Allontanamenti dei bambini dalle famiglie di origine

Alcune cose che sappiamo sulla loro efficacia


L’articolo è il frutto di una riflessione condivisa all’interno di LabRIEF (Laboratorio di Ricerca e Intervento in educazione Familiare dell’Università di Padova) a cui hanno collaborato, oltre agli autori firmatari dell’articolo: Ombretta Zanon, Marco Tuggia, Andrea Petrella, Daniela Moreno Boudon, Sara Colombini, Marco Ius.

 

Assistiamo in questi giorni ad un acceso dibattito sulla questione degli allontanamenti dei bambini. Affinché tale dibattito possa condurre a scelte politiche rafforzative del sistema dei servizi per la protezione dell’infanzia del nostro Paese, in questo articolo intendiamo mettere a disposizione una sintesi ragionata delle acquisizioni provenienti dalla letteratura scientifica di settore, dalla frequentazione assidua dei servizi e dall’analisi di best practices ampiamente diffuse nei servizi territoriali italiani. La ricerca costituisce, infatti, un’importante risorsa per l’innovazione delle politiche e delle prassi e consente di fondare le decisioni su letture approfondite e rigorose di fenomeni complessi di interesse pubblico.

 

Gran parte delle conoscenze su cui ci appoggiamo sono già alla base della L.184/1993 così come novellata nella L. 149/2001, delle più recenti raccomandazioni internazionali in tema di tutela dei bambini (quale, ad esempio la risoluzione delle Nazioni Unite 64/142 del 2010, Guidelines for the Alternative Care of Children) e in particolare del corpus costituito dalle Linee di Indirizzo nazionali per l’affidamento familiare del 2012, dalle Linee di Indirizzo per l’accoglienza nei servizi residenziali per minorenni, dalle Linee di Indirizzo sull’intervento con bambini e famiglie in situazione di vulnerabilità, entrambe del 2017.

Tale corpus è il frutto di un lavoro quasi decennale promosso dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali in partenariato con i diversi stakeholders competenti in materia, quali l’ANCI, le Regioni e le Province autonome, esperti del settore, tra cui Università e reti nazionali dei servizi di accoglienza, nonché famiglie affidanti e reti di famiglie solidali e affidatarie.

L’assunto di base di questi documenti riguarda il fatto che negli ordinamenti degli Stati occidentali è diffusa una norma che indica il diritto inderogabile del bambino ad essere protetto e individua la famiglia come il primo contesto che garantisce questa protezione. Tale norma è confermata, fra l’altro, dall’art. 3 della Convenzione internazionale dei diritti dell’infanzia del 1989. Qualora la famiglia non sia in grado di garantire questa protezione (e questo sovente accade quando sono state insufficienti le forme di sostegno messe in campo a livello istituzionale e le solidarietà inter-familiari: si è tutti più vulnerabili in ambienti sociali vulnerabili), lo Stato, tramite le sue articolazioni, è chiamato ad assumere tale dovere: è quindi il diritto del bambino ad essere protetto che fonda un dovere della famiglia e, successivamente dello Stato, di garantire tale protezione.

 

Ma può lo Stato entrare nel privato della famiglia? A chi appartengono i bambini?
I bambini sono custoditi e protetti dai loro genitori, ma non sono dei loro genitori. Il legislatore occidentale ha superato l’idea del genitore come “proprietario” del figlio, inteso come se fosse un possesso inalienabile e riconosce una responsabilità condivisa nei confronti dei bambini perché i genitori sono i primi educatori responsabili dei loro figli, ma non sono i soli: è nel caldo di una famiglia integrata in reti sociali di prossimità che il compito genitoriale si rende possibile.

La competenza parentale è distribuita nella famiglia, nella famiglia allargata, nelle reti di prossimità, nei servizi della comunità. Perché? La vita delle famiglie è privata, ma è anche pubblica in quanto necessita di forme di solidarietà: il welfare, i servizi educativi, la scuola, le reti sociali sono forme di solidarietà che consentono alle famiglie di rispondere ai bisogni di sviluppo dei loro bambini. L’allontanamento è dunque un provvedimento tramite cui la norma, in forma temporanea (finché la famiglia viene aiutata a recuperare le sue funzioni educative), protegge e garantisce la sicurezza dei bambini e allo stesso tempo mantiene la responsabilità condivisa rispetto a loro. Per questo il sistema di protezione dell’infanzia partecipa a un’idea di società inclusiva e solidale (Lacharité, 2014).

 

Capiamo qui che anche il lessico attualmente in uso nei servizi non sempre è appropriato a descrivere le azioni messe in atto: “allontanare” è ad esempio un verbo che evoca separazioni dolorose, tagli di legami, lacerazioni difficilmente rimarginabili, partenze senza ritorni. Ampliare la prospettiva e integrare il discorso, anche sociale, sull’allontanamento con i termini relativi all’accoglienza significa promuovere forme di collaborazione in grado di ospitare e generare parentele. “Generare parentele – making kin – ed esercitare la premura verso l’altro – making kind – (intesi come categoria, cura, parentele senza legami di sangue, parentele altre e molte altre ripercussioni) sono processi che ampliano l’immaginazione e possono cambiare la storia” (Haraway, 2016, p. 103). La parentela che nasce nell’accoglienza non riguarda la stirpe né la genealogia, è imprevedibile. Per questo si sente la necessità di parole nuove, di neologismi come quello coniato da Skurnick (2015) per indicare una persona che genera legami familiari in modi non convenzionali: kinnovator.

 

Le condizioni di appropriatezza

Per tutte queste ragioni, nei sistemi legislativi e di welfare occidentali in generale, non si pensa a rinunciare alle diverse forme di accoglienza dei bambini fuori famiglia, ma ci si impegna ad approfondire sia nella comunità scientifica, che in quella tecnica, politica e associativa un lavoro volto ad assicurare le condizioni per costruire sistemi qualificati di protezione dell’infanzia.

Per definire tali condizioni, è necessario innanzitutto chiedersi: quando una pratica di allontanamento è appropriata? E cosa vuol dire “appropriata”?

La risposta della comunità scientifica è che l’allontanamento sia efficace quando contribuisce alla costruzione di un permanency planning, o “Progetto quadro”, secondo la dizione diffusa in Italia (MLPS, 2012, 2017a, 2017b), che permetta al bambino di vivere stabilmente in un contesto familiare in grado di garantire una risposta positiva ai suoi bisogni di sviluppo e quindi in grado di contribuire alla formazione delle sue capacità cognitive, sociali ed emotive (Horvat, Platt, 2010; Sinclair, Wilson, Gibbs, 2010).

Quali sono le condizioni perché ciò avvenga? Ossia quali sono, secondo la ricerca internazionale, le condizioni secondo cui possiamo considerare appropriato un intervento di allontanamento, e in quali direzioni è quindi necessario investire? Le sintetizziamo nei seguenti punti:

  • considerare l’allontanamento uno strumento, non la soluzione di un problema; o meglio un dispositivo all’interno di un progetto che considera il bambino nel mondo delle sue relazioni, superando e componendo la dicotomia fra diritti del bambino e diritti del genitore, fra privato della famiglia e pubblico dei servizi. Si tratta di assumere una visione non divisiva ed escludente del cosiddetto allontanamento, secondo cui non si allontana per sostituire una famiglia, quanto per ampliare le risorse di cura e, in questo modo, garantire al bambino la protezione che gli è dovuta. L’allontanamento non produce rotture, ma trasformazioni quando la famiglia di origine può divenire una famiglia allargata che include altre figure educative, che lo Stato ha il dovere di mettere a disposizione (Mc Auley et al., 2008);
  • investire massicciamente nella prevenzione, e in particolare nella prevenzione precoce nei primi tre anni di vita dei bambini, come fase cruciale in cui gli interventi di sostegno alla genitorialità hanno effetti documentati sulla salute mentale, sulla prevenzione dei disturbi dello sviluppo, dei maltrattamenti in famiglia e conseguentemente degli allontanamenti (Feldman, 2004; Vincent, 2010), anche tramite l’implementazione di programmi innovativi, quali in Italia il Programma P.I.P.P.I.;
  • valorizzare la co-genitorialità e la genitorialità sociale: le numerosissime storie di affido e adozione riuscite rivelano che un meccanismo chiave che favorisce la resilienza nei bambini che provengono da situazioni familiari e sociali avverse è l’incontro con “tutori dello sviluppo”, caregivers protettivi e sensibili (o kinnovator) che garantiscono, quanto prima, relazioni affidabili ed educative; che tali relazioni sono possibili dentro e fuori le famiglie biologiche e che i legami di sangue non sono conditio sine qua non di “buona crescita” per i bambini (Biehal, 2012; Belotti et al., 2012);
  • promuovere continuità e collaborazione tra l’area della tutela dei bambini e quella del sostegno alla genitorialità, integrando quindi interventi di carattere clinico, educativo e sociale: si può allontanare un bambino dalla sua famiglia e, allo stesso tempo, lavorare per mantenere una collaborazione con la famiglia di origine, nella direzione del rafforzamento delle risposte ai bisogni di sviluppo dei bambini da parte dei genitori e della rete di cura allargata (Milani, 2018);
  • superare la concezione dell’allontanamento come “ultima spiaggia”: esplorare ogni alternativa prima di allontanare è necessario, ma ciò non significa tenere a casa un bambino “ad ogni costo”. Nel decidere quando allontanare o non allontanare si tiene conto dello sviluppo del bambino? Delle esigenze delle diverse età dei bambini? Quali risultati producono i tentativi realizzati per non allontanare? Come si misurano questi risultati? Un allontanamento tempestivo può essere la base per un progetto rapido e di qualità di riunificazione familiare mentre allontanamenti intempestivi, ritardati nel tempo quasi mai costruiscono valide premesse per la riunificazione familiare. Il punto non è dunque allontanare il meno possibile e/o il più tardi possibile, ma rispondere in modo adeguato ai bisogni di crescita dei bambini garantendo allo stesso tempo protezione del bambino, partecipazione della sua famiglia, permanency planning (Horvat, Platt, 2010; Taylor, Thoburn, 2016);
  • identificare e garantire i livelli essenziali delle prestazioni nelle aree della promozione, della prevenzione e della protezione dell’infanzia, in modo da assicurare uniformità di pratiche a livello nazionale;
  • qualificare le procedure di valutazione – iniziale, continua nel tempo e conclusiva di un percorso – delle situazioni familiari per arginare i rischi della soggettività, dell’arbitrarietà, delle visioni limitate ad un solo approccio disciplinare, in funzione di una pratica realmente interdisciplinare e multidimensionale che sostenga l’appropriatezza dei processi decisionali professionali (Milani, 2019);
  • diffondere un modello di valutazione scientificamente riconosciuto a livello internazionale (basato, come propongono le Linee di indirizzo nazionali sull’intervento con bambini e famiglie in situazione di vulnerabilità, sopra menzionate, sull’Assessement Framework, adattato nel contesto italiano con il nome de Il Mondo del Bambino, Milani, Ius, Serbati, Zanon, Di Masi, Tuggia, 2015), nella cornice di un approccio partecipato che permette agli operatori di raccogliere informazioni relative alla famiglia in maniera accurata, sistematica ed esaustiva: la partecipazione delle famiglie ai progetti che le riguardano è infatti un fattore predittivo di successo dell’intervento di ineludibile importanza (Lacharité, 2014);
  • di conseguenza, rafforzare il sistema dei servizi. Quest’ultima ampia condizione, fra quelle che abbiamo sino a qui citato, ci pare debba essere articolata, nel nostro Paese, in linea molto generale, almeno nei tre punti che seguono:
    • non procrastinare oltre l’integrazione fra servizi sociali, educativi, scolastici, sanitari, della giustizia minorile con l’area delle politiche del lavoro, abitative e della povertà minorile. Era già richiesto dalla L.328 del 2000, ma siamo gravemente in ritardo nel superare i divari territoriali e nel rendere effettive quelle condizioni organizzative che permettono il lavoro e la riflessività in équipe multidimensionale, la costruzione del necessario quadro di dialogo con le famiglie, l’equità di accesso delle famiglie ai servizi, ecc;
    • affrontare con decisione il tema della vulnerabilità sia delle famiglie che delle condizioni organizzative in cui i lavoratori operano nei servizi: il fatto che la funzione di cura dei legami familiari e sociali venga messa in atto da professionisti che talvolta non hanno né hanno adeguata formazione, né adeguate condizioni contrattuali (precariato dei contratti di lavoro, progressiva privatizzazione ed esternalizzazione di servizi pubblici, ecc.), né adeguate risorse per sviluppare e mantenere le competenze di alto livello richieste da questo lavoro caratterizzato da grande delicatezza e responsabilità, rende pressoché impossibile la necessaria qualità nell’intervento con le famiglie. Va qui richiamato il Decreto Legge 4/2019 istitutivo del Reddito di Cittadinanza che afferma un principio basilare: il trasferimento diretto di denaro alle famiglie può essere una misura rilevante di aiuto nel fronteggiare la povertà, ma se si vogliono garantire alle famiglie condizioni di fuoriuscita e non solo di fronteggiamento della povertà e della vulnerabilità in senso più ampio, gli interventi di sostegno al reddito vanno integrati da percorsi personalizzati di accompagnamento delle famiglie e da azioni concrete e finanziate di rafforzamento dei Una di tali azioni è promuovere la collaborazione interprofessionale e garantire agli operatori spazi e tempi di riflessione e confronto. L’abitudine alla condivisione e alla discussione delle pratiche, anche con le stesse famiglie, è un elemento fondamentale nei processi decisionali: la costruzione intersoggettiva dei significati e la lettura condivisa delle situazioni migliora la comprensione delle situazioni;
    • definire un piano straordinario, innovativo e uniforme nel Paese, di formazione per gli operatori che lavorano nelle aree della prevenzione e della protezione dell’infanzia condiviso fra Università, Servizi, Regioni e Province Autonome, ambiti territoriali e ordini professionali, che possa portare il legislatore a emanare un Children Act, che uniformi, sostenga, finanzi, legittimi, rafforzi i servizi garantendo il giusto equilibrio fra le azioni di promozione, prevenzione e protezione dell’infanzia.

 

In assenza di un investimento reale in queste direzioni, rischia di restare sulla carta l’obiettivo, da cui l’Italia non può sottrarsi data la ratifica della Convenzione internazionale, di realizzare i diritti fondamentali dei bambini e di prendersi cura delle loro famiglie e delle loro comunità. Inoltre, letture lineari e imprecise di fenomeni come l’allontanamento rischiano di produrre prassi che indeboliscono, piuttosto che rafforzare, le pratiche e la cultura dell’accoglienza e così di perpetuare il circolo dello svantaggio sociale per molti bambini.


Commenti

Le Vostre riflessioni sono in piena sintonia con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e, conseguentemente, con la Convenzione ONU sui diritti dell’Infanzia.

Sostengo appieno le riflessioni fatte in questo articolo. Lavoro in Lombardia dove disponiamo di buone risorse, tuttavia non sempre ben utilizzate. La frammentazione e l’incapacità di riorganizzare il sistema dei servizi in un’ottica di integrazione, di collaborazione e di multidisciplinarietà rappresentano purtroppo una sfida persa verso il miglioramento della qualità dei servizi dedicati ai minori e alle loro famiglie.