Terrorismo, sicurezza e immigrazione
Le conseguenze politiche della riscoperta dei confini
Maurizio Ambrosini | 7 Ottobre 2021
Due eventi delle ultime settimane hanno rilanciato il dibattito sui nessi tra terrorismo, sicurezza interna e immigrazione: il ventesimo anniversario degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e l’apertura a Parigi del processo agli accusati degli attentati del novembre 2015, ricordati da noi italiani soprattutto per la tragica morte della ricercatrice Valeria Solesin.
I timori derivanti dall’impatto dei fenomeni migratori sulla sicurezza interna hanno una lunga storia, in cui rientrano il contrasto delle infiltrazioni anarchiche nell’emigrazione italiana verso gli Stati Uniti a cavallo tra ‘800 e ‘900 (l’epoca del processo a Sacco e Vanzetti), o le diffidenze ricorrenti nei confronti dell’attivismo politico delle diaspore attraverso i confini. Lo spostamento delle competenze in materia di politiche migratorie dai ministeri economici ai ministeri degli interni (a livello UE, nell’ambito della DG Home) era già avvenuto a livello europeo negli ultimi decenni del ‘900. Di certo gli attentati del 2001 e quelli perpetrati negli anni successivi sul suolo europeo hanno tuttavia inasprito la visione dell’immigrazione come un problema di sicurezza nazionale, collocando in primo piano la questione dell’immigrazione non autorizzata.
La sorveglianza dei confini è diventata nel corso del tempo una materia più complessa, in cui gli Stati hanno perseguito l’obiettivo del controllo degli ingressi muovendosi in tre direzioni: verso l’alto, devolvendo alcune attività verso istituzioni e agenzie internazionali, come nel caso dell’UE e della creazione di Frontex; verso il basso, con un accresciuto coinvolgimento delle autorità locali: tipicamente, nell’identificazione degli immigrati non autorizzati e nella loro esclusione dai servizi del welfare locale; verso l’esterno, mediante la responsabilizzazione di soggetti privati, come le compagnie aree e navali, oppure il ricorso ad aziende private per compiti di sorveglianza. I confini sono stati così ridislocati, tanto che in lontani aeroporti del mondo i passeggeri sono tenuti a mostrare di possedere non solo biglietti di viaggio e documenti d’identità, ma anche l’autorizzazione ad accedere ai luoghi di destinazione, mentre agenti aeroportuali dipendenti da società private sono tenuti a controllare l’autenticità e la validità di tali documenti. Una volta entrati sul territorio di uno Stato, i cittadini stranieri sono sottoposti ad altri controlli per poter usufruire di vari servizi pubblici, come le cure mediche o l’istruzione, o di opportunità economiche, come un impiego o una transazione bancaria. Il confine che hanno incontrato al momento della partenza in un certo senso continua a seguirli nel loro soggiorno all’estero, specialmente se manifestano la volontà di insediarsi in un paese diverso da quello di appartenenza.
A questa architettura dei controlli di confine si è aggiunto l’outsourcing della gestione delle frontiere, che ha assunto un ruolo preminente nella prevenzione degli ingressi di persone in cerca di asilo provenienti dalle aree di conflitto, mediante il coinvolgimento dei governi di vari paesi di transito grazie a incentivi economici e pressioni politiche: negli ultimi anni l’UE ha rilanciato questa politica, anch’essa tutt’altro che inedita, attraverso gli accordi con Turchia, Niger, Tunisia, Libia. La dimensione esterna degli accordi internazionali è un tassello cruciale delle politiche di prevenzione dell’immigrazione indesiderata, anche a costo di sostenere governi dai dubbi standard democratici e di pagare un prezzo in termini di credibilità nella protezione dei diritti umani e nel rispetto delle convenzioni internazionali sull’accoglienza dei rifugiati. La vigilanza dei confini e il contrasto delle possibili infiltrazioni di terroristi hanno fornito una potente giustificazione a queste politiche, a dispetto degli scarsi riscontri fattuali di legami tra gli sbarchi e gli attentati sul suolo europeo.
Mediante questi accordi di cooperazione, l’UE tenta di trasformare i paesi ai suoi confini in aree-cuscinetto, concedendo fondi, agevolazioni sui visti, supporto da parte di agenzie come Frontex, addestramento delle guardie di frontiera, fornitura di attrezzature per la sorveglianza, talvolta anche finanziando la costruzione di centri di detenzione.
Mentre l’obiettivo di una politica migratoria comune dell’UE ha raggiunto soltanto alcuni risultati parziali, per esempio nell’elaborazione di norme anti-discriminatorie, l’attenzione dei governi e delle istituzioni comunitarie si è concentrata soprattutto sulla dimensione securitaria. In quest’area, la cooperazione tra gli Stati membri ha conseguito risultati sostanziosi. Un progresso-chiave è consistito nell’istituzione nel 2004 di un’Agenzia europea per la gestione della cooperazione nel controllo dei confini esterni dell’UE, la già ricordata Frontex.
In sintesi, gli Stati membri dell’UE non stanno perdendo il controllo sui flussi migratori, come a volte si sostiene, ma si sono rapidamente adattate alle pressioni interne ed esterne ricorrendo a una combinazione di nuove misure finalizzate a porre sotto controllo l’immigrazione indesiderata.
Un altro aspetto rilevante delle politiche basate sul binomio immigrazione-sicurezza concerne lo sforzo d’integrazione tra controlli esterni e interni. I controlli esterni riguardano la sorveglianza dei confini e le misure collegate, come le politiche dei visti, gli accordi di riammissione, la cooperazione con i paesi di transito e la pressione sui vettori internazionali. I controlli interni invece attengono a quattro ambiti: l’esclusione dai servizi pubblici, come l’edilizia sociale o le cure mediche non urgenti; le misure d’identificazione; la detenzione ed espulsione degli immigrati in condizione irregolare; i controlli sul mercato del lavoro. Sono in generale più difficili da attuare, perché colpiscono interessi propri della società ricevente (come le attività economiche), possono minacciare diritti fondamentali (come il diritto alla salute o alla protezione internazionale), e richiedono la cooperazione di altri attori, come le autorità locali, i servizi di welfare e i professionisti di questi settori. Anche in questo campo tuttavia i governi dei paesi dell’UE hanno assunto con un certo successo diverse iniziative per escludere, espellere, scoraggiare gli immigrati non autorizzati.
La percezione di un Occidente sotto attacco ha inciso anche a livello culturale. Come mostrano vicende emblematiche come i maltrattamenti dei richiedenti asilo sul confine greco o su quello croato, o la loro espulsione verso la Bosnia, o la libertà d’azione lasciata all’agenzia Frontex, i mezzi impiegati per contrastare l’immigrazione indesiderata possono entrare in contrasto con i diritti umani fondamentali. Non sembra però che oggi questo problema disturbi molto i governi interessati e la maggioranza dell’opinione pubblica. Se una maggiore efficienza nella repressione dell’immigrazione povera comporta un sacrificio sul piano dei valori liberali, i governi e gli elettori non paiono nutrire troppe remore ad accettare lo scambio. Sono anzi sottoposti alla pressione di forze politiche ancora meno disposte ad accettare vincoli umanitari rispetto al controllo dei confini.
In questo quadro regolativo emerge un paradosso. Una ragione spesso invocata per il rafforzamento delle misure di sicurezza nei confronti dell’immigrazione riguarda la minaccia rappresentata da flussi migratori “incontrollati”. Tuttavia mentre i flussi di richiedenti asilo e altri tipi di ingressi sono soggetti ad attente procedure d’identificazione e controllo, le migrazioni meno controllate sono in realtà quelle interne all’Unione Europea. È stata una decisione squisitamente politica, anche se premiata in seguito da una rappresentazione culturale consonante, quella secondo cui gli immigrati provenienti dai paesi dell’Est recentemente aggregati all’UE sono stati riconosciuti nel giro di alcuni anni come cittadini europei mobili, con pieni diritti di circolazione nello spazio comunitario: una politica migratoria non dichiarata come tale.
Come mostra questo caso emblematico, i confini non funzionano come muri, ma piuttosto come filtri. Gli Stati sviluppati, malgrado le pressioni securitarie, non applicano in realtà restrizioni indiscriminate, ma piuttosto una selezione dei candidati all’ingresso, ove l’istanza della sicurezza deve essere mediata con altri interessi, sia interni sia relativi agli scambi internazionali. La selezione dei candidati all’ingresso segue oggi fondamentalmente criteri neo-liberali, che possono essere riassunti nella formula delle tre P: i passaporti, i portafogli, le professioni.
Rispetto ai passaporti, va ricordato che nel mondo questi hanno una capacità ben diversa di aprire le porte di altri paesi. Secondo l’Henley Passport Index, basato sui dati forniti dalla IATA, l’organizzazione internazionale delle compagnie aeree, il passaporto più pregiato è quello del Giappone, che consente di entrare liberamente in 190 paesi su 227. Segue Singapore (189), poi Francia, Germania, Corea del Sud (188). L’Italia si colloca al sesto posto (187), insieme a Danimarca, Finlandia, Spagna e Svezia. In coda alla classifica troviamo invece i paesi con i passaporti più deboli, in grado di consentire l’accesso a un numero ristretto di destinazioni: i passaporti di Afghanistan e Iraq permettono di entrare soltanto in 30 paesi, mentre hanno bisogno di essere corredati di un visto per entrare in 196 paesi. Siria e Somalia hanno documenti di poco migliori, con 32 destinazioni accessibili, mentre il Pakistan arriva a 33. Le disuguaglianze sono quindi profonde, più di 1 a 6 tra i primi e gli ultimi della graduatoria.
A livello europeo la selezione degli stranieri relativamente graditi riguarda principalmente il favore accordato ai cittadini dell’Europa Orientale. Si è proceduto anzitutto con l’allargamento dell’UE verso Est già richiamato. Ancora più chiaramente, sotto un governo di centro-destra, Maroni ministro degli Interni, l’Italia nel 2010 ha eliminato l’obbligo del visto per tutti i paesi dell’area balcanica. Il governo Gentiloni nel 2017 l’ha eliminato per l’Ucraina e la Moldova, in ottemperanza a una scelta dell’UE. Più in generale si autorizza facilmente l’ingresso dei cittadini di paesi sviluppati, ma anche di molti paesi intermedi. Il Brasile per esempio, anch’esso sollevato dall’obbligo del visto dal governo Berlusconi-Maroni. Nel complesso, i governi dell’UE non richiedono il visto ai cittadini di una cinquantina di paesi del mondo. Certo, formalmente si tratta di solito di ingressi per motivi turistici e per periodi inferiori ai tre mesi, ma come è ormai sufficientemente noto un cittadino straniero, una volta entrato sul territorio nazionale, non è rimpatriabile né agevolmente né a basso costo.
Anche nella gestione caso per caso delle domande di visto, quando è richiesto, gli studi sul tema mostrano che verso l’Est dell’Europa le autorità dell’UE sono più liberali che verso il Sud del mondo. Anche per questa ragione gli immigrati residenti nell’UE oggi sono prevalentemente europei, mentre non sempre lo erano trent’anni fa, quando la cortina di ferro era ancora chiusa. L’europeizzazione dell’immigrazione è stata quindi un risultato ricercato e attivamente perseguito.
A proposito dei portafogli, i governi autorizzano con favore crescente l’insediamento degli stranieri che si presentano come investitori. In certi paesi anche all’interno dell’UE, come Cipro e Malta, si accorda loro la cittadinanza se investono una certa cifra e assumono una o due persone. Mentre discutiamo di ius soli e ius sanguinis, è stato introdotto lo ius pecuniae: la facoltà di acquistare la cittadinanza grazie alla capacità di investimento, ossia al denaro. Parecchi magnati russi per esempio si sono avvalsi di questa facoltà, aggirando così le sanzioni anti-Putin.
Infine le professioni: con uno specifico permesso, la Carta Blu, l’UE ammette l’ingresso di professionisti di diversi settori. Al di là di questo specifico canale, non entrano solo scienziati ed esperti di tecnologie di punta: la circolazione di migranti qualificati, nell’UE come in tutto il Nord del mondo, riguarda soprattutto il personale sanitario. Per esempio in Lombardia già oggi un terzo degli infermieri provengono dall’estero.
La selezione, esplicita e implicita, dei candidati all’immigrazione su basi geopolitiche è stata quindi accelerata dagli attacchi dell’11 settembre. Ciò significa però che sotto questo aspetto il terrorismo ha raggiunto un obiettivo essenziale: dividere nettamente “noi” e “loro”, impedire mescolanze e transizioni, cristallizzare le appartenenze religiose e culturali. Il cosiddetto scontro di civiltà, che trova nella gestione degli ingressi la sua espressione più pervasiva, ha coinvolto milioni di persone del tutto prive di rapporti con gli attacchi omicidi e di legami con i responsabili. Bloccati nelle loro aspirazioni di mobilità e miglioramento, come pure nelle loro necessità di fuga da guerre e repressioni, difficilmente coltiveranno sentimenti più amichevoli verso l’Occidente.
La selettività derivante dal binomio immigrazione-sicurezza deborda inoltre dall’orizzonte geopolitico a cui si appella. Come mostra in modo emblematico il confine meridionale degli Stati Uniti, pacifici lavoratori di origine ispanica hanno pagato con accresciute restrizioni e massicce espulsioni il conto degli attentati commessi da professionisti benestanti provenienti dall’Arabia Saudita. Il terrorismo ha fornito una potente giustificazione per l’innalzamento di barriere più irte e impenetrabili tra i paesi sviluppati e la componente povera dell’umanità.