Per non dimenticare. Le RSA nella pandemia


A quattro anni dal primo lockdown, e nella quarta giornata nazionale per le vittime del Covid, ci occupiamo delle residenze per anziani ritornando a quel periodo terribile che ha segnato le vite, e le morti, di migliaia di anziani ricoverati. Lo facciamo aiutati dal libro di Costanzo Ranci “Cronaca di una strage nascosta. La pandemia nelle case di riposo” (Mimesis Edizioni, 2023). Un testo che ricostruisce quanto è successo come nessuno prima aveva fatto, ma anche un testo scomodo, perché ci riporta a un periodo che molti, un po’ frettolosamente, considerano acqua passata. Ancora poco abbiamo metabolizzato, riflettuto, elaborato quanto è successo, tirando dritto e un po’, forse, voltandoci dall’altra parte. Il libro invece, e l’autore intervenuto qui su Welforum, ci riconducono a verità ormai certificate e ci chiedono che cosa abbiamo imparato. E se hanno imparato qualcosa le residenze per anziani nel nostro paese (un mondo variegato quanto a organizzazione e regole di funzionamento), e più in generale il welfare per la terza età.

Temi che vengono qui trattati da due esperti del settore: Fabrizio Giunco, direttore del Dipartimento Cronicità della Fondazione Don Carlo Gnocchi di Milano, e Franco Pesaresi, direttore generale dell’Azienda servizi alla persona «Ambito 9» di Jesi in provincia di Ancona. Ad essi si aggiunge l’intervento di Sergio Pasquinelli, condirettore di Welforum.

 

Fabrizio Giunco

Chi scrive ha avuto difficoltà a ritornare con la mente ai mesi descritti dal libro dell’amico Costanzo Ranci. È una percezione comune a chi ha vissuto in prima linea quell’esperienza. Mesi e mesi umanamente e professionalmente devastanti, h24 e 7/7; il contatto con il dolore puro, delle persone, dei familiari, degli operatori; poche ore a casa con il timore di infettare i propri familiari e quindi vite separate e distanze difficili; strade spettrali e prive di vita. Difficile ripensarci ma va fatto, lo si deve a molti.

Il libro affronta un tema così delicato con competenza ed equilibrio, senza ricercare capri espiatori ma documentando puntualmente incertezze e carenze, istituzionali e di sistema. Nessuna facile ricetta ma un obiettivo su cui non può che esserci assoluta condivisione: il sistema dei servizi residenziali deve essere radicalmente riformato. La pandemia avrebbe potuto essere l’occasione giusta, ma di quell’esperienza non sembra rimasto nulla. Non si è fatto tesoro, ad esempio, delle conseguenze della frammentazione e debolezza dei sistemi territoriali e degli scarsi o assenti collegamenti con quello ospedaliero. Sarebbe stata necessaria continuità, sono state introdotte e rafforzate le separazioni. Si rischia anche di perdere l’occasione di una riforma indispensabile come quella sulla non autosufficienza. Date queste premesse, mi permetto di aggiungere solo alcune annotazioni, per andare anche oltre le già puntuali osservazioni del testo.

Molte analisi italiane (incluse le indagini giudiziarie) si sono concentrate sui primi due mesi della pandemia. È probabilmente tempo di analizzarne invece l’intero sviluppo, anche per comprendere meglio i meccanismi di una graduale e collettiva assuefazione. Al 12 marzo 2024 i casi registrati nel mondo sono stati circa 700 milioni con 7 milioni di morti complessivi; in Italia 25,6 mln di casi e 188.000 morti. I cluster si sono distribuiti geograficamente e nel tempo secondo logiche modelli di diffusione non ancora del tutto chiari. In ogni caso, anche in Italia, il maggior numero di decessi non è stato registrato a marzo-aprile 2020 ma nelle ondate successive (novembre 2020-maggio 2021; primo semestre 2022) (WorldometersJohns Hopkins University ARCGIS). L’Osservatorio settoriale sulle RSA della LIUC, che analizza dal 2011 i dati di attività di 354 RSA lombarde e di 39.124 posti letto, riporta nel 2020 un tasso di mortalità del 34,2%; nel 2021 e 2022 la mortalità è però rientrata nella media abituale degli anni precedenti (20-21%). In altre parole, sembrerebbe che gran parte dell’eccesso di mortalità nel 2021 e 2022 non sia ascrivibile alle RSA. L’Osservatorio Long-Term Care della Bocconi riporta, citando dati del Ministero della Salute, che a dicembre 2020 quasi l’80% dei deceduti in ospedale positivi al SARS-CoV-2 COVID provenisse da casa o da altri ospedali e solo un quinto delle RSA (Terzo Rapporto Osservatorio Long Term Care, 2021). Detto in altre parole, è sicuro che le RSA abbiano pagato un caro prezzo nelle primissime fasi della pandemia, ma dovremmo cominciare anche a documentare cosa sia accaduto dopo, soprattutto negli ospedali e nei sistemi di urgenza e di cure primarie.

Personalmente sarei cauto nel confrontare i dati di mortalità fra strutture di paesi diversi, condizionati dalla diversa fase della diffusione epidemica e dalla tipologia delle strutture e delle popolazioni accolte. Un esempio fra i molti possibili. L’apparente ridotto tasso di mortalità nelle case di riposo danesi sembra calcolato su 44.000 posti letto. La Danimarca, però, ha solo 8.000 posti letto di Nursing Homes/RSA; gli altri appartengono al vasto mondo dell’housing sociale, con popolazioni più giovani, robuste e autonome di quelle delle RSA lombarde o venete. La Danimarca sembra aver avuto anche problemi a identificare i decessi COVID. Nel 2022 la rivista scientifica Lancet ha analizzato il possibile scostamento fra le casistiche ufficiali e il numero reale di decessi COVID in 191 paesi. In Italia il rapporto fra le due variabili è stato di 1.89, simile a quello di altri paesi europei, oltre che di USA e Canada; in Danimarca di 3.18. Resta quindi molto da capire ma un dato ricorre. L’Italia ha dimostrato molte carenze nella qualità e completezza dei dati raccolti. Difficile comprendere i fenomeni e pianificare soluzioni se non si affronta con decisione questa realtà.

Un’ultima osservazione ha a che vedere con la variabile tempo. Fino alla fine di gennaio 2020 si aveva informazione di una nuova malattia in Cina. Il primo caso in Europa (Finlandia) risale al 29/1/2020; i primi cluster italiani (Codogno, Vo’ Euganeo, Bergamo) al 21/2. L’OMS ha dichiarato lo stato pandemico solo l’11/3. Praticamente, soprattutto in Lombardia e Veneto, le strutture residenziali hanno vissuto in un solo mese l’avvicinamento di qualcosa di incerto in assenza di puntuali informazioni istituzionali. Nelle città la vita continuava come al solito e per settimane nelle RSA sono entrati familiari e operatori che in alcuni territori erano probabilmente già entrati in contatto con il virus. Le prime segnalazioni istituzionali raccomandavano inoltre di prestare attenzione a persone con sintomi respiratori e di procedere come abituale per le infezioni a possibile trasmissione aerea (conferma diagnostica, isolamento, terapie).

Non è servito molto tempo per capire come il SARS-CoV-2 avesse caratteristiche affatto originali e meritasse ben altre strategie. Le prime conferme di letteratura sul ruolo degli asintomatici risalgono però al secondo trimestre 2020, determinando un radicale cambiamento delle strategie di contenimento, dall’attesa dei sintomi alla mappatura sistematica delle popolazioni. Ora, date queste premesse, è ragionevole pensare che strutture elettivamente sociali come le RSA potessero trasformarsi in meno di un mese in ospedali per acuti o in centri infettivologici di alto livello? E con quali informazioni? Personalmente, più che la disorganizzazione, sottolineerei il fatto che queste strutture – progettate per altro – abbiano dovuto imparare in poche settimane un nuovo mestiere, da sole e in pressoché totale autonomia. Le risposte sono poi migliorate, ma nulla poteva essere implementato in un tempo così ristretto, basandosi su conoscenze rivelatesi poi incomplete se non fuorvianti.

Concludendo, resta comunque evidente come le strutture residenziali per anziani debbano essere radicalmente ripensate. Anche per gli insegnamenti della pandemia, deve essere combattuta l’indifferenza e la sottovalutazione dei bisogni che devono fronteggiare. Richiedono competenze elevate e risorse umane, professionali e economiche proporzionate alla complessità delle condizioni che affrontano, sia per gli aspetti clinici e assistenziali che per quelli etici e esistenziali. I modelli di accreditamento e di tariffazione attuali sono frutto di altri tempi, come quelli costruttivi e formativi. La pandemia lo ha reso evidente oltre ogni misura. Faccio quindi semplicemente mie le ultime righe della prefazione di Ranci: “È da una buona e seria ricostruzione del passato che possiamo imparare come affrontare il futuro, almeno quello che è prevedibile”.

Franco Pesaresi

Cosa ci ha lasciato la pandemia? È cambiato qualcosa nei presidi residenziali per anziani dopo di essa? L’occasione per rifletterci ci viene dal recente libro di Costanzo Ranci. Il testo ripercorre con grande accuratezza quello che è accaduto nelle strutture per anziani durante la pandemia: l’impreparazione, la confusione, lo sconforto, le tante morti registrate nelle strutture. Si tratta di un lavoro preziosissimo che ci ricorda ciò che è accaduto con una osservazione più scientifica e rigorosa che non si può avere quando la si vive come attualità con lo scopo evidente di evitare che si ripeta la stessa situazione e che si giunga preparati ad eventuali eventi futuri.

Quello che è successo nelle strutture residenziali per anziani è stato devastante ma il dato comparato con gli altri paesi, che ci colloca tra i paesi che hanno avuto il tasso di mortalità nelle strutture per anziani fra i più alti in Europa, va letto alla luce di alcuni importanti elementi. Innanzitutto, occorre rammentare che l’Italia si colloca fra i paesi del mondo con il più alto tasso generale di mortalità per Covid per ragioni ancora da scoprire che ovviamente si è riverberato anche sulle strutture residenziali. Occorre inoltre tener conto che le strutture per anziani italiane rispetto a quelle degli altri paesi accoglie un basso numero di anziani mediamente più fragili. Alcuni studi hanno rilevato questa maggior fragilità degli anziani italiani collocati nelle strutture residenziali ma che banalmente può essere spiegata anche con il basso numero di posti letto disponibili che gioco forza finiscono per essere occupati dai casi più vulnerabili. Infine non bisogna dimenticare che la stima della media internazionale delle morti in casa di riposo rispetto al totale – citata opportunamente da Costanzo Ranci – è del 30-40%. La stessa delle strutture residenziali per anziani italiane. Pensiamo, per esempio, che tali percentuali sono state per esempio del 60% in Spagna e del 50% in Francia. Nella sostanza quello che è accaduto in Italia è stato assai grave ma non è molto diverso, su base nazionale, da quello che è accaduto in Europa. Poi c’è da dire che ci sono state aree del territorio nazionale che però sono state colpite in modo molto più significativo.

In sostanza, abbiamo la conferma di  un luogo – i presidi residenziali per anziani –  dove si concentra la fragilità e che ha bisogno pertanto di una protezione maggiore degli altri settori.

Il direttore dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus, proprio lo scorso febbraio, ha dichiarato che “la storia ci insegna che la prossima pandemia sarà solo una questione di quando, non di se arriverà. Potrebbe essere causata da un virus influenzale, o da un nuovo coronavirus, oppure potrebbe essere causata da un nuovo agente patogeno che ancora non conosciamo” (QS, 2024).

Per questo, decisiva è la domanda se gli anni della pandemia, le migliaia di morti, le conseguenze sull’economia ci hanno insegnato qualcosa. Dopo questa pandemia, il settore che ha sofferto di più – quello delle strutture residenziali per anziani – è pronto ad affrontare una possibile minaccia per la salute? Per esempio, l’OMS Europa già durante la pandemia aveva raccomandato una serie di azioni indispensabili ed urgenti per i  servizi di long-term care per far fronte alla situazione pandemica, urgenti nell’infuriare del Covid-19 ma diverse di quelle indicazioni sono utilissime per essere in grado di far fronte alle eventuali  future situazioni difficili1.

Dunque torniamo al quesito inziale; è cambiato qualcosa dopo il Covid nelle strutture residenziali per anziani?  Purtroppo dovrei rispondere di no. Non è cambiato molto nelle strutture residenziali anche a causa di una serie di criticità finanziarie che ha coinvolto il settore dopo la pandemia.

Il libro di Costanzo Ranci serve a darci la sveglia. Serve a rammentare quello che è stato e serve anche a identificare – soprattutto nella parte finale del libro – quelle azioni che le lezioni apprese in questa tragica esperienza rendono necessarie.

Sergio Pasquinelli

Mi sento personalmente coinvolto dal libro di Costanzo Ranci, avendo perso mia madre nell’aprile del 2020 per Covid, in una Rsa milanese, dopo oltre due anni di ricovero. La primavera di quell’anno ce la ricordiamo tutti, ma un po’ tutti abbiamo cercato di buttarcela alle spalle, in un grande processo di rimozione collettiva.

La ricostruzione che il libro propone è la prima e unica per meticolosità dei dati e delle date che hanno scandito i processi decisionali, le esitazioni iniziali, le decisioni tardive (ricordo ancora quando il personale ci diceva, a noi parenti, di non indossare le mascherine per non spaventare gli ospiti!). È evidente che le case di riposo non erano attrezzate ad affrontare una pandemia, ma non lo era nessuno  di noi. Possiamo oggi dire che cosa si poteva fare di meglio e di diverso? Probabilmente sì, col senno di poi. Interessante è la ricostruzione che viene fatta, nel libro, riportandoci al ruolo delle case di riposo: il loro posto nella nostra società, nel nostro sistema di welfare, nelle nostre reti di cura. E come non condividere la conclusione a cui giunge l’autore: “È l’oblio istituzionale e pubblico in cui esse versano ad aver contribuito in modo sostanziale alla strage, che è stata così ampia proprio perché invisibile, non combattuta efficacemente e soprattutto non tracciata durante il suo svolgimento” (pag. 162).

Stando agli interventi che mi hanno preceduto, un oblio che non è terminato, e le lezioni della pandemia hanno modificato poco o nulla. Lo stesso decreto legislativo in attuazione della legge delega di riforma dei servizi per la non autosufficienza (l. 33/2023) dedica un ‘attenzione marginale alle strutture residenziali, senza dare indicazioni concrete e rinviando ad un atto successivo, tutto da definire.

Le Case di riposo, le Rsa, nell’immaginario collettivo sono ancora considerate “istituzioni totali” — per dirla con Erving Goffman — sistemi chiusi, iper-regolati, avulsi dai contesti in cui sono collocate. Gestite spesso come piccoli ospedali, come sistemi autocentrati, godono di una considerazione pubblica marginale, se ne parla più per i problemi che sollevano che quelli che risolvono, e la pandemia non ha certo aiutato.

E invece il loro futuro sta proprio nell’apertura, nella loro capacità di diventare centri multiservizi, per i non autosufficienti di oggi e di domani, che continueranno a crescere. Il loro futuro si gioca nella capacità di uscire e mettere a disposizione dei territori risorse e competenze, di offrire servizi che non sono solo quelli della degenza, ma che si estendono all’assistenza a casa e, nelle sue diverse diramazioni, sul territorio. Nell’assistenza agli anziani, ai loro caregiver familiari, alle badanti quando ci sono, alle comunità locali, quando sanno attivarsi.

È quanto già emergeva ne “Il Punto” di Welforum intitolato “Le residenze dopo la pandemia” uscito nel settembre di due anni fa. Occorre “spacchettare” le Rsa per tipologia di bisogni, di fabbisogni assistenziali, e moltiplicare, diversificare le possibilità di accoglienza in centri di dimensione variabile. Le Case di riposo accolgono gradi diversi di autosufficienza e fragilità, tra cui ospiti che hanno residue facoltà di autonomia a cui gioverebbe molto stare dentro realtà più contenute, come le comunità residenziali, gli alloggi protetti, il cohousing, insomma le esperienze di “abitare leggero”. Soluzioni in cui l’anziano non si trova più “a casa propria” ma non ancora in un luogo prevalentemente assistenziale. Certo, così vengono meno le economie di scala dei grandi centri, ma se ne possono trovare altre con un’adeguata organizzazione, uso delle tecnologie, lavoro di rete tra unità d’offerta diverse. Le esperienze di “Rsa aperta”, pur con le luci e le ombre che le caratterizzano, indicano una via possibile.

Negli ultimi anni normative nazionali diverse hanno iniziato, pur confusamente, a dedicare attenzione a queste soluzioni. Anche il recente, e deludente, decreto attuativo della legge delega sulla non autosufficienza dedica alcuni articoli al cohousing, ma senza l’ombra di uno stanziamento. Nel loro complesso, le ricadute concrete di queste diverse normative sono ancora di là da venire.

Post Scriptum. Nel maggio del 2020 il secondo governo Conte varò il cosiddetto “Decreto Rilancio” con l’obiettivo far crescere la sanità di territorio, la grande imputata in quei mesi. Il provvedimento investì 3,2 miliardi di euro per l’assistenza domiciliare, la rete territoriale dei servizi, le Unità speciali di continuità assistenziale (Usca), e poi il monitoraggio domiciliare, nonché l’aumento degli infermieri di comunità. Qualcuno ha visto gli effetti di questi stanziamenti?

 

Lo studio sulla “strage nascosta” considera la pandemia come uno stress test per le RSA, un evento traumatico che ha consentito di evidenziare i punti di forza e di debolezza del sistema. È su questi aspetti che Costanzo Ranci interviene nel suo nuovo articolo per puntualizzare alcuni aspetti a valle dei commenti qui riportati.

  1. 10 obiettivi politici per prevenire e gestire la pandemia COVID-19 nei servizi di LTC

    1. Dare priorità al mantenimento dei servizi di LTC durante la pandemia COVID-19 attraverso un efficace meccanismo di governance.
    2. Rendere disponibili fondi aggiuntivi per il sistema di LTC per rispondere efficacemente alla pandemia COVID-19.
    3. Garantire che le procedure e gli standard sulla prevenzione e il controllo delle infezioni siano implementati nei servizi di LTC per prevenire e gestire in sicurezza i casi COVID-19.
    4. Attuare misure di sicurezza che riconoscano i vantaggi reciproci di sicurezza delle persone che ricevono e che forniscono i servizi di LTC.
    5. Dare priorità ai test, tracciare e monitorare la diffusione dell’infezione COVID-19 tra le persone che ricevono e forniscono i servizi di LTC.
    6. Prepararsi a mettere in campo la capacità operativa massima per assicurare il personale e le risorse per la fornitura dei servizi di LTC necessari a far fronte alla pandemia COVID-19.
    7. Ampliare il supporto per i caregiver familiari durante la pandemia COVID-19.
    8. Coordinare i diversi servizi per garantire la continuità dei servizi di LTC durante la pandemia COVID-19.
    9. Garantire l’accesso ad adeguati servizi di cure palliative durante la pandemia COVID-19.
    10. Dare priorità al benessere delle persone che ricevono e forniscono i servizi di LTC durante e dopo la pandemia COVID-19 (OMS, 2020).