L’accesso alla cittadinanza per gli immigrati. Che cosa succede in Europa


Maurizio Ambrosini | 2 Ottobre 2024

Il successo della raccolta delle firme per il referendum sulla cittadinanza, con il quorum raggiunto in pochi giorni, mostra che una componente significativa della società italiana chiede un cambiamento delle norme, ferme al 1992. Molto significativa la larga partecipazione giovanile, favorita dalla sponsorizzazione di alcuni noti testimonial, come il disegnatore e attivista Zerocalcare. I giovani probabilmente più degli adulti hanno avuto per anni come compagni di scuola o di università giovani formalmente stranieri, ma per il resto simili a loro. Sono 915.000 i giovani con cittadinanza straniera nelle scuole italiane (anno scolastico 2022-2023), più del 10 per cento del totale. La maggioranza ormai in realtà è nata in Italia, anche, sia pure lievemente, tra gli iscritti alla scuola secondaria di secondo grado.

La normativa italiana

La proposta referendaria si è intrecciata con la ripresa del dibattito sullo ius scholae, grazie soprattutto alla sortita di Forza Italia che sta cercando di differenziarsi dalle componenti più radicali della maggioranza di governo: il partito di Tajani ha scelto un tema di grande risonanza simbolica e destinato a suscitare una vivace reazione polemica per prendere le distanze da Lega e Fratelli d’Italia.

La proposta referendaria riguarda però un altro argomento, l’anzianità di residenza. Abrogando un passaggio della legge del ’92, intende riportare a cinque gli anni di soggiorno in Italia richiesti per richiedere la naturalizzazione: una norma in vigore per ottant’anni, lasciata intatta dal regime fascista. Solo nel ’92, quando l’immigrazione straniera era entrata a pieno titolo nel dibattito pubblico con la discussione sulla legge Martelli di due anni prima, i legislatori hanno ritenuto opportuno raddoppiare gli anni necessari ai cittadini di paesi terzi per chiedere di diventare italiani, riducendoli a quattro per i cittadini dell’UE. Per i nati in Italia le norme introdotte erano più favorevoli, ma non di molto, prevedendo il riconoscimento della cittadinanza con una procedura amministrativa facilitata solo al compimento del diciottesimo anno di età, e prima del diciannovesimo, a condizione di riuscire a dimostrare di avere sempre vissuto in Italia. Un ritorno nel paese di origine, presso i nonni, nei primissimi anni di vita, anche solo per quattro mesi, pregiudica la procedura.  Il voto del parlamento, quasi unanime, diceva chiaramente chi volevamo come concittadini e chi invece non volevamo, soprattutto se teniamo conto di un’altra modifica: la corsia molto facilitata per l’acquisizione della cittadinanza per i discendenti di antichi emigranti italiani. La legge vigente guarda indietro, all’Italia degli emigranti, mostrando diffidenza e scarsa simpatia verso i nuovi residenti, specie se non appartenenti all’UE.

Le norme in vigore nei principali paesi europei

Vediamo, per un opportuno raffronto, le norme in vigore in altri paesi europei. Cominciamo dal caso britannico, erede di una lunga storia di proiezione coloniale nel mondo. Il Regno Unito applica anzitutto il diritto di sangue: è britannico il figlio di almeno un genitore in possesso della cittadinanza. In secondo luogo, vige un diritto di suolo quasi puro: accede alla cittadinanza il figlio di un cittadino non britannico residente nel Regno Unito a tempo indeterminato; oppure, se il genitore acquisisce la cittadinanza o un permesso di residenza, il figlio la ottiene presentando una richiesta entro il diciottesimo anno di età; oppure ancora se, minorenne, avendo avuto residenza nel Regno Unito per i dieci anni successivi alla nascita. Il matrimonio dà diritto alla cittadinanza in caso di residenza ininterrotta nel Regno Unito per almeno tre anni.

La naturalizzazione per residenza richiede invece un’anzianità di soggiorno continuativa di almeno cinque anni, salvo condizioni di favore per i cittadini del Commonwealth o irlandesi. Come negli altri paesi europei sono stati introdotti dei test volti a misurare l’integrazione culturale degli aspiranti cittadini: uno di lingua, un altro di conoscenza di più generali aspetti della vita nel Regno Unito. Le norme anti-terrorismo hanno infine previsto la revoca della cittadinanza per i responsabili di attacchi sul suolo britannico.

In Francia l’accesso alla cittadinanza è regolato principalmente in quattro modi. Il primo anche in questo caso è il diritto di sangue: è francese il figlio di almeno un genitore francese.

Il secondo criterio è un diritto di suolo riveduto e attenuato. Vale il doppio ius soli: è riconosciuto come cittadino il figlio di genitori nati in Francia.  Vige inoltre la norma dell’acquisizione della cittadinanza con la maggiore età per chi è nato in Francia e vi ha risieduto abitualmente per un periodo, continuo o discontinuo, di almeno 5 anni, dall’età di 11 anni in poi. Una norma quindi abbastanza simile, ma più favorevole di quella italiana.

In terzo luogo, si può ottenere la cittadinanza francese per matrimonio: a quattro anni dalle nozze, a condizione di una residenza effettiva e continuativa in Francia per tre anni consecutivi.

Infine vige la naturalizzazione per residenza, per le persone maggiorenni che abbiano avuto residenza abituale in Francia nei cinque anni precedenti, ridotti a due in caso di studi universitari in Francia o di importanti servizi resi allo Stato francese. Oltre all’anzianità di residenza, è richiesto il superamento di un test di conoscenza della lingua, della storia e delle istituzioni francesi.

Anche la Germania concede la cittadinanza al figlio di almeno un genitore tedesco. Con la riforma del 2000 applica un diritto di suolo temperato, avendo aperto le porte ai figli di cittadini stranieri nati sul territorio, a condizione che almeno uno dei genitori risieda legalmente sul territorio da almeno otto anni (recentemente ridotti a cinque) e sia in possesso di un permesso di soggiorno a tempo indeterminato. In caso di matrimonio con un cittadino, la cittadinanza può essere richiesta dopo tre anni di residenza in Germania e due di matrimonio, purché ancora valido. Alle stesse condizioni possono esser naturalizzati i figli della coppia.

La Germania è invece meno liberale in materia di naturalizzazione per residenza: sono infatti necessari otto anni di residenza stabile e legale, l’autosufficienza economica, un’adeguata conoscenza della lingua tedesca, l’accettazione dell’ordinamento sociale e giuridico dello Stato, nonché delle “condizioni di vita in Germania” a cui il candidato alla naturalizzazione deve conformarsi. Anche in questo caso gli automatismi sono attenuati e sono stati enfatizzati requisiti di conformità culturale. Le norme prevedono la riduzione a sette anni dell’anzianità di residenza, in caso di frequenza di un corso d’integrazione e di superamento dell’esame finale. Si può scendere a sei anni dimostrando di aver compiuto azioni significative per l’integrazione, come il conseguimento del livello B1 di conoscenza della lingua tedesca.

La normativa spagnola intreccia disposizioni liberali con altre più restrittive. Vale anche qui anzitutto il diritto di sangue: è spagnolo chi nasce da un genitore spagnolo. Per chi nasce sul territorio le norme si avvicinano al diritto di suolo automatico, prevedendo la naturalizzazione con un solo anno di residenza. Anche per gli sposi con un cittadino spagnolo un anno di residenza è sufficiente.

Una disposizione più severa investe la naturalizzazione per residenza: come in Italia sono richiesti dieci anni, ridotti a cinque per i rifugiati e a due per i cittadini di paesi che hanno legami storici con la Spagna, ossia quelli dell’America Latina, le Filippine, la Guinea Equatoriale, il Portogallo, nonché gli ebrei sefarditi discendenti di quelli espulsi dalla Spagna alla fine del ‘400. Sono previste inoltre alcune condizioni aggiuntive, come l’autosufficienza economica e quella che viene un po’ genericamente definita “buona condotta civica e sufficiente grado di integrazione nella società spagnola”.

È interessante considerare anche il caso greco, perché questo paese seguiva fino a pochi anni fa norme restrittive abbastanza simili a quelle italiane, ma ha avuto il coraggio di varare una normativa più liberale nel 2010, nel mezzo di una drammatica crisi economica: un argomento, quello della crisi, addotto in Italia con un certo successo per contrastare la riforma della legge del 1992.

Per i figli di cittadini stranieri nati sul territorio la Grecia ha introdotto un percorso che richiama lo ius culturae: possono accedere alla cittadinanza dopo aver frequentato sei anni di scuola. Se minorenni, deve essere il genitore a presentare la domanda, a patto che sia regolarmente residente da almeno cinque anni. Se invece sono nati all’estero valgono le norme generali.

Queste prevedono che per accedere alla cittadinanza occorre possedere il permesso di soggiorno CE di lungo residenza (si ottiene dopo cinque anni di residenza regolare, dimostrando autosufficienza economica), superare un test di conoscenza della lingua greca, non avere carichi penali e pagare un contributo abbastanza ingente, 700 euro. Inoltre i dinieghi della domanda, a differenza del passato,  vanno motivati dal Ministero dell’Interno, consentendo così la presentazione di eventuali ricorsi.

Una riforma necessaria

In definitiva, l’Italia si colloca in posizione arretrata rispetto ai principali partner europei.  Su questi temi è il fanalino di coda dell’Europa. Si può aggiungere che Olanda, Belgio, Svezia, applicano a loro volta la regola dei cinque anni di residenza. Anche se non sono toccate dalla campagna referendaria, le norme sui minori sono particolarmente penalizzanti. I nostri partner continentali si sono preoccupati in vario modo di includere rapidamente le nuove generazioni nella comunità dei cittadini. Se non si può parlare di un diritto di suolo automatico e generalizzato, diverse normative vigenti vi si avvicinano molto.

La proposta referendaria dovrà passare prima il vaglio della Corte Costituzionale e poi, scoglio più arduo, il raggiungimento del quorum, in un paese in cui ormai la metà degli aventi diritto non va più a votare nemmeno per le elezioni politiche. Comunque vada a finire la campagna, appare chiaro che i tempi sono più che maturi per una riforma e che una quota importante della società italiana ne è consapevole.