La co-progettazione “interpretata” dal Codice degli appalti non è utile
Alceste SantuariGianfranco Marocchi | 29 Novembre 2022
“Articolo 6
Principi di solidarietà e di sussidiarietà orizzontale. Rapporti con gli enti del Terzo settore.
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In attuazione dei principi di solidarietà sociale e di sussidiarietà orizzontale, la pubblica amministrazione può apprestare, in relazione ad attività a spiccata valenza sociale, modelli organizzativi di co-amministrazione privi di rapporti sinallagmatici, fondati sulla condivisione della funzione amministrativa con i privati, sempre che le organizzazioni non lucrative contribuiscano al perseguimento delle finalità sociali in condizioni di pari trattamento, in modo effettivo e trasparente e in base al principio del risultato. Gli affidamenti di tali attività agli enti non lucrativi avvengono nel rispetto delle disposizioni previste dal decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, e non rientrano nel campo di applicazione del codice”
Quello sopra riportato è l’articolo 6 dello schema preliminare di Codice dei contratti pubblici in attuazione dell’articolo 1 della legge 21 giugno 2022, n. 78, recante “Delega al Governo in materia di contratti pubblici”, che il Consiglio di Stato ha trasmesso qualche settimana fa al Governo.
Sebbene si possa riconoscere che l’articolo in parola ribadisce che i rapporti giuridici tra pubbliche amministrazioni e soggetti non lucrativi si possono fondare anche su modelli non concorrenziali, non può non sorgere spontanea la domanda: perché si è avvertita l’esigenza di intervenire (ancora) sui suddetti rapporti, proprio quando il quadro normativo e interpretativo era (ed è) già (finalmente) chiaro?
Invero, in sequenza:
a) la sentenza 131/2020 della Corte costituzionale ha chiaramente delimitato le sfere da una parte del mercato, del sinallagma, del controinteresse tra pubblico e soggetti non pubblici e, dall’altra, quella dell’amministrazione condivisa, della sussidiarietà, della solidarietà e della collaborazione;
b) il Codice dei contratti pubblici (testo vigente), a seguito delle modifiche introdotte dal d.l. 78/2020 (decreto semplificazioni), individua una forma di autolimitazione semplicemente (e correttamente: “fermo restando”) indicando che laddove l’azione amministrativa si muova nella seconda delle sfere di cui sopra, esce dal perimetro del Codice dei contratti stesso ed entra in quello del Codice del Terzo settore;
c) le linee guida approvate con DM 72 del 31/3/2021 hanno offerto agli amministratori una valida guida operativa per orientarsi tra le due sfere sopra richiamate;
d) infine, ANAC, chiudendo una fase che essa stessa aveva contribuito ad inaugurare (cfr. delibera n. 32 del 20 gennaio 2016), con l’alto avvallo del Consiglio di Stato consultato nel procedimento di approvazione, con le linee guida 17 del luglio del 2022 ha chiaramente definito l’estraneità degli istituti del Codice del Terzo settore rispetto al Codice dei contratti pubblici.
In particolare, la sentenza della Corte costituzionale ha ribadito che “è in espressa attuazione, in particolare, del principio di cui all’ultimo comma dell’art. 118 Cost., che l’art. 55 CTS realizza per la prima volta in termini generali una vera e propria procedimentalizzazione dell’azione sussidiaria”, escludendo, conseguentemente, la necessità di ulteriori interventi interpretativi.
Tuttavia, perché lo schema preliminare di decreto di riforma del Codice dei contratti pubblici non contiene soltanto una “autolimitazione” del proprio perimetro applicativo, ma si spinge oltre, chiosando, modificando e, come vedremo, anche creando confusione in ordine ai casi in cui si (dovrebbe) applicare il Codice del Terzo settore, non prendendo atto che il Codice dei contratti pubblici altro non fa che dichiararsi estraneo ad una normativa che ha un proprio percorso altrove definito?
Ai sensi dell’art. dell’art. 6 riprodotto in apertura, gli istituti dell’amministrazione condivisa si applicherebbero, ai casi di “attività a spiccata valenza sociale”. E cosa sarebbero tali attività “a valenza sociale”, per giunta “spiccata”? Vi è una radicata tradizione giuridica nel nostro Paese – che parte dal d.lgs. 460/1997, continua con le norme sull’impresa sociale del 155/2006 e si sviluppa infine nel Codice del Terzo settore – che identifica talune attività “di interesse generale”; quelle sappiamo cosa sono, sono elencate, generalmente con riferimenti giuridici precisi ad identificarle, così che un giudice possa eventualmente intervenire dichiarando l’inclusione o meno di un determinato oggetto in tale elenco. Ma, invece, cosa significherebbe “a valenza sociale”? Forse solo le attività di cui all’art. 5, comma 1 lettera a) del 117/2017 (i servizi sociali), così operando sotterraneamente – sempre con buona pace della sostanza democratica – la riduzione di fatto delle attività di interesse generale dalle 26 del codice ad una soltanto? Oppure si intende che “un po’ tutto è sociale” e quindi la locuzione usata è solo un brutto sinonimo delle attività di interesse generale del Codice del Terzo settore? Immaginiamo solo quanto contenzioso amministrativo una norma di questo genere potrebbe generare; e come se non bastasse, in tali imprecisate attività, la valenza sociale deve essere “spiccata”: non ce ne deve essere solo un po’, di valenza sociale, ma tanta! Proviamo a metterci nei panni prima del segretario comunale e poi del giudice amministrativo che si interrogano sul fatto che quell’iniziativa di cui si parla abbia o meno una spiccata valenza sociale e capiamo come questa sola definizione invece di assolvere al giusto ruolo delle norme di chiarire cosa va fatto e cosa no, generi gratuitamente una confusione inestricabile. E sarebbe bastato scrivere “in relazione alle attività di cui all’art. 5 del d.lgs. 117/2017. Sempre che se ne conosca l’esistenza.
A ciò si aggiunga che il medesimo art. 6 stabilisce che l’amministrazione condivisa si attua “a condizione che”. Si tratta di un manifesto retaggio della mentalità che ha caratterizzato l’approvazione del Codice del Terzo settore e precedente alla sentenza della Corte costituzionale n. 131/2020, secondo la quale la “via maestra” doveva essere rappresentata dal Codice dei contratti pubblici e altre, eventuali, vie secondarie, avrebbero potuto risultare percorribili soltanto se fossero ricorse determinate condizioni.
Questa mentalità non solo appare scorretta, ma è anche fuori tempo, poiché, come si è già avuto modo di segnalare, può considerarsi ormai un dato acquisito che i due Codici, quello dei Contratti pubblici e quello del Terzo settore, debbono considerarsi provvedimenti legislativi equiordinati. Essi, pertanto, godono di pari legittimità giuridica e il loro utilizzo dipende soltanto ed esclusivamente dagli orientamenti dell’amministrazione, che in ciò esercita la propria autonomia e discrezionalità. Da ciò discende che non c’è spazio per assoggettare una norma a giustificazione, poiché questo la renderebbe di per sé subordinata e secondaria, in ciò contraddicendo e risultando incompatibile con lo spirito della sentenza della Corte costituzionale n. 131/2020 sopra citata e con gli orientamenti che si sono in questi anni consolidati sul tema.
Intendiamo, inoltre, segnalare che l’art. 6, se approvato con questa formulazione, apporterebbe ulteriore confusione, in quanto esso individua i soggetti non profit con la qualifica di “organizzazioni non lucrative”, nomen iuris che non compare più nel Titolo VII del Codice del Terzo settore, ma che ancora definisce le ONLUS ex d. lgs. n. 460/1997, peraltro, destinate ad essere “superate” proprio in virtù della loro (eventuale) iscrizione nel Runts. Infatti, chi mastica minimamente di questi temi ha ben chiaro che gli istituti del Titolo VII si applicano agli ETS e non alle Onlus e che le due categorie non sono sovrapponibili: non tutti gli ETS (a cui la norma si applica) sono Onlus e non è detto che tutte le attuali Onlus si confermeranno come ETS.
Ma non è finita qui. L’art. 6 elenca un’ulteriore condizione cui dovrebbe essere subordinata l’attivazione di percorsi di amministrazione condivisa tra “organizzazioni non lucrative” e pubbliche amministrazioni. Si tratta della previsione secondo cui gli enti non profit dovrebbero contribuire alle finalità sociali “in condizioni di pari trattamento, in modo effettivo e trasparente”.
Anche in questo caso sembra legittimo chiedersi: poiché l’art. 55 del Codice del Terzo settore, oltre a rifarsi per tutti gli aspetti procedimentali alla legge n. 241/1990 (e quindi ai principi generali dell’azione amministrativa di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza prescritti dall’art. 1 di tale norma) già prevede che “l’individuazione degli enti del Terzo settore con cui attivare il partenariato avviene anche mediante forme di accreditamento nel rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità, partecipazione e parità di trattamento”, per quale motivo il Codice dei contratti pubblici dovrebbe chiosare, sottolineare, evidenziare aspetti già previsti? Forse per un antico pregiudizio che vede gli appalti come il mondo della trasparenza e l’amministrazione condivisa come il luogo dell’opacità?
Un’ulteriore segnalazione riguarda la disposizione che prevede che l’attivazione dell’amministrazione condivisa avvenga in base “al principio di risultato”. Se si muove dall’assunto secondo cui la pubblica amministrazione deve sempre, quando co-programma, quando co-progetta e anche quando appalta, mirare ad ottenere risultati positivi e a non sperperare danaro pubblico e che, da un punto di vista dell’analisi delle policy, è assolutamente auspicabile investire nello studio dei risultati dell’amministrazione condivisa, non si riesce a comprendere la portata dell’inciso sopra richiamato. Si può, invece, immaginare come il “principio di risultato” potrebbe essere evocato in sede di contenzioso amministrativo. Si pensi, per esempio, al caso in cui il ricorrente, avvezzo alle logiche degli appalti e alla propensione a sgomitare che caratterizzano le procedure ad evidenza pubblica di natura competitiva, potrebbe contestare all’ente locale un avviso di co-progettazione, pubblicato senza la comprovata attestazione che esso risulti migliore rispetto all’appalto.
Da un simile approccio discenderebbe un non necessario e inutile “onere della prova” a carico dei processi di amministrazione condivisa, tradendo, altresì, una mentalità che considera quest’ultima alla stregua di un’eccezione, di una via residuale rispetto alla via maestra, che, nell’intenzione di chi ha redatto l’art. 6, dovrebbe essere sempre e solo quella del Codice dei contratti pubblici.
Da ultimo, preme evidenziare che ancorché la bozza di articolo 6 richiami il d. lgs. n. 117/2017, in esso non si trova traccia degli istituti della co-programmazione e della co-progettazione, né appare il termine “amministrazione condivisa”, nello specifico utilizzato dalla Corte costituzionale, ma compaiono termini quali “co-amministrazione” e “affidamenti di attività”, quest’ultimo espressione di una chiara reminiscenza sinallagmatica che dovrebbe sottendere agli accordi con cui enti pubblici e ETS sostanziano i compiti di ciascuno nell’ambito dell’amministrazione condivisa. Tutto questo evidenzia ancor più la poca familiarità degli estensori con il delicato tema trattato. E dire che invece l’ANAC, con le linee guida del 27 luglio scorso, ha trattato la questione nel modo più semplice e nitido possibile, scrivendo: “1. Sono estranee all’applicazione del codice degli appalti, anche se realizzate a titolo oneroso:
a) le forme di co-programmazione attivate con organismi del Terzo settore previste dall’art. 55 del CTS realizzate secondo le modalità ivi previste;
b) le forme di co-progettazione attivate con organismi del Terzo settore previste dall’art. 55 del CTS e realizzate secondo le modalità ivi previste;
c) le convenzioni con le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale previste dall’art. 56 del CTS e stipulate secondo le modalità ivi previste;”.
Chi scrive ritiene che non vi sia alcun bisogno di introdurre nuove e contraddittori interventi in un quadro normativo e interpretativo che ha faticato ad affermarsi nella sua “versione” attuale e che, proprio per questo, richiede ora un auspicato e necessario periodo di armonico consolidamento e di lineare applicazione.
Solo la grande pazienza di Marocchi merita attenzione. Un articolo chiaro e, purtroppo, necessario. Continua l’atteggiamento di sospetto o di aperta ostilità di parte della pubblica amministrazione alle forme di co-programmazione, e co-progettazione. Anche gli avvisi di molte procedure di co-progettazione risentono di questo clima e, spesso diventano solo percorsi di selezione.
Concordo con Mario De Luca, ringrazio Gianfranco e diffondo l’articolo alle ETS dell’accordo di rete con cui collaboro per L’amministrazione Condivisa e agli amministratori sensibili all’argomento e all’argomentazione.
It’s a long way to Tiperery