20 anni dalla legge 328/2000: nodi aperti per gestire il welfare locale


Maurizio Motta | 1 Dicembre 2020

Il modo migliore per celebrare quella che voleva essere una cruciale riforma del welfare è di guardare al futuro, per chiedersi che cosa c’è oggi da fare per migliorare i meccanismi che consentono di gestire i servizi sociali. E non pochi sono gli snodi che meriterebbero azioni, sia a livello locale che nazionale. Discutiamone qui alcuni.1

La gestione locale in capo ad un soggetto sovra comunale

La 328 ha incentivato positivamente la gestione associata da parte dei comuni singoli, con la messa in opera di diffuse forme di governo locale sovra comunale. E non vi è dubbio che l’esperienza ha dimostrato che questa modalità di governo locale dei servizi sociali è indispensabile sia per garantire uniformità di offerte nei comuni, sia per fruire di economie di scala. Ma molte criticità rimangono aperte sul tema, e richiederebbero azioni:

  • È presente un disegno troppo disomogeneo nelle diverse regioni delle forme di governo associativo dei comuni, con incentivazioni e vincoli che sono inadeguati a garantire una effettiva gestione associata. Ed anche con forme gestionali sovra comunali che non sono sempre efficaci, e con frammentazione nelle attribuzioni di funzioni sugli interventi sociali tra livelli di governo locale differenti. Sono anche presenti eccessive differenze nella messa a disposizione delle risorse da parte dei comuni singoli verso il loro soggetto gestore, il che lo indebolisce o ne complica la capacità.
  • Per costruire politiche locali davvero integrate, e dunque offrire interventi più efficaci perché coordinati (si pensi al contrasto alla povertà, efficace solo se è un mix di politiche/azioni), una precondizione positiva è anche un governo più unificato delle diverse politiche. È quindi utile pensare a soggetti locali che per conto dei comuni siano gestori non soltanto delle funzioni socioassistenziali, ma anche di quelle relative ai servizi educativi, per il lavoro, per l’abitare. Ossia mettere in moto un processo di ricomposizione entro un unico governo locale, che certo sia espressione dei comuni ma in scala territoriale idonea, di più funzioni afferenti al welfare.

 

Le differenze tra regioni

È davvero un luogo comune sentir dire, anche da parte di molti amministratori e soggetti che operano nel welfare, che abbiamo in Italia 20 sistemi sanitari; ma senza poter essere smentiti si può aggiungere che ce ne sono ben di più sociosanitari e sociali, e con grandi differenze (non sempre motivate) anche interne alle singole regioni. Le eccessive differenze tra regioni producono danni gravi:

  • un’eccessiva pluralità degli assetti di governo locale, con la conseguente difficoltà di individuare organi idonei a gestire lo stesso mix di funzioni in tutti i territori;
  • e soprattutto offerte e fruibilità per i cittadini delle prestazioni del welfare eccessivamente differenti, il che produce un “welfare delle diseguaglianze locali”, ossia di fatto cittadinanze sociali che diventano diverse soltanto in base al territorio, non solo con “prestazioni” ma anche con veri e propri “diritti” differenti.

 

È dunque indispensabile superare/ridurre l’enorme differenziazione di modelli e livelli di intervento, spesso presente anche tra i territori interni alla stessa regione.

Poiché questo è spesso un “nervo scoperto” nel rapporto tra Stato e Regioni (e la gestione del Covid-19 lo dimostra tutti i giorni) merita segnalare che evidenziare le difformità regionali come problema non si fonda su un desiderio di semplicistico neo centralismo, oppure sul rifugio entro una rozza uniformità protettiva. Muovere verso maggiori uniformità tra le Regioni non deve essere vissuto come una lesione dell’autonomia regionale, ma come obiettivo per garantire davvero “livelli essenziali uniformi” come prevede la Costituzione, e non solo “livelli essenziali regionali” o (peggio) “locali”. Le stesse Regioni dovrebbero porsi il problema dell’eccesso di disomogeneità, proprio come era accaduto ai Comuni con la 328 che li aveva resi più attivi nel superare le differenze locali entro una gestione associata

 

Ovviamente la ridefinizione dei LEA (in particolare sociosanitari) e dei LEP per il sociale (con relativi obiettivi di servizio) dovrebbero essere tra gli strumenti per ridurre il problema, ma merita segnalare che questa uniformità dovuta alla Costituzione richiede importanti mutamenti anche nel modo di esercitare l’autonomia regionale, la quale non deve incidere su “quali livelli minimi di prestazioni si offrono ai cittadini”, ma solo “sul modo per organizzarle al meglio in quel territorio”. Con attenzione al fatto che spesso “il modo di organizzare” può di fatto modificare nel merito “il livello di prestazioni da garantire”; basti pensare a come modalità operative di assistenza domiciliare ai non autosufficienti possono diventare facilmente sistemi di offerte ed esigibilità radicalmente differenti.

 

L’esigibilità dei diritti e dei livelli essenziali

Esiste una gravissima carenza nella esigibilità per i cittadini dei diritti e dei livelli essenziali, anche in vigenza dei LEA sociosanitari; ad esempio col rischio che nella non autosufficienza l’unico intervento esigibile sia di fatto l’indennità di accompagnamento.

Dunque occorrono livelli essenziali che meglio garantiscano un set di interventi davvero fruibili, ed ovunque, anche se minimi/essenziali. Ciò richiede:

  • non solo la definizione dei LEP per il sociale, ma anche una modifica nella concezione giuridica dei livelli essenziali, LEA sociosanitari inclusi, superando l’impianto di “diritti finanziariamente condizionati”, che subordina rigidamente l’erogabilità alla disponibilità di risorse dedicate;2
  • di garantire risorse finanziarie per i livelli essenziali, sia nel sociale che nel sanitario, adeguate e sicure. L’incertezza delle risorse, o il faticoso e incerto ricorso a risorse solo locali, è tra le cause principali delle attuali eccessive differenze negli interventi prodotti da Regioni e Comuni.

Evitare iniquità nella valutazione della condizione economica dei cittadini

È una valutazione largamente in uso per dimensionare erogazioni o contribuzioni al costo dei servizi (e non solo sociali). Ma usare il solo Isee per valutare la condizione economica dei cittadini produce gravi deformazioni: falsi positivi (ossia nuclei che con l’Isee sembrano poveri e invece non lo sono) e falsi negativi (ossia nuclei che con l’Isee non sembrano poveri e invece lo sono).

E questo accade con qualunque metodo o algoritmo che poggi sul solo valore dell’Isee, a causa di meccanismi insiti nell’Isee, tra i quali ad esempio:

  • i redditi e i patrimoni dell’Isee sono quelli del secondo anno precedente la prestazione, e dunque il nucleo potrebbe intanto essersi impoverito o arricchito. E anche se il nucleo presenta un “Isee corrente” (con redditi più recenti), i patrimoni sono sempre quelli del secondo anno precedente;
  • i redditi valutati nell’Isee sono al lordo delle ritenute fiscali. Perciò un lavoratore dipendente o un pensionato ha dentro il suo Isee una parte di redditi dei quali non dispone (né che ha mai ricevuto): le detrazioni fiscali operate alla fonte prima di ricevere compensi da lavoro e pensione.

Inoltre entro l’Isee non ci sono redditi che è invece necessario valutare per alcune prestazioni, come l’indennità di accompagnamento, che va invece considerata per dimensionare prestazioni come le integrazioni a carico dei Comuni delle rette di ricovero per non autosufficienti (perché nelle strutture l’utente ricevere appunto la tutela per la vita quotidiana alla quale è finalizzata l’indennità) e l’assistenza domiciliare per non autosufficienti (per la stessa ragione, ma lasciando al cittadino una adeguata franchigia sui suoi redditi).

Una revisione dell’Isee appare dunque obiettivo necessario.

 

La programmazione locale e le risorse finanziarie

Diverse criticità incrinano le possibilità di una efficace programmazione locale dei servizi:

  • Migliorare il governo delle risorse finanziarie non è solo questione di “quantità delle risorse”, ma anche dei “modi per veicolarle”; le risorse (nazionali e regionali) arrivano agli enti locali verso la fine dell’anno finanziario, ma se gli enti gestori non ricevono le risorse nei tempi utili a costruire i bilanci, o per lo meno non ne hanno notizia certa all’inizio dell’esercizio finanziario, ogni programmazione diventa un mero esercizio teorico o un’acrobazia di equilibrio e caccia alle risorse. Ed inoltre piovono sui governi locali differenti flussi finanziari, molti settoriali o blindati a specifici obiettivi, ed in diversi momenti. Oppure occorre un lavoro locale con persone che ad hoc si dedichino alla “caccia ai finanziamenti a progetto”, flussi finanziari che fanno attivare iniziative che spesso sono a priori condannate a morte sicura dal termine temporale del finanziamento. Sono tutti meccanismi che impediscono di programmare e gestire in modo organico qualunque welfare locale che voglia essere “un sistema”, e non un collage di “pezzetti di interventi”.
  • È ampiamente caduta la pratica dei “Piani di Zona” previsti dalla legge 328. Ed una delle ragioni è anche la natura dello strumento, perché questi piani devono essere meglio incardinati negli atti ordinari della programmazione locale (DUP, Bilanci, PEG, Piani della performance), in quanto sono questi gli strumenti con i quali gli Enti gestori davvero governano ogni anno scelte e risorse. Senza questa connessione i Piani di zona diventano contenitori di mere ipotesi, sganciate dagli atti gestionali. E questo richiede anche di trovare un equilibrio tra una costruzione del Piano partecipata con molti attori sociali (che crea anche positive reti) e l’esigenza di tempi che siano compatibili con quelli degli atti ordinari di programmazione locale.
  • Se il Piano di zona dei servizi è di “ambito” o comunque di un livello sovra comunale, ma poi la gestione dei servizi è affidata in buona parte ai singoli comuni, la pianificazione diventa inutile; dunque la pianificazione sovra comunale (che è indispensabile) deve essere legata ad una corrispondente organica gestione sovra comunale.
  • Programmare implica conoscere, ma i sistemi informativi esistenti (sia nel sociale che in sanità) non consentono di ricavare in modo adeguato conoscenze ed indicatori sui bisogni e sulle interazioni tra domanda e offerta, anche per l’assenza di interoperabilità e connessioni tra i diversi sistemi e flussi informativi.3
  1. Questa nota è ampiamente ricavata dal lavori di uno dei gruppi promossi da ANCI – Penisola Sociale per riflettere sulle modifiche e le eredità della legge 328/2000. Chi scrive è dunque anche debitore ai partecipanti di quel gruppo per le loro analisi e proposte. Materiali sulle relative iniziative sono reperibili a questo link.
  2. Diverse recenti sentenze anche della Corte costituzionale prevedono che interventi con natura di livelli essenziali non possano essere subordinati alle risorse. Peraltro questo drastico vincolo per i cittadini non è presente in molti altri segmenti del welfare pubblico, ad esempio per l’accesso alla scuola dell’obbligo, agli assegni sociali INPS, ed a molte altre prestazioni.
  3. Solo un piccolo esempio; sui ricoveri in strutture residenziali sono in atto due raccolte di dati e flussi informativi del tutto separati: i flussi FAR (del SSN) e ISTAT (connesso ai servizi sociali)

Commenti