure lì possono essere anche di grande tutela per l’operatore perché ti tolgono un po’ dalla solitudine della gestione […] io le vedo come un sentiero, un argine, un ambito dentro il quale stare e che fissa i paletti più grossi, che secondo me non va a togliere nulla dello stile personale e professionale di ognuno»  [37].    Altri ancora evidenziano come la necessità di contrarre la spesa abbia costituito una molla per avviare un riesame dell’attività, coerente con un approccio interessato alla sostenibilità del welfare e della giustizia sociale, come afferma un operatore «[…] il motore è stato quello, il contenimento dei costi che poi, per carità, si declina anche in una revisione più metodologica […] che può anche essere corretta […]» [3].

La partita sembra giocarsi fra a un sistema basato su procedure che siano potenziali guide metodologiche e quelle in cui le stesse si sclerotizzino, diventando espressione di una burocratizzata schematizzazione e scomposizione dell’azione in particelle operative. Se è vero che queste ultime possono essere tese a rendere più facile il necessario controllo, il rischio è quello di semplificare, fino a banalizzarli, compiti relazionali complessi, frammentando la realtà dell’utente che dovrebbe invece vedere garantita una considerazione globale di sé e del proprio contesto.

 

Un secondo elemento riguarda i rischi di deprofessionalizzazione, connessi agli effetti delle trasformazioni socio culturali della post modernità e all’impatto del managerialismo, con conseguente svalutazione dei saperi professionali e riduzione dell’autonomia a favore della standardizzazione di comportamenti e risultati. A emergere dal materiale empirico è anche l’attenuazione dei confini professionali, quando non la tendenza verso la figura dell’operatore unico, come si evince da l’affermazione di una responsabile: «[…] negli ultimi anni si sta diffondendo questa cultura […] sono pochissimi i lavori che richiedono specificità, per il resto tutti possiamo fare tutto! C’è questa cultura qua … io la trovo avvilente! […] questo tentativo di livellare tutti, di appiattimento, di non riconoscimento di specificità» [1].

Si fa riferimento alla diluizione delle specifiche competenze, a favore di una commistione di funzioni indipendente dalla formazione ricevuta Tale scelta, operata ai vertici delle organizzazioni in una logica top down, appare motivata da esigenze di razionalizzazione della spesa e ottimizzazione delle risorse disponibili. Gli effetti sono percepiti come problema che riguarda in particolare gli assistenti sociali, ma sofferto anche da altre figure: educatori, operatori socio sanitari e amministrativi lamentano, infatti, l’attribuzione di compiti tipici del servizio sociale per cui non si sentono né preparati né motivati. Così un educatore: «Sempre più adesso si cerca di omologare le due figure professionali, come l’educatore fosse la brutta copia dell’assistente sociale» [41].

Per contro, ci si trova di fronte a una configurazione organizzativa che pone in risalto la condivisione e la valorizzazione dei diversi contributi all’interno di gruppi di lavoro, dove la positiva condivisione della responsabilità ha il pregio di attenuare i vissuti di solitudine.

 

Un’ulteriore questione riguarda il ruolo chiave attribuito agli operatori nella realizzazione di piani di selezione dei beneficiari e razionalizzazione della spesa. Gli operatori sociali rispondono alle spinte organizzative e alla carenza di risorse attraverso processi più o meno consapevoli di categorizzazione che privilegiano l’accesso alle situazioni più gravi e urgenti. La logica può essere quella del microrazionamento che, fornendo risposte parziali e circoscritte a chi supera la barriera dell’accesso, rappresenta un compromesso al ribasso fra le richieste di riduzione della spesa e le prestazioni che si valuterebbero opportune4. Nel processo di targeting, la selezione dei soggetti a cui rispondere sembra operata sulla base del criterio della meritevolezza, intesa come capacità e disponibilità all’attivazione che aumenta le probabilità di successo dell’intervento messo in atto dall’organizzazione5. Ci si  collega a quanto prospettato da  Siza, rispetto al concetto di welfare chauvinism6 la cui applicazione «riduce sistematicamente l’accesso ai benefici delle minoranze etniche e altri gruppi sociali vulnerabili e intende rinforzare, allo stesso tempo, la protezione sociale per i cittadini italiani ritenuti meritevoli».

 

Si sottolinea, infine e non slegato da quanto sopra, una preoccupazione legata all’opacità della dimensione socio politica del lavoro sociale che sembra trasferirsi in una certa trascuratezza del lavoro organizzativo e comunitario7. Da un lato, Il management non percepisce un impulso propositivo da parte di chi opera nei servizi a contatto con la cittadinanza, quanto piuttosto un insieme di lamentele e di richieste di risolvere il problema della mancanza di risorse, come spiega un dirigente: «Ci piacerebbe che ci fosse una maggiore interazione di proposte sul cambiamento e […]  non soltanto una richiesta di più risorse» [35]. Dall’altro, gli operatori soffrono la propria estraniazione «[…] non possiamo più partecipare agli incontri con i decisori politici, il nostro punto di vista non è preso in considerazione. Sulle scelte che vengono fatte a livello politico […] lì siamo proprio una nullità» [3].

Aspetto questo che richiede una riflessione articolata e trasversale ai diversi soggetti implicati e che interroga rispetto al ruolo dei servizi sociali e dei loro professionisti e operatori: coinvolti nel promuovere giustizia sociale e nel contrastare pratiche di esclusione, stigmatizzazione e oppressione oppure funzionari del disagio impegnati a razionare le risorse?

  1. La ricerca, diretta dal Prof. Tousijn e condotta con un approccio metodologico qualitativo, ha ricevuto un finanziamento da parte del Consiglio dell’Ordine Assistenti sociali Piemonte. Tousijn W., Dellavalle M. (a cura di), Logica professionale e logica manageriale, Il Mulino, Bologna, 2017. Le citazioni nel testo sono contrassegnate da un numero che rimanda alla codifica delle interviste,
  2. Cfr. Burgalassi M., Promuovere il benessere in tempo di crisi. Una ricerca sugli assistenti sociali nel Lazio, Carocci, Roma, 2012; Ruggeri F. (a cura di), Stato sociale, assistenza, cittadinanza. Sulla centralità del servizio sociale, Franco Angeli, Milano, 2013.
  3. Cataldi L., “I «nuovi» servizi sociali: vecchio managerialismo e moderna burocratizzazione”, in W. Tousijn, W., Dellavalle M. (a cura di), cit.
  4. Cappellato V., “Categorizzazione e microrazionamento. Dilemmi, tensioni, vincoli ed effetti imprevisti” in Tousijn, Dellavalle, cit., 2017, pp. 141- 168.
  5. Cataldi, cit.
  6. Siza R., “Anche in Italia si consolida il welfare chauvinism”, pubblicato su welforum.it il 07/08/2019
  7. Cola P., “Trifocalità e managerialismo”. In Tousijn W., Dellavalle M., cit., 2017, pp. 237-84