Superare le barriere, anche dei dati

Come la mancanza di informazioni sulla disabilità influenza la possibilità di fare ricerca nell’ambito dell’inclusione sociale e lavorativa


La ricerca sul tema della disabilità è fondamentale per garantire un’efficace inclusione sociale e lavorativa delle persone con limitazioni funzionali1. Tuttavia, ci troviamo di fronte ad una sfida significativa: la mancanza, e talvolta l’impossibilità, di accesso a dati relativi alle condizioni socioeconomiche e di utilizzo dei servizi da parte delle persone con disabilità.

Disabilità e inclusione lavorativa: una sfida anche per la ricerca

Le persone con disabilità affrontano gravi disuguaglianze nel mercato del lavoro. Hanno tassi di occupazione più bassi rispetto alle persone senza disabilità – differenza che è ancora più marcata per le donne con disabilità – e spesso sono classificate erroneamente come persone inattive, quindi non sono registrate come in cerca di lavoro. La discriminazione è, per loro, esperienza quotidiana e, viste le poche opportunità, sono spesso costrette a lavorare in proprio o finiscono nell’occupazione informale. Le politiche tradizionalmente rivolte alle persone con disabilità si sono principalmente concentrate su forme di sostegno al reddito e lavori protetti, senza porre sufficiente attenzione all’importanza delle aspirazioni lavorative individuali e alla mancanza di opportunità reali. Mettere a fuoco il tema del lavoro come dimensione chiave per il benessere e l’inclusione delle persone con disabilità è però una sfida complessa, non solo a causa dell’eterogeneità delle disabilità, che rende molto difficile qualsiasi tentativo di generalizzazione, ma soprattutto per la mancanza di informazioni e di dati che rendono difficile l’analisi della condizione lavorativa di questo gruppo e di conseguenza lo sviluppo di politiche mirate che affrontino le loro esigenze specifiche.

Cosa ci dicono i dati? Qualche informazione sul contesto italiano

Le sfide e gli svantaggi che le persone con disabilità affrontano e che limitano le loro opportunità di inserimento sociale, lavorativo e di avanzamento professionale sono una questione che riguarda una percentuale di italiani non marginale. Secondo i dati Istat, in Italia nel 2021 le persone con limitazioni nelle attività abitualmente svolte erano più di 12 milioni, il 21,4% della popolazione. Di questi, il 5% ha dichiarato di avere limitazioni gravi e il restante 16,4% limitazioni non gravi2.

Nonostante la maggior parte abbia limitazioni non gravi, la partecipazione al mercato del lavoro e l’intensità lavorativa – ovvero le ore lavorate – per queste persone sono molto limitate. Infatti, solo il 29% di coloro che presentavano limitazioni non gravi e il 12% di coloro che presentavano limitazioni gravi risultava occupato nel 2021. Nelle famiglie con un componente con disabilità in età lavorativa, inoltre, si lavora circa il 20% del tempo in meno rispetto alla media. I dati mettono in evidenza una disparità di genere importante. Risulta occupato il 9,1% delle donne con disabilità gravi – mentre per gli uomini si arriva al 16,1% – e il divario è ancora più evidente con riferimento alle limitazioni non gravi: 23,3% delle donne contro il 36% degli uomini.

La decisione di ritirarsi dal lavoro rappresenta una questione significativa per questi soggetti, che ha implicazioni e conseguenze sulla salute – fisica e mentale – sul benessere finanziario, sulla partecipazione sociale e sulla struttura familiare. Il 48,4% di coloro che soffrono di gravi limitazioni e il 39% di coloro che hanno limitazioni non gravi hanno infatti dichiarato di essersi ritirati dal lavoro3, a fronte del 14% delle persone senza disabilità.

Poco più approfondite sono le informazioni raccolte nei contesti regionali e municipali, nonostante queste siano fondamentali per una comprensione più accurata di queste sfide. È infatti a livello locale che le difficoltà e le disparità si manifestano in modo tangibile. Secondo i dati amministrativi della Città Metropolitana di Milano, condivisi nell’ambito del progetto CITILab coordinato dall’Università di Milano-Bicocca e finanziato dalla Fondazione Cariplo4, al 31 dicembre 2023 si contavano 9.974 persone in liste di collocamento con disabilità fino al 79% e 5.060 individui con disabilità all’80% e oltre. Sappiamo che il 95% delle persone con disabilità in lista di collocamento (14.476 su 15.237 individui) ha una istruzione di scuola secondaria inferiore, ma non è possibile ottenere ulteriori informazioni relative alla loro situazione socio-economica e familiare, dati che ricostruiscano la transizione occupazionale, nonché relativi al tipo di servizi di supporto a cui potrebbero aver avuto accesso. Ad esempio, la regione Lombardia, attraverso il Piano regionale E.M.E.R.G.O., prova a sostenere le persone con disabilità nella ricerca del lavoro e supporta le aziende nelle fasi di inserimento e mantenimento all’interno del contesto lavorativo (Mozzana e Serini, 2021). Città Metropolitana promuove una serie di servizi integrativi relativi al supporto psicologico, educativo, e finalizzato al potenziamento delle capacità e dell’occupabilità delle persone con disabilità.

L’importanza dei dati locali sull’inclusione delle persone disabili

Malgrado la recente introduzione da parte dell’Istat del Registro sulla disabilità, che mira a creare una base di campionamento per la progettazione di indagini statistiche ad hoc sulla disabilità, ad oggi le informazioni rese disponibili per la ricerca sono molto limitate e principalmente sul livello nazionale. Inoltre, l’impossibilità di accedere a dati disaggregati per caratteristiche sociodemografiche – genere, età, livello di istruzione e posizione lavorativa – limita ulteriormente la capacità di analisi e di sviluppo di interventi mirati. Senza dati dettagliati locali, diventa difficile poter comprendere le specifiche esigenze delle persone con disabilità e delle loro famiglie, individuare le più adatte opportunità di lavoro e le barriere esistenti nei contesti, per poter poi sviluppare politiche e programmi adeguati.

Diverse sono le ragioni che portano gli enti regionali e comunali a non condividere con i ricercatori i dati interni da loro raccolti, o a condividere solo dati aggregati e parziali, che spesso non permettono di incrociare più informazioni (es. genere, età, tipo di disabilità). Le pubbliche amministrazioni sono tenute a rispettare normative sulla privacy e devono garantire la sicurezza e l’integrità dei dati amministrativi che raccolgono, ma soprattutto incontrano vincoli tecnologici e organizzativi che rendono difficile e costoso il processo di anonimizzazione di tali dati necessario prima della condivisione (es. infrastrutture obsolete, sistemi informativi disomogenei o processi burocratici complessi).

È, però, in crescita il riconoscimento dell’importanza della condivisione di questi dati per favorire la ricerca responsabile, l’innovazione e la partecipazione pubblica. Di conseguenza, stanno lentamente aumentando le iniziative per promuovere una maggiore apertura e accessibilità dei dati amministrativi, bilanciando le esigenze di sicurezza e riservatezza dei dati. Nonostante ciò, attualmente l’unico modo per ottenere informazioni individuali e con sufficiente grado di capillarità territoriale sembra essere quello di condurre indagini campionarie con lo scopo di reperire dati di natura primaria. Anche in questo caso, la raccolta di dati sulle persone con disabilità presenta una serie di sfide etiche importanti. Prima di tutto, è fondamentale garantire il rispetto della privacy e della dignità delle persone coinvolte. Questo significa ottenere un consenso informato prima di raccogliere qualsiasi informazione e garantire che i dati siano raccolti e utilizzati in modo responsabile. Inoltre, è importante considerare l’equità nella raccolta dei dati. Ad esempio, alcuni individui potrebbero essere meno in grado di partecipare a questionari, o interviste, a causa della loro disabilità. Questo potrebbe portare ad una rappresentazione distorta se non si prendono in considerazione misure appropriate per includere queste voci. Infine, c’è la questione della trasparenza. Le persone hanno il diritto di sapere come i loro dati vengono utilizzati e quali misure vengono adottate per proteggere la loro privacy. Questo è particolarmente rilevante quando si tratta di dati sensibili.

Conclusioni

La raccolta e l’analisi di dati sulla disabilità, sebbene imprescindibile per la ricerca, deve essere affrontata con attenzione e rispetto per le questioni etiche coinvolte. Nonostante queste sfide, è fondamentale la ricerca in questo ambito. Non è un caso che anche l’AGIA (Autorità Garante Infanzia e Adolescenza) abbia inserito la necessità di disporre di dati di qualità per ridurre le disuguaglianze tra i possibili Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) (AGIA, 2024). Una maggiore condivisione delle informazioni e una più accurata comprensione delle esigenze ed esperienze delle persone con disabilità è indispensabile per politiche e pratiche più inclusive. Servono dati più completi e dettagliati affinché la ricerca possa svolgere un ruolo più attivo in questo ambito anche a sostegno della politica.

  1. Adottiamo in questo articolo la definizione e i dati relativi a persone con disabilità funzionali di Istat – Multiscopo sulle famiglie, in cui  sono incluse le persone che vivono in famiglia e dichiarano di avere delle limitazioni gravi nelle attività che svolgono abitualmente a causa di motivi di salute e che durano da almeno 6 mesi. Non sono qui comprese le persone con disabilità che vivono in residenze. I dati sono il risultato di una media biennale.
  2. Fonte ISTAT, Portale: Disabilità in cifre 2021.
  3. I ritirati dal lavoro comprendono le persone che hanno cessato un’attività lavorativa per raggiunti limiti di età, invalidità o altra causa; la figura del ritirato dal lavoro non coincide necessariamente con quella del pensionato in quanto non sempre il ritirato dal lavoro gode di una pensione.
  4. Maggiori informazioni sul progetto CITILab sono contenute nella pagina web dedicata.