Giovani e lavoro: un difficile incontro


Isabella Medicina | 24 Ottobre 2024

Lo scenario

All’inizio degli anni ’70 un topos ricorrente era che l’Alfasud fosse stata creata per produrre non automobili ma pace sociale. La questione della disoccupazione si sarebbe risolta offrendo opportunità più numerose, nella convinzione che tutte le persone aspirassero ad un posto di lavoro sicuro e permanente. Questa convinzione è ancora prevalente oggi nel modo con cui i diversi attori – aziende, sindacati, istituzioni, servizi per il lavoro – considerano il rapporto domanda-offerta. Tuttavia, il lavoro non è più egualmente in cima alle aspirazioni delle persone: non per tutti vale l’equazione lavoro = reddito, o lavoro = soddisfazione professionale, o lavoro = riconoscimento sociale. Il mondo di chi cerca lavoro è poliedrico e si cercano opportunità professionali in differenti equilibri con gli altri aspetti della vita, interessi e aspettative. Ciò vale soprattutto per i giovani, per i quali è meno precoce la necessità di raggiungere un’indipendenza economica (del resto ricercata spesso grazie a un mix di esperienze lavorative più precarie ma più ‘libere’), ma attrae anche persone che, pur provenendo da attività strutturate, scelgono di dare maggior spazio ad altre dimensioni vitali.

È vero che permane una percentuale considerevole di disoccupazione giovanile (oltre il 20%) e che in Italia esiste una quota di Neet decisamente superiore alla media europea. Ma quanti giovani pur dichiarando di cercare lavoro sono realmente disposti a consegnarsi ai vincoli di un lavoro stabile? Quanti risultano non lavorare e non studiare non perché disillusi dalla mancanza di opportunità, ma semplicemente perché lavorano e apprendono con modalità non contemplate dalle offerte occupazionali e formative convenzionali, sfuggendo così alle rilevazioni? Quando i datori di lavoro (aziende, ma anche istituzioni pubbliche) lamentano la difficoltà a trovare personale rispondente alle caratteristiche richieste, evidenziano l’esistenza di un gap di competenze, ma forse anche la scarsa capacità di attrazione delle loro proposte di lavoro. Se le persone ritengono di non trovare proposte adeguate e rispondenti alle loro aspettative, non rispondono agli annunci o lo fanno senza convinzione, mostrando poi nei colloqui assenza di motivazione.

È possibile che l’intelligenza artificiale (IA) apra nuove opportunità per i giovani “nativi digitali” (benché per ora essa rappresenti più la tensione verso una nuova frontiera tecnologica che il decollo di nuove strategie produttive). Ma i giovani saranno portati a vedere in essa il possibile potenziamento della loro capacità professionale o si limiteranno ad utilizzarla come un upgrade delle risorse disponibili per il loro tempo libero? Ancora una volta dobbiamo considerare la questione del loro orientamento verso il lavoro e chiederci quanto sarà decisivo il contesto in cui l’IA sarà utilizzata.

Certamente la questione dell’insoddisfacente rapporto domanda-offerta fa emergere ancora una volta le carenze strutturali del nostro sistema: inadeguatezza e ritardi dell’istruzione e formazione di base, basse retribuzioni, immaturità delle politiche di conciliazione … E però è necessario evidenziare anche un’altra dinamica: la gestione del rapporto di lavoro resta ancorata a forme e “messaggi” in larga parte obsoleti, non in grado di aprire il dialogo tra le parti a uno scambio più dialettico e perciò più efficace. Perché allora non considerare che la distanza tra le aspettative dei giovani e le opportunità lavorative offerte possa avere motivazioni diverse, riconducibili ad atteggiamenti valoriali profondamente cambiati? Forse una strada verso la soluzione del problema sta non tanto nell’investire in formazione (come in genere semplicisticamente si pensa) e in servizi (senza porsi il problema dell’adeguatezza), ma nello sviluppo di diverse forme di organizzazione del lavoro e diverse modalità di ricerca, selezione e inserimento del personale.

La difficoltà di reperimento dei lavoratori

È riscontrabile per tutte le mansioni, ma ha cause diverse nei vari casi. Se consideriamo il cosiddetto “lavoro povero” (che non sarà però oggetto specifico di questo contributo), distinguiamo tra mansioni a basso valore aggiunto (in parte destinate ad essere sostituite dall’automazione, man mano che se ne rilevi la convenienza economica) e mansioni che richiedono prestazioni contingentate nel tempo (legate a slot temporali delimitati: giornalieri o settimanali). Nel primo caso, retribuzione e condizioni di lavoro restano pressoché i soli elementi su cui definire il rapporto. Le seconde rappresentano per lo più per i lavoratori un’integrazione del reddito familiare (sono spesso molto femminilizzate): per attrarre una popolazione più vasta, occorre pensare a un’organizzazione del lavoro che non sia incompatibile con lo svolgimento di una seconda attività.

Anche per le professioni a qualificazione medio-alta, occorre distinguere. Le professioni specialistiche richiedono la presenza di competenze tecniche: in presenza di gap è chiara la necessità di addestramento o formazione all’ingresso (e di sostenerne i costi). Le posizioni caratterizzate dal contatto con il cliente o più in generale con l’esterno richiedono soprattutto attitudini personali e l’orientamento a sentire l’azienda come cosa propria (e, per converso, a sentirsene parte: appartenenza), da presentare come un valore. Infine, per i ruoli gestionali divengono particolarmente importanti le soft skill o un potenziale idoneo a svilupparle; essenziale la propensione a investire sul proprio lavoro (vedere la professione come “patrimonio personale”).

Nei diversi casi, gioca diversamente il mix di fattori che l’azienda (sia pubblica o privata) può mettere in campo per attrarre i nuovi lavoratori. Ma appare chiaro che gli elementi tradizionalmente dichiarati per la ricerca (retribuzione e contenuto della mansione, eventualmente possibilità di carriera) da soli non sono più sufficienti.

L’attrattività dell’azienda per il lavoro qualificato

Consideriamo quali fattori possono rendere particolarmente interessante un’offerta di lavoro.

  1. Il contesto: L’azienda è uno spazio sociale, in cui contano le relazioni, il confronto e lo scambio, il rispetto diffuso e condiviso delle regole, la gradevolezza dell’ambiente, la reperibilità delle risorse strumentali; anche l’ambiente esterno (e la raggiungibilità della sede) ha valore.
  2. Lo sviluppo professionale e la carriera: opportunità di acquisizione di nuove competenze e di rinforzo di quelle possedute, riconoscimento di ruolo e responsabilità; numerosità, varietà e trasparenza delle possibilità di carriera.
  3. Arricchimento e rotazione del job: il contenuto del lavoro può modificarsi nel tempo e i compiti crescono o variano seguendo una pianificazione dichiarata dall’azienda e conosciuta dai lavoratori.
  4. Flessibilità: l’orario di lavoro (e il calendario) può essere personalizzato, trovando un equilibrio tra esigenze aziendali e aspettative individuali. Lo smart working può essere una modalità, ma da equilibrare rispetto alla fruizione del contesto: se no confligge con la possibilità dell’apprendimento sociale e organizzativo.

Sempre più persone vedono nel lavoro non un destino, ma un’esperienza che è solo una parte della propria vita, che può essere cambiata più volte, anche trasferendosi in altra parte del mondo o facendo mestieri diversi. Per attivare con profitto un nuovo rapporto di lavoro, l’azienda deve considerare con grande attenzione questa “nuova cultura”.

Cambiare la prospettiva nel rapporto persona-azienda

Se esaminiamo le ricerche di personale, le aziende per lo più descrivono cosa vogliono e non cosa offrono, attribuendosi in tal modo una posizione dominante che squilibra la possibilità di scambio. Cercano di coprire una posizione più che di trovare una risorsa: ciò delimita il target potenziale a persone che, per esperienza o orientamento, possiedono già caratteristiche professionali molto specifiche. Occorrerebbe tenere conto non solo di che tipo di lavoratori vuole l’azienda, ma di che tipo di persone possono volere l’azienda.

Il contenuto dell’offerta, quasi sempre limitato a inquadramento contrattuale e retributivo e all’elencazione dei contenuti della mansione, non evidenzia i “vantaggi competitivi” che il lavoro comporta: opportunità, ambiente, welfare aziendale… La comunicazione non si preoccupa di “convincere” il target individuato, ma solo di esplicitare le attese aziendali.

La selezione privilegia gli aspetti attestati dal curriculum formale e poco valorizza il percorso di crescita individuale, quale potrebbe emergere da un “curriculum esperienziale”, spesso molto composito e eterogeneo, che pure può testimoniare la presenza di diverse delle competenze ricercate, soprattutto per le soft skill, ma anche per alcune delle competenze “hard” anche se non compiutamente strutturate.

Poco ci si cura di individuare e gestire le aspettative personali, benché solo se c’è una qualche convergenza delle aspettative aziendali e personali lo scambio sarà positivo e durevole. Prevale tuttora il paradigma del lavoratore fedele, anche se sarebbe più produttivo inserire qualcuno che, in qualche misura, possa “sentirsi partner” dell’attività aziendale. Nonostante il dichiarato, poco si valuta il potenziale, benché gran parte dei lavori si possa imparare facendo se ci sono la “stoffa” e l’interesse.

Il primo inserimento (periodo di prova) è prevalentemente orientato alla valutazione del lavoratore, trascurando il fatto che anche il lavoratore sta “provando” l’azienda e valutando quanto essa è disposta ad investire sulla sua crescita professionale e a prendersi cura del suo benessere.

Oltre all’addestramento al ruolo, la formazione sul lavoro dovrebbe aprirsi ad un più ampio orizzonte, curando anche il potenziamento delle attitudini individuali, spendibili anche in contesti non lavorativi: la cultura del lavoro non è più concepibile come separata dalla cultura personale, intesa come patrimonio individuale. Se l’apprendimento sul lavoro è percepito come a vantaggio esclusivo dell’azienda diventa un compito da retribuire e non il terreno su cui far crescere la collaborazione.

In quest’ottica, la contrattazione non può che accentuare la dimensione individuale, dando spazio, pur nel quadro della contrattazione collettiva, al riconoscimento della performance – sia tecnica che organizzativa; e a forme di retribuzione diversificate.

Cambiamenti di sistema                                                       

In conclusione, occorre considerare che questo cambiamento di prospettiva dovrebbe inquadrarsi in un contesto istituzionale e di rappresentanza sociale meno ancorato alle soluzioni tradizionali:

  1. La contrattazione collettiva dovrebbe lasciare più spazio alla contrattazione aziendale e individuale.
  2. Le politiche del lavoro dovrebbero traguardare ad un mercato del lavoro sì sorvegliato ma non irregimentato, andando oltre i soli aspetti di tutela e incentivando le esperienze innovative in materia di contrattazione.
  3. I servizi per il lavoro potrebbero offrire un contesto dialettico in cui le persone siano aiutate a mettere a fuoco i propri obiettivi e a individuare gli strumenti più idonei per perseguirli: una funzione di orientamento che eviti di prescrivere “dove andare” e di indirizzare soltanto verso percorsi formativi o di ricerca del lavoro standardizzati. Su questo terreno sarebbe opportuno costruire uno spazio di collaborazione con le parti datoriali e sindacali, orientato a riconoscere e valorizzare il benessere individuale.