C’è chi, per essere europeo, combatte


Gianfranco Marocchi | 20 Marzo 2023

I grandi eventi di questi anni portano con sé taluni significati impliciti, che contribuiscono, in qualche modo, a formare la coscienza collettiva. Si tratta di processi non univoci – la presenza di uno stimolo in un senso non esclude che ve ne siano altri di segno opposto; anzi, spesso per reazione, lo genera – che non portano a processi lineari, in cui quindi una certa consapevolezza viene acquisita, si afferma, si rafforza; ma che comunque diventano uno degli elementi del nostro patrimonio culturale, della nostra memoria collettiva.

Così fu il Covid, che insegnò come, in qualche misura, siamo tutti fragili. Ciò non elimina certo l’effetto delle disuguaglianze (insomma, in un lockdown è meglio trovarsi in una villa con maxschermi e idromassaggio, piuttosto che in una casa sovraffollata e con il portafoglio vuoto), ma ha costituito un’esperienza inedita in cui un’intera nazione ha condiviso lutti, timori e restrizioni. Di quanto questo possa, nel medio periodo, far sviluppare quella consapevolezza di un destino comune che in ultima analisi è alla base del fatto che valga la pena destinare risorse al welfare – ad una sanità che funzioni, ad un sistema che non lasci gli anziani soli, che si prenda cura dei ragazzi disorientati e isolati, ecc. -, lo vedremo nei prossimi anni. Ma di questo molto si è scritto, anche su Welforum.it.

E così, ora, sono le vicende legate alla guerra d’aggressione russa in Ucraina, che ha riportato gli europei a scenari che immaginavamo per sempre relegati ad altri angoli di mondo. In questa vicenda c’è però un aspetto che merita attenzione. Lo si coglie nella inattesa resistenza del popolo ucraino e, pur se per ora in dimensioni meno drammatiche nelle recenti manifestazioni in Georgia, la cui immagine simbolo è la donna che resiste agli idranti sventolando una bandiera europea. Il messaggio, in qualche modo inatteso, distonico rispetto ai venti sovranisti di questi anni, è che un certo modello sociale, il nostro, è qualcosa per cui le persone in altri angoli del mondo sono disposti a lottare, anche a costo di pagare prezzi altissimi.

A noi – noi italiani, prima di tutto – questo sembra poco comprensibile. Vi è davvero qualcuno disposto a sfidare gli idranti dei celerini o addirittura il fuoco di un nemico invasore che bombarda e uccide, perché si tiene oltre ad ogni altra cosa a sentirsi e ad essere riconosciuti “europeo” o “occidentale”: per quell’identità che, al contrario, nella nostra scena politica è stata (ed è) oggetto di attacchi anche radicali? Ebbene, sì, è così. Questo merita qualche riflessione.

Sino a prima degli eventi ucraini, diverse circostanze avevano portato in direzioni opposte. Una battaglia ultradecennale e fallimentare per l’“esportazione della democrazia” si era conclusa – metaforicamente – con la fuga americana e occidentale da Kabul: dove il fallimento non stava tanto nella sconfitta militare, ma nel fatto che una cultura profondamente confliggente con quella occidentale era riuscita ad imporsi senza il minimo sforzo, a fronte delle immani spese militari sostenute per contrastarla; e non si era trattato di un insuccesso isolato, perché, al contrario, in tutti gli scenari geopolitici mondiali il tentativo di portare in armi un sistema di vita e di governo simile al nostro si era concluso con esiti disastrosi, spesso tali da ritorcersi contro lo stesso occidente. Un occidente pesantemente attaccato da sinistra e da destra: da sinistra, perché imperialista, da destra, per avere smarrito i valori cristiani e tradizionali. Un occidente destinato a decadere economicamente rispetto alla Cina, un occidente imbelle, incapace di domare irakeni, libici o talebani, smidollato, disorientato. Un occidente dove è in crisi la fede pubblica, dove un messaggio denigratorio sui social viene creduto, rilanciato, diffuso alimentando disgregazione e sfiducia nelle istituzioni e, per quanto riguarda i nostri temi, dove anche il welfare non è immune da questa onda: dai soldi che vanno ai falsi invalidi, ai falsi poveri e al sempreverde ritornello delle assistenti sociali che rubano i bambini. Un occidente forse desiderato da chi arriva da paesi in guerra o in miseria, apprezzato per la sua (immaginata o reale) opulenza, ma non amato per la sua cultura e il suo stile di vita. Un occidente che si dissolve tra particolarismi, sovranismi. Un occidente, e, soprattutto un’Europa, ben lontano dal costituire un modello per cui valga la pena lottare.

Poi il 24 febbraio 2022, il giorno dell’aggressione russa nei confronti dell’Ucraina, probabilmente una giornata che segnerà il futuro (almeno quello europeo) in misura più profonda anche di quanto fece l’11 settembre 2001 e più del 10 marzo 2020, il giorno in cui l’Italia si ritrovò chiusa nel lockdown. L’elenco delle cose che sono cambiate è lungo. È finita la globalizzazione, almeno nei termini in cui l’abbiamo pensata sino ad oggi: affidereste la sicurezza del vostro pc (io lo facevo fino al 24 febbraio) ad un noto antivirus russo? O acquistereste il cellulare con i vostri dati più sensibili da un produttore cinese? Io non ci penserei lontanamente, segno che si è passati da un “mercato globale” ad uno scenario dove giorno per giorno si compongono blocchi mutualmente ostili. E, rispetto alla nostra Europa, è così certo che tra 10 anni il baricentro si collocherà tra i tentennanti Parigi e Berlino e non più a est (non a caso, Limes dedica l’ultimo numero alla Polonia imperiale)? È finito, purtroppo, per i prossimi decenni il pacifismo, come è finita l’idea che l’Europa possa essere un continente definitivamente libero dalla guerra; e tante altre cose.

Ma, accanto a tutto questo, emerge chiaramente un confronto culturale che mette in gioco i fondamenti del sistema democratico, con l’emersione, anche nel nostro paese, di un fronte (non a caso più o meno esplicitamente filorusso), che si rifà a forme di “democrazia attenuata”. Certamente, pensando alle questioni tematicamente a noi più vicine, il tema dei diritti – con l’accanimento, dalla Russia a Milano, contro il mondo LGBT – è un primo facile bersaglio per i fautori della democrazia attenuata, che possono far leva su un misto di tradizionalismo, conservatorismo, clericalismo ben radicati nelle opinioni pubbliche europee; ma, a ben vedere, ciò non è che un tassello di un orientamento, anche questo che unisce idealmente Putin, Orban e Salvini, di un sistema di pensiero che nutre profonda antipatia per il modello di vita occidentale, ammira o rimpiange gli “uomini forti”, è insofferente verso le lungaggini parlamentari, le regole, l’Europa; e che, rispetto al welfare, mentre guarda con ammirazione ai santi sociali della Torino ottocentesca, vede in ogni aiuto un possibile abuso da parte degli aiutati, detesta i  poveri, diffida di chiunque operi in aiuto del prossimo attribuendogli interessi inconfessabili e in generale è convinto che la solidarietà non esista e che chi la sostiene voglia solo cercare il vantaggio economico proprio e dei “furbetti” che indebitamente ne beneficiano (vedi anche questo articolo).

Ma insieme a tutto questo si è riscoperto l’inatteso: ci sono paesi al mondo – e non ci si riferisce a persone disperate che fuggono dalla guerra o dalla fame – che scelgono, per manifestare, la bandiera europea, e che per potersi sentire “europei” combattono strenuamente e a prezzo di sofferenze impensabili. Che sfidano quindi rischi inimmaginabili per avvicinarsi ad uno stile di vita che in alcuni paesi occidentali, una volta dispersa nel tempo la memoria di cosa sono realmente le dittature, rischia di essere visto come un peso anziché come un indicatore di civiltà. Senza dimenticare fatiche e contraddizioni del nostro Continente, ci sono, in altre parole, persone e nazioni che pagano prezzi altissimi perché desiderano essere parte di un sistema in cui gli Stati non confliggono l’uno con l’altro (un risultato mai verificatosi nei 2000 anni precedenti), in cui una comunità di Stati si pone obiettivi comuni per giungere a maggior benessere, contrastare le discriminazioni, rafforzare i diritti – aggiungendo recentemente, tra le altre cose un “pilastro sociale” tra i fondamenti della propria convivenza – affermare libertà e democrazia come principi irrinunciabili (e redistribuire risorse per realizzare questi ed altri obiettivi).

Nella speranza che vedere come tutto ciò rappresenti per alcuni un’aspirazione per cui lottare a costo della propria vita faccia riflettere i paesi che tutto ciò ce l’hanno, ma rischiano di perderlo.


Commenti

Ma, per tanti servizi TV sui georgiani aggrediti dalla polizia locale durante le manifestazioni contro il progetto di legge vietando i finanziamenti esteri (alla russa, dunque), cosi poco sulle manifestazioni anti-europeiste in Moldavia (“agenti di Putin”) e soprattutto poca informazione sulla repressione poliziesca in Francia del movimento sociale massiccio contro una “riforma” Macron voluta dalla UE per motivi contabili e lobbistici (fondi pensioni privati): Due pesi, due misure!

Grazie di questa apertura, Gianfranco. “C’è un solo modo per difendere la democrazia, allargarla” – questo il pensiero di Tina Anselmi. Mi vado convincecendo sempre più nella pratica che questo allargamento è affidato a quel complesso e pulsante fenomeno che chiamiamo Cittadinanza Attiva, Amministrazione Condivisa, volontariato, Terzo Settore ecc. Il nuovo sta in questo fenomeno in crescita a fronte dell’esausto sistema dei partiti che non riesce a raccogliere oltre il 40% dei “consensi”.