La crisi è sempre un’opportunità?
Riflessioni sulle professioni d’aiuto in un momento di cambiamento
Ariela Casartelli | 16 Settembre 2024
Si è tenuto il 25 giugno scorso il webinar di Welforum “Le professioni di aiuto in crisi. Vie d’uscita?” che mi ha molto sollecitata e mi ha consentito di fare alcune riflessioni che potrebbero essere possibili strade da percorrere in questo momento di grandi cambiamenti sociali. Va detto innanzitutto che nel webinar è stata affrontata una tematica complessa, nel senso che varie sono le ragioni di questa crisi che interagiscono tra loro e sostanziano il fenomeno a cui stiamo assistendo. Per la prima volta da quando è nato il sistema dei servizi alla persona, assistiamo a frequenti turn over di operatori, abbandoni del posto di lavoro e anche della professione, difficoltà a ingaggiare i professionisti delle relazioni d’aiuto. Paradossalmente non c’è una crisi occupazionale, tante sono le richieste e le possibilità di impiego, mai come in questi anni le professioni d’aiuto sono all’apice del loro sviluppo e riconoscimento, dall’altro sembra che fare questo lavoro sia diventato poco appetibile e affascinante.
Guardata da diversi punti di vista questa crisi mette immediatamente in evidenza che non ci saranno vie d’uscita facili ma ci sarà bisogno di stare nella complessità e aprirsi a nuove possibilità, abbandonare l’idea di un ritorno a com’era prima, ci sarà bisogno di ricomporre e intrecciare diversi aspetti per cercare di comprendere innanzitutto e poi trovare ipotesi risolutive.
Ci sono delle parole che si ripetono, delle assonanze ma anche delle dissonanze, quando si parla di questa crisi e alcune parole chiave mi sono risuonate. So che il mio sguardo è influenzato dalla mia professione, sono assistente sociale, e quindi tendo a porre la mia attenzione ai servizi sociali professionali ben sapendo che diversi e vari sono i professionisti delle relazioni d’aiuto.
Le parole chiave per individuare vie d’uscita dalla crisi:
- riconnettersi,
- legittimarsi e avere una visione,
- uscire da individualismo e autoreferenzialità,
- gestire risorse umane e nuove tecnologie,
- valorizzare e dare valore,
- assumersi responsabilità,
- la formazione e la ricerca,
- la supervisione e il benessere.
- uscire dal patriarcato,
- fare battaglie comuni.
Sono parole che indicano questioni che interagiscono tra loro, si intersecano, sono parte della crisi e delle vie d’uscita non è possibile dare un ordine di priorità, da qualsiasi punto si parta l’una influenza le altre.
Scelgo quindi di esplorarne una sapendo che contatterò anche buona parte delle altre parole in elenco.
Riconnettersi
Questa parola porta con sé alcune domande obbligate. Cosa si è scollegato? Riconnettersi con chi? Con quale obiettivo? Con quale modalità?
All’avvio del webinar di giugno nel suo intervento il collega Sergio Pasquinelli, direttore di Welforum, ha introdotto una questione che voglio riprendere e sottolineare, la pandemia da Covid-19 e i suoi effetti, lui ha detto “Questa crisi incomincia da lì.”
Io non so se è vero che comincia proprio da lì, so per certo che il Covid è stata una frattura importante tra un prima e un dopo, su cui c’è stata pochissima riflessione ed elaborazione di quanto accaduto, sia da parte dei professionisti sia da parte delle persone, dei cittadini. In qualche modo, in Italia, è stato attivato, sostenuto, incentivato, un processo di rimozione collettiva che non ha consentito di vedere quali influenze quello che è accaduto avrebbe potuto avere nelle relazioni tra persone e di conseguenza nelle relazioni d’aiuto. Si perché la pandemia ha rotto soprattutto le relazioni, i modi consueti di vivere le relazioni professionali, amicali, affettive, familiari. Quindi le relazioni oggetto delle professioni di cui parliamo hanno subito una lacerazione, e forse anche da qui deriva questa crisi professionale. Una forma di spaesamento su cosa significa oggi costruire, mantenere una relazione d’aiuto.
Parlando di relazioni è inevitabile parlare di emozioni, dalla pandemia in poi molto si è parlato di ansia, aggressività e di violenza come emozioni diffuse (per esempio tra gli adolescenti, ma non solo)
Da dove arrivano queste emozioni? Le ipotesi ricorrenti trovano ragione nella pandemia, la ricerca di un colpevole per quello che ci è accaduto, la paura del contatto, che tutti abbiamo vissuto, che assume la maschera della rabbia che in alcuni casi si tramuta in violenza.
Perché oggi questa aggressività e questa violenza indiscriminata a cui le professioni d’aiuto (servizi sociali, Pronto soccorso, uffici di prossimità, ecc.) fanno da parafulmini? Forse in quella frattura relazionale ci sono delle questioni che sono rimaste aperte e su cui varrebbe la pena riflettere soprattutto per i professionisti delle relazioni d’aiuto per capire anche cosa è successo in primo luogo a loro stessi in questa dimensione.
Bisogna riconnettersi con chi?
Con sé stessi in primo luogo e poi con le persone, i cittadini, i luoghi dove le persone vivono e si incontrano, con le Comunità, con gli altri servizi, con le Università, con le politiche sociali e non solo, con il mercato del lavoro, riconnettersi tra generazioni come professionisti e come persone.
Riconnettersi con sé stessi come professionisti della relazione d’aiuto, significa chiedersi come stiamo in questo momento, che cosa ci è successo durante la pandemia? Cosa è cambiato in meglio o in peggio? cosa è rimasto uguale?
Che cosa ci aspettiamo e cosa vogliamo mettere in campo nel nostro lavoro? Qual è la nostra visione del lavoro con le persone che incontriamo nei servizi e nei luoghi dell’aiuto per ricostruire e rammendare relazioni che si sono interrotte e che rischiano di diventare aggressive? Sono domande che ci riguardano come singoli, come gruppi professionali, come equipe di lavoro, e che hanno bisogno di spazi e luoghi di discussione non solo per trovare risposte ma per contrastare la solitudine e nutrire il pensiero. Creare questi spazi è responsabilità dei professionisti, delle organizzazioni e anche degli Ordini professionali laddove sono presenti.
Riconnettersi con la Comunità e con i territori
Parlavo poc’anzi di episodi di aggressività verbale, che a volte sfocia nella violenza fisica, che sono aumentati e sappiamo che in questi episodi troviamo alcune delle ragioni della crisi delle professioni d’aiuto. Perché affrontare persone arrabbiate, arroganti, aggressive? Sentirsi esposti alimenta la paura e con essa atteggiamenti difensivi, il primo dei quali è quello di limitare contatti diretti con le persone, e di conseguenza strutturare spazi che rendono difficile l’accesso delle persone ai servizi di cui hanno bisogno.
Da un lato le organizzazioni sono tenute a interrogarsi e a decidere quali azioni mettere in campo per proteggere i loro operatori senza instaurare atteggiamenti difensivi e di distanza dai cittadini.
Dall’altro spetta ai professionisti delle relazioni utilizzare tecniche e metodi per aiutare le persone a comprendere quello che gli sta succedendo.
Ricostruire e rammendare la trama di fiducia reciproca tra cittadini e servizi alla persona è nelle mani dei professionisti delle relazioni d’aiuto, che hanno le competenze per accompagnare persone arrabbiate, frustrate, addolorate, in grandi difficoltà a recuperare lucidità e competenze per affrontare le questioni che li riguardano.
Ritengo che sia importante uscire dai Servizi, dagli uffici e incontrare le persone nei loro luoghi di vita, esplorare i territori in cui i Servizi sono collocati e creare vicinanza.
Non è possibile lavorare con serenità e competenza, se c’è paura, se c’è timore di incontrare l’altro, se non accetto di incontrare l’altro non posso aiutarlo.
Riconnettersi con la Comunità significa incontrare le persone che la abitano, non solo quelle fragili, significa mettere in relazione cittadini e cittadine tra loro perché anche i rapporti di vicinato si sono interrotti e fratturati, la trama del tessuto sociale è piena di buchi.
Il lavoro con e per la Comunità non può prescindere dal riconnettersi con le politiche sociali per avere consapevolezza di dove ci si colloca, qual’è il contesto politico e come questo influenza il lavoro, per rivedersi come professionisti all’interno di un sistema di welfare che è guidato da politiche che cambiano continuamente e che portano cambiamenti di ruolo.
Io credo che sia una delle questioni fondanti, soprattutto oggi, per i professionisti del welfare perché il rischio, nell’assenza di una connessione, è quello di sentirsi continuamente impotenti e frustrati perché non è chiaro l’orizzonte dei limiti che le politiche pongono. Nella Comunità e nei territori si collocano tutti i servizi rivolti alle persone e quindi anche le relazioni tra servizi diventano materiale di ricostruzione di fiducia, di alleanza, di rappresentatività. Vedo ricorrere in diversi territori una forte spaccatura con i servizi specialistici, a volte con reciproche accuse di “incompetenza” non tanto riferita alla professionalità ma a chi si deve occupare di cosa. Un esempio per tutti, ma potrei farne altri, le lunghe discussioni tra servizio di salute mentale e servizio per le dipendenze sul fatto se la problematica prevalente sia la dipendenza o la salute mentale. Questi dibattiti costruiscono barriere e recano danno alle persone in difficoltà che “spedite” da un servizio all’altro finiscono per esplodere o perdersi, per tornare con maggiori difficoltà di prima. Riconnettersi tra Servizi richiede di uscire dall’autoreferenzialità professionale e organizzativa e aprire alla possibilità di esistenza dell’altro, per comporre immagini il più possibile co-costruite, con molte sfaccettature che non cercano una logica semplicistica ma sono in grado di sostare nella complessità. Recuperare il lavoro d’equipe come luogo dove viene dato valore alle persone, al lavoro di ognuno è un’altra strada per recuperare soddisfazione professionale e desiderio di contribuire con le proprie competenze ad un cammino comune, dove la questione non è più “è mio o è tuo?” ma è nostro.
Riconnettersi con il mercato del lavoro
Su questo tema sono state dette cose importanti rispetto ai cambiamenti che in Italia stanno emergendo. Da un lato i giovani guardano al lavoro in modo diverso dalle generazioni precedenti, non aspirano al posto fisso, sanno che non avranno una pensione, vogliono tempo per vivere al di là del lavoro. Dall’altro in Italia, ci dicono le statistiche, abbiamo i salari più bassi d’Europa, soprattutto nel nostro settore, questo va tenuto in considerazione nel pensare ai motivi della crisi e a possibili vie d’uscita. Bisognerà fare battaglie per i salari e per farle sarà necessario legittimarsi come professionisti e legittimarsi come lavoratori soggetti di diritti.
Io credo che la legittimazione, come lavoratori nelle professioni d’aiuto, sia sempre stata carente, soprattutto nei servizi sociali, e ancora oggi rischia di passare in secondo piano . Va ricordato inoltre che quando parliamo di professionisti della relazione d’aiuto parliamo di una maggioranza al femminile con caratteristiche particolari di cui tenere conto. Si parla molto, ultimamente, delle differenze di salari, a pari professionalità, tra uomini e donne e sentivo recentemente un servizio alla radio, non ricordo quale trasmissione, che raccontava gli esiti di una ricerca da cui risulterebbe che le donne chiedono meno aumenti salariali degli uomini. Le donne hanno grandi capacità di adattamento, fanno tutto il possibile per far funzionare i servizi, le relazioni, a costi minimi e io credo che questo culturalmente vada tenuto in considerazione, perché richiederà un lavoro culturale di rivisitazione. Quindi legittimarsi come lavoratori per battaglie salariali non sarà facile.
Nel suo intervento al webinar Antonio Finazzi Agrò lancia la sfida di un contratto collettivo nazionale per tutti i lavoratori del welfare, per uscire da settorialità e ambiguità, ha usato un termine che mi è piaciuto molto “mobilitazione unitaria”potrebbe essere una strada per costruire solidarietà e legami tra lavoratori, fare battaglie comuni, per comprendere che non si è da soli.
Accanto al tema dei salari bassi del settore welfare e servizi alla persona si innesta quello delle scarse o nulle possibilità di sviluppo di una carriera professionale nelle organizzazioni sia del pubblico che del privato sociale, i pochi ruoli di coordinamento e di responsabilità mettono brevemente fine alle possibilità di crescita professionale. Qual è la sfida oggi per queste organizzazioni? In primo luogo credo che la scommessa da fare sia di investire sulla funzione di gestione del personale, funzione al momento pressochè inesistente, per aprire nuove possibilità e visioni ai questi professionisti al di là delle carriere. Come fidelizzare chi arriva? Cosa interessa oggi a chi inizia a lavorare in questo settore, la carriera o la possibilità di avere spazi di libertà dal lavoro per riprendere fiato, ricaricare energie, studiare? Sappiamo da tempo che le professioni d’aiuto sono usuranti, cosa è possibile mettere in campo per prevenire l’usura, non può essere solo la supervisione o la formazione, che già fanno la loro parte, vanno pensate nuove strade ascoltando chi oggi comincia a lavorare e chi questo lavoro lo fa da molti forse troppi anni e avrebbe voglia di fare altro.
Anche la possibilità di gestire la riconnessione tra generazioni diventa una sfida. Questi anni sono stati caratterizzati da un forte passaggio generazionale, di cui si sono visti prevalentemente aspetti di mancanza, spazi vuoti che si sono creati. Nel mio frequentare servizi e territori diversi ritrovo ultimamente frasi che ricorrono dette con toni molto mesti “ Va’ in pensione Tizia ci toccherà ricominciare da capo? La sua esperienza è insostituibile.” Tutto vero, è importante che l’esperienza non vada sprecata, ma gli spazi vuoti in realtà sono necessari per alimentare pensieri nuovi per chiedersi cosa si vuole mettere in quello spazio vuoto, solo di fronte al vuoto si attiva l’ingegno. La gestione attiva di questo passaggio generazionale è una sfida, professionale e organizzativa, è un momento di scambio molto ricco tra esperienza e nuove teorie da mettere in campo. Come possiamo curare e prenderci cura di questo passaggio come professionisti e come organizzazioni? Cosa vogliamo dare alle nuove generazioni? Cosa vogliamo ricevere? Quale relazione possono alimentare le generazioni tra loro? Quali opportunità di cambiamento e innovazione?
Riconnettersi con l’Università e la ricerca
Su questo tema mi è sembrato molto chiaro ed esaustivo l’intervento al webinar di Giovanni Cellini di cui riprendo alcuni punti che mi sembrano interessanti da approfondire proprio in ordine al tema delle vie d’uscita dalla crisi. Cellini propone alcuni temi chiave tra presente e futuro delle professioni:
- l’attenzione della formazione al valore professionalizzante non deve oscurare quella ai processi «macro», in particolare quelli connessi con la definizione e le scelte delle politiche sociali;
- il valore della conoscenza di chi opera sul campo va promosso attraverso l’impegno dei professionisti a rappresentare le loro pratiche ed i loro punti di vista (es. welforum.it);
- per affrontare i fattori di crisi delle professioni sociali occorre una costante attività di ricerca sui bisogni formativi;
- la digitalizzazione rappresenta una delle sfide principali per le professioni sociali nel welfare e per il sistema formativo.
Mi voglio focalizzare su quest’ultimo punto, alcuni di questi punti già si collegano con quanto ho detto in precedenza, perché mi sembra di fondamentale importanza e ampiamente trascurato. Investire sulle nuove tecnologie e sulle competenze per usarle è sicuramente una delle sfide da sostenere, dai professionisti e dalle organizzazioni, e sarà possibile sostenerla solo se non si avrà paura della tecnologia, se ci sarà un accompagnamento formativo costante.
In conclusione mi sembra importante sottolineare che trovare vie d’uscita da questa crisi richieda l’esercizio di responsabilità, ognuno per la sua parte, di tutti coloro che sono coinvolti. Credo sia indispensabile una forte sinergia e un dialogo aperto tra le organizzazioni che gestiscono servizi rivolti alle persone e professionisti della relazione d’aiuto perché in assenza di questo il rischio che si corre e di restare chiusi in una corsa a trovare toppe troppo piccole per i buchi che si sono creati.