Coprogettare il welfare consolidato


Gianfranco Marocchi | 25 Marzo 2022

Premessa: dopo alcuni mesi di applicazione abbastanza diffusa dei procedimenti di amministrazione condivisa e in particolare di coprogettazioni, iniziano a emergere una mole consistente di dati di esperienza. E in queste esperienze troviamo, come è normale che sia, alcune persone entusiaste e altre perplesse, ma soprattutto ci confrontiamo con domande che nascono quando un fenomeno diventa effettivamente praticato. E spesso queste domande non hanno una risposta netta, desumibile in modo certo dall’applicazione delle norme di riferimento o da altre basi indiscutibili. Si tratta invece di trovare, con pragmatismo e buon senso, soluzioni utili che non siano incompatibili con il diritto; e di favorire la diffusione di tali soluzioni tra i soggetti che, necessariamente, si confronteranno con il medesimo problema. In questo articolo ci si occuperà di uno di questi temi delicati e cioè di come inquadrare i casi in cui si intende procedere ad una coprogettazione nell’ambito dei servizi core del welfare: quindi non una coprogettazione su interventi attivati grazie a risorse occasionali (ad esempio provenienti da un progetto specifico approvato da una fondazione) e generalmente residuali, ma a una coprogettazione che riguarda aspetti consolidati del welfare locale, ad esempio gli interventi e i servizi di maggior rilievo rivolti ad anziani, disabili, minori, famiglie in povertà, ecc.

Prima di entrare nel merito, affrontiamo nell’ordine i seguenti temi: 1) perché si sceglie di considerare questa ipotesi, 2) quali motivi ci spingono a ritenere che sia legittimo e opportuno farlo e 3) quali elementi ci inducono a dubitarne; a questo punto potremo poi provare a proporre delle soluzioni ragionevoli.  

Perché si sceglie di considerare questa ipotesi

Iniziamo quindi dal primo punto: perché si ritiene utile coprogettare interventi nell’ambito del “welfare locale consolidato”. Immaginiamo un ente che si trovi di fronte a queste situazione: ha vissuto un’esperienza positiva di coprogettazione realizzata con risorse contenute – ipotizziamo alcune decine di migliaia di euro – ottenute grazie ad un progetto specifico di una fondazione o dell’Unione europea; si è constatata la potenzialità dell’amministrazione condivisa, il terzo settore è stato attivo e creativo, si è data risposta a bisogni nuovi, si sono coinvolti soggetti della società civile prima lontani dal welfare, si sono create reti inedite. In una parola, si è toccato con mano il fatto che un approccio collaborativo possa avere esiti incomparabili rispetto agli approcci basati sulla competizione. Bene, a fine anno scadono gli affidamenti per i servizi rivolti a persone con disabilità e ci si chiede: è ragionevole ora mandare in soffitta tutti gli elementi positivi che si sono (magari con fatica, inizialmente!) fatti emergere, ritornare ad un approccio prestazionale, è ragionevole ricacciare forzatamente il Terzo settore locale che ha imparato a collaborare in un agone competitivo che ora abbiamo capito essere meno efficace per dare risposta ai cittadini? E quindi, è possibile estendere una logica collaborativa e non prestazionale alla parte consolidata del welfare locale, magari immaginando delle transizioni verso scenari di risposta più aderenti ai bisogni e alle loro evoluzioni?

Quali motivi ci spingono a ritenere che sia legittimo e opportuno farlo

Mossi da questi intenti e desiderosi di estendere l’approccio collaborativo, siamo confermati nella nostra idea da quanto ascoltato in più sedi formativi e da quanto abbiamo letto in tanti articoli: mentre la “vecchia” coprogettazione originata dalla 328/2000 e dal DPCM del 30 marzo 2001 era destinata ai “servizi sperimentali e innovativi”, quella dell’art. 55 si configura come uno strumento “normale”, applicabile in modo diffuso. E da questo usciamo rinfrancati: dunque si può fare, e così potremo moltiplicare i benefici conseguiti su un piccolo progetto anche in una situazione di welfare consolidato dove peraltro le risorse non sono più nell’ordine di decine di migliaia di euro, ma di alcuni milioni. Siamo anche convinti che il Terzo settore possa rispondere bene a questa sfida e che insieme si riuscirà a generare benefici consistenti per i cittadini.

Quali elementi ci inducono a dubitare

Al tempo stesso abbiamo però letto anche un’altra cosa: che si coprogetta e in generale si utilizzano strumenti di amministrazione condivisa laddove gli interventi non siano chiaramente inquadrabili in termini prestazionali. E qui alcuni dubbi di vengono: i nostri servizi per disabili – e lo stesso si potrebbe dire di quelli rivolti a minori e anziani – sono sottoposti a regole piuttosto rigide, dettate da normative regionali e criteri stabiliti per l’accreditamento, che disciplinano le figure professionali, le ore in cui tali figure devono essere impiegate e ancor più nello specifico definiscono addirittura, per fare un esempio, in quali orari e per che ammontare orario una certa figura deve essere presente in un determinato tipo di struttura. Più prestazionale di così! È difficile immaginare di scardinare un sistema così fortemente strutturato, in un modo o nell’altro sempre lì ricadremo, avendo come unico spazio per il lavoro comune la definizione di progetti di gestione, cosa che però è del tutto possibile anche nell’ambito di strumenti competitivi come le gare d’appalto, se fatte decentemente. Cosa fare allora?

Innanzitutto, cosa non fare

Prima di tutto, va esplicitata una soluzione assolutamente non condivisibile, ancorché non assente nelle prassi di taluni enti: quella di indire una coprogettazione di un “centro diurno per disabili” o di “servizio di educativa territoriale per minori”: in altre parole affermare di voler coprogettare un servizio ben definito, tra l’altro di cui spesso le normative provvedono a fissare in modo molto stretto i parametri di funzionamento. Oggettivamente, in questo caso, gli aspetti che possono effettivamente essere lasciati al lavoro dei tavoli sono ben pochi. E sono questi i casi dove la giustizia amministrativa, talvolta, punisce le coprogettazioni, affermando, insieme a contenuti del tutto discutibili (se ne parlerà in un altro articolo), una cosa cui è difficile controbattere: che sotto il nome di coprogettazione si vada in realtà realizzando l’affidamento di un servizio e che quindi si sarebbero dovuti utilizzare altri strumenti, basati per la competizione, utili appunto ad individuare chi detto servizio può meglio di altri realizzarlo.

Trovare la quadra

Come trovare la quadra? Come inserire la parte core del welfare locale in un sistema di amministrazione condivisa, nel momento in cui esso comprende aspetti prestazionali difficilmente evitabili? Va richiamato quanto si diceva in premessa: le risposte sono forzatamente provvisorie e se esse possano superare l’eventuale vaglio della giustizia amministrativa, è impossibile dirlo a priori; ma ciò non esime dal provare, con visione e pragmatismo, a dare qualche risposta.   Il primo e fondamentale elemento è questo: è sicuramente ragionevole che, nel documento progettuale allegato all’avvio del procedimento di coprogettazione, sia descritto lo stato attuale degli interventi, così dando contezza della situazione iniziale; ma tutto ciò rappresenta, appunto, la descrizione di un punto di partenza, mentre il punto di arrivo va lasciato ai tavoli, fatti salvi i criteri generali che è doveroso, da parte dell’amministrazione, indicare. Quindi: è corretto informare i soggetti interessati a coprogettare che attualmente i servizi per disabili consistono in un centro diurno, una comunità alloggio, un servizio domiciliare, ecc.; è giusto documentare il numero di utenti oggi noti in carico ai servizi; è giusto tracciare le linee evolutive per la coprogettazione, affermando ad esempio che sarà necessario, rispetto alla situazione in essere, raggiungere parti del territorio oggi scoperte, aumentare la personalizzazione degli interventi, integrare maggiormente aspetti sociali e lavorativi, ecc. Ma poi le risposte vanno lasciate ai tavoli; e deve essere – nella forma e nella sostanza – lasciata aperta ogni soluzione, compresi assetti delle risposte che non prevedano l’attivazione dei servizi attualmente offerti (e compresa, ovviamente, anche la possibilità che taluni di essi siano riproposti). Laddove taluni di essi siano previsti in forza a diritti soggettivi esigibili dei cittadini, vanno invece richiamati come condizioni esterne, da includere nei ragionamenti dei tavoli solo rispetto alle forme di collegamento con altri servizi e interventi. E laddove si ritenga – a torto o a ragione – che invece l’assetto attuale non debba essere messo in discussione, il consiglio è chiaro: abbandonare l’idea della coprogettazione e concentrarsi su un affidamento fatto il meglio possibile, valorizzando adeguatamente la progettualità gestionale del Terzo settore.   Secondo: vanno in ogni caso lasciati aperti tutti gli spazi di flessibilità che le normative vigenti consentono, compresi quelli eventualmente previsti per iniziative sperimentali, per innovare in modo anche radicale i servizi consolidati, valorizzando appieno l’apporto che i tavoli possono dare per renderli più attenti ai bisogni delle persone. Si tratta di un valore aggiunto prezioso, che rende l’amministrazione condivisa capace, oltre che di creare risposte utili alla cittadinanza, di mettere a frutto il proprio potenziale creativo per far evolvere – in quell’occasione e in generale – risposte tradizionali che oggi sentiamo sempre meno adeguate ai bisogni delle persone. Si pensi, per fare un esempio, alla critica radicale sviluppata da Luca Fazzi nel recente libro pubblicato da Maggioli sui maltrattamenti subiti dagli anziani nelle RSA e di come, ad esempio, quel tipo di strutture potrebbero beneficiare della diffusione di innovazioni immaginate in un contesto di coprogettazione.   Terzo, per quanto possibile vanno configurati oggetti della coprogettazione abbastanza ampi da consentire la messa in discussione degli assetti complessivi di risposta al bisogno. È necessario cioè avere il coraggio di investire i tavoli di un problema (“es. come favorire la permanenza a casa dei nostri anziani il più a lungo possibile”) così da poter valorizzare l’immaginazione nelle risposte, che potranno certo ricomprendere anche tasselli consolidati (ad esempio interventi domiciliari di operatori professionali), ma all’interno di un sistema di interventi complesso, articolato e integrato che costituisce il vero prodotto del lavoro dei tavoli.   Quarto, vanno valorizzate le funzioni di rete. Coprogettare e scegliere di lavorare con un singolo “vincitore” è un’opzione giuridicamente legittima e spesso osservata negli avvisi pubblici, ma che rimanda a contenuti poveri nel lavoro dei tavoli, mentre fare in modo che l’assetto degli interventi sia frutto di sensibilità diverse favorisce esiti non scontati. Questo tema è comunque approfondito in un altro articolo.

Quinto, è doveroso stimolare la corresponsabilizzazione dei partner nel ricercare risorse, perché tutti i soggetti, pubblici e di terzo settore coinvolti nel progetto, sono ugualmente coinvolti nel creare le condizioni perché esso si possa realizzare appieno e possa via via estendersi per rispondere ai bisogni che via via emergeranno; tema, quello della corresponsabilizzazione, da non confondere con le pratiche discutibili di richiesta di “cofinanziamento” (per la differenza tra questi due termini si rimanda a questi articoli 12).   E ancora, è bene introdurre sin dall’inizio forme di flessibilità – ad esempio una revisione periodica degli interventi coprogettati – che ben sia accorda con l’idea che alla base non vi sia la scelta di realizzare un servizio definito, ma di avviare una relazione di reciproco impegno tra Ente pubblico e Terzo settore per mobilitare risorse in vista di un obiettivo condiviso.   In ultimo: in questo quadro di riorganizzazione, è ragionevole pensare che anche il servizio del soggetto pubblico non si consideri immutabile: se il ragionamento porta a rivedere in modo più o meno rilevante l’assetto delle risposte, non è detto che l’organizzazione dell’ente (ad esempio del servizio sociale professionale) resti immutata: potrebbe essere chiamata anch’essa ad evolvere in coerenza con l’esito del lavoro comune: ulteriore segnale che non si è di fronte all’approvvigionamento di una fornitura, ma allo sforzo congiunto di due soggetti accomunati dal medesimo interesse generale per individuare e agire insieme le azioni più utile per lo scopo condiviso.

Conclusioni

Da quanto sin ad ora detto emerge in modo chiaro la distanza tra la pratica (censurabile) di “coprogettare” (?) un servizio consolidato e quella, positiva, di ripensare in modo aperto, nell’ambito di una coprogettazione, il sistema di risposte offerte nell’abito del welfare consolidato in un determinato territorio. È possibile affermare che, laddove si rispettino i punti precedenti, si sia assolutamente certi di non cadere nelle maglie di un giudice amministrativo prevenuto, acriticamente fedele all’ideologia della competizione più che alla Costituzione? No, non è possibile. Non si può avere certezza di ogni aspetto, in questo campo; come del resto nessun affidamento in appalto è in assoluto a prova di TAR. Però è possibile affermare che con una riflessione autentica sugli aspetti sopra richiamati, che porti a ripensare il welfare consolidato, a ridiscuterlo e poi eventualmente anche a confermarne alcuni aspetti come conclusione motivata di un lavoro effettivamente aperto ad ogni esito, allora si può dire che si è fatto quello che era giusto fare per liberare le potenzialità della collaborazione. Anche perché, d’altra parte, il rischio di un doppio binario – nicchie di welfare creativo, innovativo, comunitario accanto a servizi consolidati che si riproducono sempre uguali – è un rischio assolutamente da contrastare.