Il cauto ritorno dell’immigrazione per lavoro
Ma le norme italiane fanno acqua
Maurizio Ambrosini | 15 Giugno 2023
Gli esempi europei
Mentre anche a livello europeo prevalgono sempre più le spinte restrittive nei confronti dei richiedenti asilo, tra accordi con i paesi di transito, rafforzamento di Frontex, possibili stanziamenti di fondi per la costruzione di muri ai confini, qualcosa di nuovo s’intravede nell’ambito dell’immigrazione per lavoro. In Germania, Francia e Spagna le richieste del sistema economico hanno sollecitato il varo di nuove regole, con caute aperture verso il lavoro immigrato a media qualificazione e la possibilità di regolarizzazione individuale delle persone occupabili già presenti sul territorio.
Queste politiche hanno alcuni aspetti in comune. Anzitutto, fanno seguito a una lunga stagione di restrizione e accentuata selettività nell’ammissione di nuovi lavoratori da paesi extra-UE. Questa dipende a sua volta dalla subordinazione delle politiche degli ingressi alle istanze securitarie, oltre che dalla disponibilità di ampi bacini di manodopera proveniente dai nuovi paesi comunitari dell’Europa Orientale. Ora questa disponibilità non appare più sufficiente. I fabbisogni scoperti sono diventati più evidenti e suscettibili di produrre una (prudente) revisione delle politiche vigenti. Di fatto in questa fase le ammissioni di nuovi lavoratori appaiono politicamente più accettate dell’accoglienza dei richiedenti asilo. Sta guadagnando terreno anche l’idea di un alleggerimento delle verifiche della disponibilità di lavoratori nazionali, prima di procedere con l’autorizzazione all’ingresso di nuovi lavoratori stranieri. Esistono comunque nei diversi paesi liste delle occupazioni e dei settori con maggiori fabbisogni scoperti. I lavoratori temporanei o stagionali sembrano in generale più accettati, mentre in alcuni casi si profila una maggiore flessibilità nei confronti del lavoro degli studenti e degli ex-studenti, come pure una maggiore apertura verso ingressi per attività formative finalizzate all’inserimento lavorativo. In Germania questa formula consente di configurare un percorso di regolarizzazione per i richiedenti asilo diniegati.
Un secondo elemento trasversale concerne la diffusa critica verso la complessità delle procedure autorizzative vigenti e il tentativo di riformarle. La regolazione dei nuovi ingressi richiede la definizione di un laborioso equilibrio tra fabbisogni di forza lavoro, che richiedono tra l’altro tempi serrati di risposta, preoccupazioni securitarie, che tendono a imporre complesse verifiche dei trascorsi dei candidati, salvaguardia dei lavoratori nazionali, che reclama verifiche della disponibilità dei cercatori di lavoro locali a coprire i posti vacanti, capacità di accoglienza dei territori e del sistema dei servizi sociali. Per un lungo periodo questo equilibrio si è attestato su posizioni molto prudenziali, e quindi assai selettive nei confronti dei nuovi ingressi, con l’eccezione dei lavoratori altamente qualificati e degli operatori sanitari. Ora il pendolo pare spostarsi, sia pure cautamente, verso un assetto più sensibile alle ragioni dell’economia, e quindi più liberale.
Un terzo aspetto rilevabile, anche se non ovunque e con accentuazioni diverse, riguarda le regolarizzazioni di lavoratori sprovvisti di documenti idonei. Dopo anni di guerra dichiarata contro l’immigrazione non autorizzata, di inasprimento dei controlli esterni, delle verifiche per l’accesso al mercato del lavoro, di esclusione dalla maggior parte dei servizi sociali, anche in questo ambito si sta profilando un orientamento più pragmatico e liberale. I governi sembrano assumere il dato di fatto della presenza di contingenti più o meno numerosi d’immigrati irregolari che non sono stati in grado di allontanare per varie ragioni, e appaiono ora più disponibili a inserirli nel mercato del lavoro ufficiale, anziché investire maggiori risorse per controllarli, escluderli ed espellerli, lasciando di fatto che molti di essi continuino ad alimentare l’economia sommersa. I partner europei, e segnatamente Francia e Spagna (la Germania con maggiori vincoli e con un focus sui richiedenti asilo diniegati) si sono orientati verso forme discrezionali di regolarizzazione individuale, più discrete e meno soggette a polemiche dei programmi di regolarizzazione su grandi numeri attuati dall’Italia anche in anni recenti.
Un altro ambito di regolazione riguarda la prevenzione della caduta nell’irregolarità a seguito della perdita del lavoro, su cui ha operato in modo particolarmente inclusivo il legislatore spagnolo. Il problema effettivamente merita attenzione: l’economia attrae immigrati durante le fasi espansive, ma tende a scaricarli nelle fasi recessive. Ne deriva alternativamente un aumento della popolazione in condizioni di deprivazione o un carico aggiuntivo per i sistemi di welfare. L’esperienza delle crisi economiche insegna che tranne (forse) gli immigrati con permessi temporanei, gran parte dei lavoratori stranieri rimane comunque sul territorio del paese ospitante, nella speranza di tempi migliori, anche perché nei paesi di origine la situazione di solito è ancora peggiore, o perché nel frattempo i figli si sono inseriti a scuola. Lasciarli cadere nell’irregolarità di solito non è una soluzione al problema: la privazione del permesso di soggiorno funziona poco come incentivo al rimpatrio e l’attuazione effettiva delle espulsioni è costosa e complicata. Frenare la caduta nell’irregolarità appare in Spagna una soluzione migliore della politica contraria.
Il decreto-flussi italiano e i suoi limiti
In Italia, dopo diversi anni di decreti-flussi bloccati a quota 31.000 circa, in massima parte stagionali, prima il governo Draghi, poi il governo attuale hanno alzato il numero degli ingressi previsti, il primo a 69.700 unità, di cui 42.000 per lavoro stagionale, il secondo a 82.705 unità.
L’introduzione di una programmazione triennale, inoltre, dovrebbe rendere più organica e strutturale la concezione di un rapporto di complementarità tra i fabbisogni nazionali di manodopera e l’interesse dei cittadini di paesi terzi a entrare in Italia in modo regolare per ragioni di lavoro.
Sono stati anche compiuti dei passi per semplificare le procedure, in precedenza di una complessità tale da non consentire ai datori di lavoro di assumere i lavoratori quando effettivamente servivano: i decreti-flussi hanno per anni svolto la funzione di tortuoso percorso di regolarizzazione di lavoratori già entrati in Italia. Un altro elemento apprezzabile è l’apertura di un canale preferenziale per i lavoratori che abbiano frequentato con esito positivo percorsi di formazione nei paesi di origine finanziati dallo Stato italiano: un tassello finora mancante nelle politiche degli ingressi.
Per altri aspetti, il decreto-flussi, poi modificato dal successivo “decreto Cutro” presenta diversi limiti. Anzitutto, le quote d’ingresso previste per il 2023, pur essendo aumentate rispetto agli anni precedenti, restano tuttora prevalentemente finalizzate a soddisfare le esigenze di lavoro stagionale (44.000 unità). Non si comprende neppure su quali basi siano state fissate. In occasione del cosiddetto click-day del mese di marzo per l’inoltro delle richieste di nuovi ingressi, le domande sono state il triplo dei posti disponibili. Molti fabbisogni dei settori produttivi interessati hanno carattere permanente, anche in relazione agli investimenti necessari per la formazione e l’inserimento dei lavoratori provenienti da paesi terzi. Serviva e servirà più coraggio sul fronte degli ingressi permanenti.
Resta escluso in modo particolare il settore domestico-assistenziale, proprio quello che esprime i maggiori fabbisogni di lavoratrici/ lavoratori provenienti dall’estero (circa il 70% degli iscritti all’INPS nel settore, la quota di gran lunga più alta tra tutti i settori produttivi), in cui l’esteso ricorso a soluzioni irregolari rende poi necessarie periodiche manovre di emersione.
Andrebbero poi alleggerite e semplificate le condizioni per la conversione dei permessi di soggiorno di studenti e tirocinanti che completano percorsi formativi in Italia, ampliando le quote previste e le opportunità d’ingresso: persone già formate in Italia sono i candidati più idonei a inserirsi successivamente nel sistema produttivo.
L’introduzione di una verifica previa della disponibilità di lavoratori italiani per le occupazioni richieste, benché attenuata nell’ultima versione del decreto (il c.d. “decreto Cutro”) rappresenta un elemento di complicazione che muove in direzione opposta alla semplificazione delle procedure auspicata. Qui il governo ha voluto riaffermare una precedenza degli italiani e una volontà di rimandare al lavoro i percettori del reddito di cittadinanza che non s’incontrano con le dinamiche effettive del mercato del lavoro. I disoccupati italiani, che oggi non sono disponibili ad accettare lavori sgraditi solitamente affidati agli immigrati, non lo erano neanche prima di percepire il RdC. Il mercato del lavoro è molto più complesso e segmentato di quanto credano i riformatori da tastiera o da talk show televisivi. Titoli di studio, esperienze pregresse, vincoli familiari, distribuzione territoriale dei lavoratori e delle occupazioni, senza dimenticare le aspirazioni delle persone, richiedono una mediazione tra domanda e offerta di lavoro molto più impegnativa della minaccia di esclusione dalle provvidenze pubbliche.
Un altro obiettivo del governo, quello di privilegiare nelle quote i paesi che collaborano nella riammissione degli immigrati espulsi dall’Italia, introduce un altro elemento problematico. Anzitutto le espulsioni dai paesi democratici, e segnatamente dall’Italia, sono poche e complicate per varie ragioni, la prima delle quali sono i costi del trattenimento, identificazione e rimpatrio dei malcapitati. Nel 2021 sono stati realizzati solo 3.838 rimpatri forzati, e nel 2020 3.607, complice la pandemia e le restrizioni della mobilità. Anche negli anni precedenti, i numeri non superavano comunque le 6-7.000 unità.
La collaborazione dei paesi di origine è soltanto un ingranaggio di una macchina che necessita di vari pezzi e molte risorse per funzionare. Per esempio, i CPR non sono solo luoghi invivibili e disperati, ma anche pochi e costosi. Inoltre, anche ammettendo che l’impostazione annunciata dal governo ottenga dei risultati, l’Italia non espellerà gli immigrati irregolari più pericolosi o giudicati colpevoli di seri reati, ma quelli più facili da rimpatriare grazie agli accordi bilaterali. Già oggi tra gli espulsi la prima nazionalità è quella tunisina, per il semplice fatto che il governo collabora, il paese dista un breve braccio di mare e il rimpatrio costa poco.
Infine, uno strumento come il decreto-flussi viene deviato dalla sua funzione propria, quella di approvvigionare il mercato dei lavoratori di cui ha bisogno, per piegarlo alla funzione impropria di strumento per le politiche securitarie. Anziché ammettere lavoratori che parlino italiano, posseggano le competenze necessarie, possano essere accolti da parenti già insediati in Italia, rischiamo di preferirne altri per il solo fatto che i loro governi collaborano alle espulsioni.
La restrizione dell’accesso alla protezione speciale che il governo ha deciso con il medesimo decreto Cutro ha poi un effetto negativo anche per il mercato del lavoro, oltre che incidere pesantemente sui destini delle persone e sulla vita urbana: priverà i datori di lavoro di una fonte di manodopera, che in precedenza poteva essere regolarizzata se inserita in percorsi d’integrazione ben avviati. Comporterà meno occupati e più sbandati. Sarebbe invece auspicabile una maggiore comunicazione tra il canale dell’asilo e quello dell’immigrazione per motivi di lavoro, ispirandosi alle politiche dei partner europei.
Due innovazioni raccomandabili
In prospettiva, sarebbero raccomandabili altre due innovazioni. La prima, che richiama anch’essa le politiche spagnole, francesi e in minor misura tedesche, sarebbe un canale di regolarizzazione permanente per gli immigrati che si trovano sul territorio e per i quali un datore di lavoro dichiara di voler procedere all’assunzione.
La seconda innovazione riguarderebbe la reintroduzione dell’ingresso per un anno mediante uno sponsor, soluzione adottata in Australia, Canada e altri paesi. Gli studi sull’argomento mostrano che gli immigrati e anche i rifugiati che possono contare sul sostegno di parenti già insediati s’inseriscono più rapidamente nel sistema occupazionale di quelli privi di reti di sostegno. Organizzazioni di categoria, sindacati dei lavoratori, enti locali e altri soggetti potrebbero essere coinvolti in attività di accompagnamento, come la formazione linguistica e civica.
Non va mai dimenticato che insieme alle braccia arrivano le persone. Predisporre le condizioni per una loro rapida e positiva integrazione sociale è un buon affare per tutti.