Le imprese sociali di comunità
Una (ennesima) formula giuridica o rafforzamento del Terzo settore?
Alceste Santuari | 5 Luglio 2021
Il disegno di legge n. 1650 recante “Disposizioni in materia di imprese sociali di comunità” è stato incardinato, in prima Commissione al Senato, lo scorso 26 maggio.
Il disegno di legge viene presentato in un momento di confusione in ordine al “destino” giuridico e tributario delle organizzazioni non profit: è noto, infatti, che al momento in cui si scrive non è ancora stata comunicata la data di avvio del Runts e non sono certi i tempi del completamento della riforma del terzo settore sotto il profilo fiscale (ad oggi, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali non ha ancora inviato alla Commissione europea la richiesta di autorizzazione per le agevolazioni fiscali previste nei d. lgs. nn. 112 e 117/2017).
A ciò si aggiunge appunto il disegno di legge sulle cooperative di comunità, fattispecie giuridiche che in molte Regioni hanno già ottenuto una loro disciplina.
I provvedimenti regionali che, nel corso degli ultimi anni, si sono susseguiti nell’ambito della disciplina del fenomeno cooperativo caratterizzato da una particolare vocazione sociale hanno anche delineato nuove configurazioni organizzative e gestionali. Queste ultime hanno finito per individuare, sul sostrato giuridico della forma cooperativa, modalità innovative di intervento e di azione, per le quali le Regioni hanno riconosciuto talune provvidenze di sostegno.
Tra queste modalità innovative, indubbiamente, rientrano la “cooperative di comunità”: esse costituiscono una forma moderna di paradigma associativo che, da un lato, testimonia un ritorno di interesse per la comunità e, dall’altro, canalizza i cittadini organizzati in un’esperienza produttiva. Per quanto riguarda il primo profilo (interesse per la comunità), le leggi regionali che hanno inteso regolare la particolare fattispecie della cooperativa di comunità individuano nell’accrescimento delle occasioni di lavoro, nella creazione di nuove opportunità di reddito e nel rafforzamento del tessuto economico locale e sociale delle comunità l’oggetto sociale delle cooperative in parola1. Per quanto attiene, invece, alla produzione di servizi di interesse generale, le leggi regionali che disciplinano le cooperative di comunità individuano nell’erogazione di servizi pubblici, anche locali, e di pubblica utilità, nonché la valorizzazione di beni comuni l’oggetto precipuo dell’azione delle cooperative sociali.
Allo scopo di rafforzare i legami con il territorio, talune leggi regionali prevedono una quota obbligatoria di soci-abitanti nella compagine delle cooperative di comunità.
Le leggi regionali in materia di cooperative di comunità si distinguono altresì per la scelta della forma cooperativa che i promotori di una cooperativa di comunità possono operare. Nei provvedimenti regionali che hanno disciplinato questo fenomeno è possibile rintracciare due distinti riferimenti giuridico-organizzativi. Il primo, utilizzato da quasi tutte le Regioni, riconosce l’impresa di comunità alla stregua di una qualifica applicabile, al ricorrere di determinazione condizioni, a tutte le forme di impresa cooperativa2. Il secondo, adottato dalla sola Regione Emilia-Romagna, identifica la cooperativa di comunità quale espressione della più ampia nozione di cooperativa sociale3. Nelle Regioni in cui le cooperative di comunità possono essere costituite sotto qualsiasi forma giuridica di cooperativa, il legislatore regionale ha inteso offrire ai soci promotori una pluralità di strumenti giuridico-organizzativi, valorizzando, conseguentemente, la forma cooperativa che, tuttavia, deve risultare finalizzata alla promozione, sostegno e sviluppo delle finalità precipue che le cooperative di comunità sono chiamate a realizzare. Per contro, si può affermare che la scelta di privilegiare la cooperazione sociale quale contenitore giuridico-organizzativo in cui versare le attività che devono caratterizzare l’azione e gli interventi delle cooperative di comunità risponda all’esigenza primaria di potenziare il radicamento territoriale, tipico delle cooperative sociali, allargandone l’oggetto sociale, fino a ricomprendere nel medesimo anche il recupero di beni pubblici, quali quelli ambientali e monumentali.
Da ultimo, si ritiene opportuno segnalare che, da un lato, le cooperative sociali acquisiscono la qualifica di impresa sociale ex lege ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. c), legge 6 giugno 2016, n. 106 e del successivo d. lgs. n. 112/2017. Dall’altro, questa possibilità è offerta a tutte le forme di cooperazione che intendano rispettare i requisiti e i vincoli previsti dal d. lgs. n. 112/2017. Al riguardo, pertanto, nell’ambito della libertà statutaria delle esistenti forme mutualistiche, queste ultime, ponendo particolare attenzione a quelle clausole che devono presidiare lo scambio mutualistico e la realizzazione di una finalità di carattere generale declinato a favore della comunità locale, potranno valutare se adottare la nozione giuridica di impresa sociale.
Nel contesto normativo sopra delineato, si colloca il contenzioso avviato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nei confronti dell’art. 5, comma 1, lett. b) della legge regionale dell’Umbria n. 2/2019. L’articolo in oggetto stabilisce che, in ragione del valore sociale e delle finalità pubbliche della cooperazione in generale e delle cooperative in comunità in particolare, le cooperative di comunità possano rientrare tra gli ETS cui è consentito partecipare alle forme di co-programmazione, co-progettazione e accreditamento disciplinate dall’art. 55, Codice del Terzo settore. Secondo il ricorrente, la disposizione dell’impugnato art. 5, comma 1, lett. b) sarebbe stata in contrasto con l’art. 117, comma 2, lett. l) in materia di ordinamento civile, atteso che la legge regionale permette anche alle cooperative di comunità di accedere agli istituti giuridici di cooperazione tra ETS e P.A. previsti dall’art. 55 CTS.
Nello specifico, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha evidenziato che l’art. 55 riserva soltanto agli ETS la possibilità di attivare i percorsi di co-programmazione, co-progettazione e accreditamento e non anche ad altri soggetti che, pur presentando tratti per certi versi assimilabili a quegli degli enti tipizzati, non possiedono la qualifica di ETS.
La difesa regionale, per contro, ha sottolineato che potendo rientrare le cooperative di comunità nella nozione giuridica di impresa sociale e poiché queste ultime sono considerate ETS, le cooperative di comunità non risulterebbero estranee alla definizione di cui al Codice del Terzo settore e, conseguentemente, possono essere “ammesse” alle forme di partnership disciplinate dall’art. 55 del medesimo CTS.
La Corte costituzionale non ha contestato la ricostruzione della ricorrente secondo la quale le cooperative di comunità verrebbero omologate agli ETS richiamati nell’art. 55 CTS. La Corte ha segnalato che la legge regionale Umbria n. 2/2019 non contiene alcuna espressa qualificazione delle cooperative di comunità come ETS. Degno di nota il fatto che la medesima legge regionale lascia un ampio spazio di manovra a quanti intendano costituire cooperative di comunità. Nell’operare la scelta, tornano qui utili le considerazioni svolte in precedenza. Le cooperative di comunità, infatti, possono risultare costituite nel sottotipo della cooperativa sociale ex l. n. 381/1991, in quello della cooperativa a mutualità prevalente, ai sensi degli artt. da 2512 a 2514 c.c. ovvero in quello delle cooperative il cui statuto non contempli le clausole di non lucratività di cui all’art. 2514 c.c.
Da quanto sopra descritto discende che se le cooperative di comunità vengono costituite nella forma della cooperativa sociale esse, ai sensi dell’art. 1, comma 4, d. lgs. n. 112/2017, acquisiscono di diritto la qualifica di imprese sociali. Rimane comunque valida anche l’opzione giuridica secondo la quale le cooperative di comunità possono rispettare tutte le caratteristiche indicate sopra per le imprese sociali e, pertanto, acquisirne la qualificazione giuridica. In entrambi i casi, la Corte ha ribadito che la legge regionale Umbria n. 2 del 2019 non ha alterato l’impianto dell’art. 55 CTS: “le cooperative di comunità saranno infatti qualificate come imprese sociali e quindi come ETS”.
Al contrario di quanto sostenuto dalla difesa regionale, la Corte costituzionale ha tuttavia evidenziato che qualora le cooperative di comunità non rientrassero nella qualificazione giuridica di impresa sociale esse non potrebbero rientrare nel novero degli ETS e, pertanto, non potrebbero accedere alle forme di cooperazione con la P.A. di cui all’art. 55 CTS. In sostanza la Corte costituzionale, nell’affermare che l’art. 55 è applicabile solo agli ETS (comprese le imprese sociali), ravvisando la compatibilità tra le cooperative di comunità come declinate dalla legge umbra e la qualifica di impresa sociale, non censura la legge umbra sempre che ovviamente le cooperative di comunità scelgano effettivamente di qualificarsi come imprese sociali. In altre parole, mostra la via della possibile convergenza tra la cooperativa di comunità e l’impresa sociale.
Non sfugga, per inciso, che anche nel caso di “estraneità” alla qualificazione giuridica delle imprese sociali, la Corte ribadisce la legittimità della legge regionale in parola laddove stabilisce che la Regione definisce “appositi schemi di convenzione-tipo che disciplinano i rapporti tra le cooperative di comunità” le P.A. operanti nell’ambito regionale.
Alla luce di quanto sopra brevemente richiamato, risulta più chiaro il motivo che ha spinto i firmatari del disegno di legge a presentarlo in Parlamento, anche allo scopo di comprendere lo spazio di applicazione delle relative disposizioni normative.
La risposta sembra provenire direttamente dal metodo utilizzato: i proponenti non “inventano” una nuova forma giuridica, ma, prevedendo talune modifiche ai d. lgs. n. 112 e 117/2017, nonché alla legge n. 381/1991 in materia di cooperazione sociale, allargano la sfera di azione delle imprese sociali, per ricomprendervi tutte quelle attività che richiedono e auspicano la partecipazione attiva dei cittadini-utenti, come tipicamente fanno le cooperative di comunità. Quindi, opportunamente, non crea una nuova qualifica – che porterebbe con sé la sempre spinosa questione di equilibrare ex novo vincoli e premialità – ma allarga quella di impresa sociale che viene così ad attrarre a sé una ulteriore categoria di enti che nei fatti condividono l’orientamento a perseguire finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante l’azione imprenditoriale.
In questa prospettiva, il disegno di legge n. 1650, pertanto, delinea un’organizzazione imprenditoriale, fortemente radicata sul territorio, capace di rispondere – inter alia – a molti dei bisogni delle comunità locali (si pensi, per esempio, all’attività di produzione e vendita dell’artigianato locale o a quella di assistenza medica), che con le comunità locali sottoscrive un patto di reciproca integrazione e collaborazione e che dalle stesse comunità locali è partecipata e governata.
Caratterista precipua delle imprese sociali di comunità è proprio la delimitazione dell’ambito territoriale in cui esse devono operare, ritenuta quale “ambito privilegiato” per conseguire un efficace coinvolgimento e responsabilizzazione dei soci che prendono parte al progetto comunitario.
Quest’ultimo, accanto alla promozione dello sviluppo economico e sociale territoriale, da realizzarsi attraverso il coinvolgimento attivo della comunità nella gestione delle risorse (cfr. M. Bianchi, Cooperative di comunità, nuove forme di sviluppo e welfare locale, Working Paper, 2WEL, 3/2021, p. 8), contempla anche le azioni e gli interventi finalizzati a favorire l’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate.
Il disegno di legge si colloca, dunque, in un contesto economico-sociale in cui i principi costituzionali (sussidiarietà, libertà di iniziativa economica, solidarietà, tutela dei diritti sociali) si saldano con la promozione di forme organizzative, gestionali e imprenditoriali vocate alla realizzazione di interessi generali.
Il disegno di legge intende offrire una ulteriore sponda allo sviluppo locale e territoriale, sia in funzione di arginare lo spopolamento delle aree maggiormente disagiate sia nella direzione di promuovere una partecipazione più attiva, consapevole e diretta dei cittadini-imprenditori-utenti-soci.
Tutto ciò in un’epoca storica contrassegnata da forti diseguaglianze sociali e territoriali e dalla necessità di impiegare in modo efficace, efficiente e valutabile i fondi che dovranno giungere dai finanziamenti collegati al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
In ultima analisi, il disegno di legge potrebbe risultare una interessante prova di applicazione del principio di sussidiarietà: enti pubblici ed organizzazioni della società civile alleati, non controparti, partners e non “duellanti”, insieme per realizzare partenariati duraturi e sostenibili capaci di rispondere in modo sempre più adeguato, coerente e moderno alle istanze che provengono dagli strati più deboli della comunità.
I partenariati pubblico-privati, che anche le imprese sociali di comunità possono contribuire a realizzare in modo efficace sul territorio locale, non sottendono la contrapposizione tra amministrazione pubblica e soggetti non lucrativi. Al contrario, essi, muovendo dalla necessaria fiducia reciproca delle parti in causa, si sviluppano intorno ad obiettivi condivisi, ad azioni trasparenti e a responsabilità precise.
Nei partenariati pubblico-privati, enti pubblici e soggetti privati condividono non soltanto l’obiettivo ultimo da realizzare, ma anche le specifiche modalità giuridico-organizzative attraverso le quale quell’obiettivo deve essere conseguito in un’ottica di beneficio per la comunità in cui l’opera, l’attività, il servizio ovvero l’intervento si realizza.
In questo spazio, si collocano le imprese sociali di comunità: forme giuridiche prescelte che, rispetto al passato, si presentano maggiormente flessibili e impiegabili, anche per ospitare progettualità, interventi, azioni e prestazioni frutto della condivisione che si realizza tra istituzioni pubbliche e soggetti del terzo settore.
- Così dispone l’art. 2, comma 2, l.r. Sardegna, 2 agosto 2018, n. 35.
- Tra le leggi regionali, si segnalano quelle della Regione Abruzzo (n. 25/2015), della Regione Basilicata (n. 12/2015), della Regione Lombardia (n. 36/2015), della Regione Puglia (n. 23/2014), della Regione Liguria (n. 14/2015), della Regine Umbria (n. 2/2019) e della Regione Sardegna (n. 35/18). Quest’ultima dispone che “le cooperative di comunità possono essere costituite in forma di cooperative di produzione e lavoro, di supporto, di utenza, sociali e miste in ragione dello scopo mutualistico che le caratterizza” (art. 2, comma 4).
- Si tratta della l.r. n. 12/2014, recante “Norme per la promozione e lo sviluppo della cooperazione sociale”, il cui art. 2, comma 3 recita: “Allo scopo di contribuire a mantenere vive e a valorizzare le comunità locali, le cooperative sociali costituite ai sensi della vigente normativa possono favorire la partecipazione di persone fisiche, giuridiche, di associazioni e fondazioni senza scopo di lucro, che abbiano residenza o la sede legale nella comunità di riferimento della cooperativa stessa, alla costituzione di “cooperative di comunità” che, ai fini della presente legge, sono cooperative che perseguono lo sviluppo di attività economiche a favore della comunità stessa, finalizzate alla produzione di beni e servizi, al recupero di beni ambientali e monumentali e alla creazione di offerta di lavoro.”