L’esperienza di Caritas Ambrosiana nel contrasto alle diseguaglianze ed allo spreco alimentare
Luciano Gualzetti | 3 Giugno 2021
Nel corso del 2020, le misure assunte per rallentare la corsa del Coronavirus hanno avuto uno spiacevole effetto collaterale: l’aumento delle persone incapaci di provvedere ai loro bisogni primari e che hanno chiesto aiuto alla Caritas per fare la spesa, pagare le bollette del gas e della luce, l‘affitto, la rata del mutuo.
Gli “impoveriti da Covid”, come con una definizione sbrigativa ma in ogni caso efficace, si sono aggiunti alle persone gravemente emarginate e ai poveri cronici.
Sono entrate a fare parte di questa nuova categoria di disagiati molte vittime della Grande Crisi del 2008. Uscite allora dal mercato del lavoro, non ci erano mai più entrate ma erano riuscite nel frattempo a rimanere a galla aggrappandosi alle opportunità offerte dal sottobosco dei “lavoretti”. Parcheggiatore abusivo, idraulico, imbianchino e, all’occorrenza, elettricista, colf e badante e tutti quei lavori in nero che popolano un mondo del lavoro precario e invisibile. Una varietà di attività improvvisamente spazzate via dal primo lockdown ma che il Covid si è incaricato di farci sapere quanto fossero fondamentali per un numero non piccolo di persone persino nella capitale economica del Paese.
In altri casi chi è stato messo con le spalle al muro dal blocco delle attività economiche, invece, un lavoro vero e proprio ce lo aveva. Ma lo stipendio reale che percepiva al netto degli straordinari, magari pagati fuori busta, era in realtà molto misero, al limite della sussistenza. Cosicché quando è arrivata la cassa integrazione (spesso con un clamoroso ritardo, specie quella in deroga affidata alle Regioni), si è ritrovato con un pugno di mosche in mano. È quello che successo, per esempio, a tanti camerieri, cuochi, lavapiatti, custodi di albergo. Lavoratori poco qualificati ma che avevano trovato, specie a Milano, in queste mansioni una chance di integrazione. Che è stata, non solo economica, ma anche sociale per tanti immigrati che negli anni, proprio grazie a questi lavori, erano riusciti ad inserirsi, magari anche a ricongiungere le famiglie, facendo arrivare dai propri paesi di origine mogli e figli.
Infine si sono aggiunti ai bisognosi di assistenza coloro che, a dispetto del blocco dei licenziamenti, il lavoro lo avevano già perso. Lavoratori ai quali le aziende non hanno rinnovato i contratti a termine durante il lockdown di primavera o quello “a geometria variabile” dell’autunno. In genere, professionisti nei settori degli eventi o dello spettacolo, anche della salute e del benessere. Settori che sono stati prosciugati in questi mesi lasciando a terra chi vi era impiegato in condizioni più precarie. Persone spesso giovani: dai montatori dei palchi agli addetti alle luci; dal fisioterapista, all’istruttore in palestra.
Questo scenario ha messo sotto pressione il sistema welfare pubblico, ma anche quello offerto da Caritas Ambrosiana.
In particolare, le richieste di aiuti alimentari giunte alle parrocchie della Diocesi di Milano sono più che raddoppiate. Tra il mese precedente al primo lockdown, febbraio, e la fine dell’anno, dicembre, l’incremento è stato più precisamente del 121%. L’aumento di un bisogno primario come quello del cibo è stato dovuto in gran parte proprio all’ingresso nella platea degli assistiti di soggetti nuovi.
Per affrontare questa crescente richiesta di sostegno, Caritas Ambrosiana ha scelto di potenziare la rete degli Empori della Solidarietà, che stava già promuovendo, con l’intenzione di rendere più efficiente ed efficace il sistema di distribuzione di aiuti alimentari effettuato storicamente dalle parrocchie attraverso i pacchi-viveri.
Grazie a questo sforzo, a giugno 2021, sono stati portati a 13 i minimarket solidali, che si aggiungono alle 12 Botteghe Solidali (modalità intermedia tra l’Emporio e la distribuzione dei pacchi viveri) esistenti. Il servizio attualmente copre tre quartieri popolari di Milano (Niguarda, Lambrate e Barona), alcuni popolosi comuni dell’area metropolitana (Baranzate, Cesano Boscone, Garbagnate Milanese, Pioltello, San Giuliano Milanese e Rho), alcuni centri di provincia Saronno, Varese, Lecco (Molteno) e Ponte Lambro, che ricadono nel territorio della Diocesi di Milano.
Nel corso del 2020, proprio gli Empori si sono rivelati una rete di protezione preziosa per di 33.897 persone, di cui il 26,46% minorenni.
Simili a normali minimarket, negli Empori gli utenti fanno la spesa gratuitamente utilizzando una tessera a punti che viene rilasciata dagli operatori e dai volontari Caritas.
A differenza di quello che accade nei dispensari parrocchiali, nei quali gli aiuti sono distribuiti attraverso pacchi che contengono generi di alimenti e quantità standard, negli Empori le persone possono mettere nel carrello ciò che vogliono. Sono loro, non altri al loro posto, a decidere cosa e quanto chiedere, amministrando il patrimonio di punti assegnato in maniera autonoma. Questo aspetto niente affatto marginale li fa sentire responsabili dell’aiuto che ricevono.
Inoltre, la tessera che viene rinnovata ogni 6 mesi, per un massimo di un anno, permette agli operatori di valutare l’evoluzione della situazione di bisogno della famiglia e i progressi che auspicabilmente essa compie, grazie alle risorse che vengono attivate all’interno del welfare ecclesiale e pubblico: ricerca attiva del lavoro, contributi a fondo perduto, borse lavoro.
Non solo. Da un punto di vista meramente organizzativo gli Empori della Solidarietà consentono di effettuare economie di scala e di massimizzare le donazioni.
Delle 1.100 tonnellate di derrate che gli Empori hanno distribuito lo scorso anno, la quota che Caritas Ambrosiana ha dovuto acquistare rappresenta meno di un quarto del totale (21%). La stragrande maggioranza è dipesa dalle offerte delle aziende produttrici direttamente o indirettamente (attraverso il sistema europeo Agea) o di quelle della Grande Distribuzione.
Ciò ha permesso di sollevare le Caritas parrocchiali da oneri finanziari che non sarebbero state in grado di reggere nel tempo e ha reso sostenibile, anche sotto il profilo economico, l’intervento solidale pur di fronte all’esplosione delle richieste.
Inoltre durante questo periodo si è assistito anche ad un altro fenomeno.
A causa dello smart working e più ancora delle limitazioni anti Covid, che hanno colpito in modo particolare il settore, bar e ristoranti hanno acquistato una minore quantità di cibo. Ciò, ovviamente, ha prodotto effetti su tutta la catena produttiva. Per esempio, all’Ortomercato di Milano, tonnellate di frutta e verdura sono rimaste invendute ed avviate al macero. In questo modo, proprio mentre anche nella capitale economica del Paese si allungavano le code di persone che chiedevano aiuto per mangiare, cresceva contemporaneamente lo spreco alimentare. E così in tempi di crisi economica e sociale, lo scandalo dello scarto contro il quale si era levata la voce di papa Francesco è diventato un paradosso ancora più urticante.
Ora proprio i richiami che il Pontefice aveva affidato all’enciclica Laudato si’ uscita mentre a Milano si svolgeva l’esposizione universale dedicata alla nutrizione, ci sollecitano a trovare soluzioni. Dando seguito, e se possibile, perfezionando le politiche e le pratiche che da quell’incontro internazionale erano scaturite. Come ad esempio la legge Gadda dal nome dell’onorevole Maria Chiara Gadda, che ebbe, proprio sulla spinta di Expo Milano 2015, la pazienza e l’intelligenza di riordinare le norme anti-spreco uscite nei decenni precedenti.
Quel testo approvato in maniera bipartisan dalle forze politiche, ha in questi anni effettivamente dato ottimi risultati. Grazie alle semplificazioni e agli incentivi introdotti, sono aumentate le aziende che preferiscono donare, invece che buttare, le cosiddette eccedenze alimentari, vale a dire il cibo che non viene venduto ed è escluso dal circuito commerciale, pure essendo ancora adatto al consumo. Complessivamente è quindi anche cresciuta la quantità di alimenti che è stata salvata e offerta, grazie ad associazioni, enti caritativi e realtà non profit, a chi ne aveva bisogno.
Tuttavia cinque anni dopo, quella legge avrebbe oggi bisogno di un tagliando. Andrebbe ad esempio considerato con maggiore attenzione non solo chi dona (le aziende) ma anche chi riceve e ridistribuisce ai poveri quelle donazioni (il terzo settore).
Reimmettere nel circuito della solidarietà ciò che sarebbe sprecato ha infatti per chi lo fa un costo. Caritas Ambrosiana ne ha un’esperienza diretta. Ad esempio, per salvare dallo spreco la frutta e la verdura proprio dell’Ortomercato abbiamo potenziato il nostro sistema di recupero delle eccedenze alimentari. Il perno di quel sistema è stato affidato ad una cooperativa sociale che impiega manodopera svantaggiata. Ogni mattina quei lavoratori si occupano di selezionare, tagliare, imbustare ed infine congelare insalata, finocchi, carote che non hanno trovato acquirenti. Trasformati in preparati per minestre quelle buste vengono trasportate proprio negli Empori della Solidarietà attraverso i quali giungono sulle tavole di chi ha bisogno.
Tutte queste operazioni (dal recupero, alla lavorazione, al trasporto) ed i mezzi necessari per realizzarle (abbattitori di temperatura, furgoni con celle frigorifere) richiedono investimenti, che non possono contare su particolari sostegni.
Non sarebbe una cattiva idea se oltre a favorire l’accesso al credito delle realtà non profit, si potesse dare loro la possibilità di reimmettere nel circuito commerciale, almeno una parte, di quello che trasformano, in modo da ricavare i margini per remunerare il lavoro che svolgono.
In questa maniera, si creerebbe davvero sul cibo un circuito virtuoso di economia circolare che raggiungerebbe tre obiettivi. Primo: promuoverebbe l’imprenditoria sociale. Secondo: offrirebbe opportunità di reinserimento lavorativo a categorie svantaggiate, tra le quali si potrebbero includere anche gli espulsi dal mercato in seguito alla pandemia. Terzo: si potrebbero ridurre gli sprechi.
In fondo, sarebbe un modo per attuare concretamente proprio quel principio che Papa Francesco nella Laudato si’ riassume nella formula: ecologia integrale.
Nel mondo post Covid che vogliamo immaginare, sarebbe forse questa una delle tante strade possibili su cui provare ad incamminarsi.