La gestione dell’emergenza abitativa
Tra rischi e nuove possibili traiettorie di innovazione per le politiche abitative
Alice Boni | 26 Novembre 2024
Il presente contributo restituisce in forma sintetica l’articolo pubblicato sul nuovo inserto speciale di Prospettive Sociali e Sanitarie (n. 3-4, Estate-Autunno 2024) e costituisce uno dei temi affrontati nell’ambito della prima edizione della Comunità di pratiche sul welfare abitativo che IRS e KCity hanno proposto nel corso del 2023-2024. Una seconda edizione è in corso di avvio anche per il 2024-2025. Per informazioni sul programma e i temi affrontati si veda qui.
Premessa
Quasi dieci anni fa l’Ordine degli Assistenti Sociali della Regione Lombardia aveva pubblicato le “Linee-guida per la gestione dell’emergenza sfratti: il ruolo del Servizio Sociale”, uno strumento operativo a supporto degli/le assistenti sociali che avevano manifestato, presso l’Osservatorio deontologico regionale, numerose difficoltà nel far fronte alle crescenti situazioni di disagio abitativo. Difficoltà sfociate in molti casi in sentimenti di frustrazione dettati sia dalla mancanza di risorse concrete da proporre ai nuclei familiari, in particolare, per quelle situazioni in cui l’azione di segretariato (il colloquio di supporto e l’orientamento) non era sufficiente e sarebbe stato necessario offrire interventi più consistenti (alloggi alternativi, contributi economici) sia da un senso di abbandono da parte degli amministratori che tendevano a delegare la risoluzione del problema a operatori e operatrici dei servizi di front-office (Ghetti, 2015).
Le Linee guida riempiono un vuoto che le politiche pubbliche per la casa hanno contribuito a produrre, innanzi tutto, chiarendo chi per legge, di fronte alla perdita della propria casa, ha diritto o non ha diritto a una soluzione abitativa, vale a dire le situazioni dove sono presenti fragilità: i minori, le persone con disabilità, gli anziani ultra sessantacinquenni e le persone non auto-sufficienti. Sono esclusi da tale obbligo, rimanendo così facoltà dell’ente la decisione di occuparsene, gli adulti soli (uomini e donne) privi di mezzi e risorse ma autosufficienti dal punto di vista della salute. Rispetto alla normativa sull’accesso all’edilizia residenziale pubblica (Erp), con le Linee guida si opera, da una parte, un restringimento ulteriore della platea dei beneficiari, dall’altra, un ampliamento (implicito) delle possibilità di aiuto: dalle misure tradizionali di welfare abitativo (l’alloggio di Erp e i trasferimenti economici alle famiglie per il mantenimento o l’accesso all’abitazione) che risultano indisponibili alle diverse “risorse” che i servizi sociali sono in grado di attivare (quelle facenti parte dell’armamentario tipico di tale ambito ma anche quelle create ad hoc per rispondere alla domanda “in emergenza”). Dato questo “vuoto” delle politiche abitative, in termini di riconoscimento di una domanda abitativa e di conseguenti risposte, le politiche sociali entrano a pieno titolo in questo ambito, determinando un processo di avvicinamento e, in alcuni casi, anche di positiva integrazione tra i due ambiti di policy. Una tendenza che non è rimasta circoscritta solo alla Lombardia ma che ha interessato anche altre regioni.
Nel corso delle attività di ricerca e di consulenza svolte in questi anni a diretto contatto con le amministrazioni, le organizzazioni del terzo settore e gli abitanti, abbiamo registrato come la gravità della questione abitativa sia tanto presente in numerosi centri urbani quanto assente dall’agenda delle politiche pubbliche regionale e nazionale. Abbiamo anche registrato come la gestione dell’emergenza abitativa si sia sviluppata, sempre di più, come un vero e proprio settore di intervento, dove i servizi sociali dei Comuni, spesso in collaborazione con gli Enti del terzo settore (Ets) e, in casi più virtuosi, con altri settori dell’amministrazione (urbanistica e tributi), si sono dotati di strumenti specifici (piani, protocolli di intervento, regolamenti che definiscono criteri di accesso alle misure, soluzioni abitative speciali) e di risorse ad hoc. Un settore che si discosta, in parte, dai paradigmi e dai modelli tipici delle politiche abitative (l’alloggio di Erp e i trasferimenti economici alle famiglie), in termini di requisiti e criteri di accesso, di standard abitativi, di modalità di gestione e di funzionamento dei servizi e che, oltre a portare con sé numerose criticità e rischi (tra questi il rischio del diffondersi di forme di disuguaglianza territoriale nell’accesso ai servizi) rappresenta, dal nostro osservatorio, un possibile campo di innovazione da cui possono emergere elementi interessanti per ripensare le politiche abitative in crisi.
Una definizione di emergenza a quello di povertà abitativa
Nelle pubbliche amministrazioni quando si parla di emergenza abitativa ci si riferisce, soprattutto, alla situazione di quelle famiglie che hanno perso l’abitazione in locazione o in proprietà a seguito dell’esecuzione della procedura di sfratto per morosità o per vendita forzata all’asta. Si tratta di nuclei familiari per i quali non è stato possibile intervenire con gli strumenti ordinari di welfare abitativo volti a prevenire o risolvere il problema della perdita dell’abitazione (misure di sostegno per il mantenimento dell’abitazione in locazione, contributi di solidarietà, alloggio di Erp) e ciò, a causa della mancanza di requisiti per l’accesso alle misure, all’indisponibilità della risorsa/misura (esaurimento alloggi o risorse disponibili), alla mancata intercettazione del nucleo familiare con una tempistica che ne consentisse la risoluzione o la prevenzione del problema (esempio rottura dei legami di fiducia con il proprietario dell’abitazione in locazione).
Se si guarda alla perdurante condizione di disagio abitativo in cui versa una parte di popolazione (Gnan, Mesini 2024), sembra più opportuno, come suggerisce Tosi (2018) ampliare il concetto di emergenza quello di povertà abitativa.
Le modalità di gestione dell’emergenza abitativa: criticità, insegnamenti, sfide per l’innovazione delle politiche abitative
Da una disamina delle modalità con le quali, in questi anni, Comuni grandi e piccoli si sono autonomamente organizzati per fronteggiare le situazioni di famiglie che perdono l’abitazione, emerge un quadro comune di interventi (vedi immagine sottostante) che tendono a differenziarsi, in particolare, per le tipologie abitative proposte, le modalità di gestione delle stesse e i criteri di eleggibilità dei beneficiari (Boni, Nava 20181; De Albertis, 2023).
Nella prevalenza dei casi incontrati, per gli adulti soli in difficoltà è garantita la presa in carico da parte dei servizi sociali del comune di residenza ma non la fornitura di una soluzione abitativa. Generalmente queste persone vengono indirizzate verso i dormitori pubblici. Gli interventi dei servizi sociali sono invece rivolti prioritariamente ai nuclei famigliari composti da soggetti fragili. In questi casi, le soluzioni abitative attivate tendono a dipendere oltre che dalla loro disponibilità anche dalle caratteristiche del nucleo familiare. Può essere attivata una risorsa che fa parte delle unità di offerta sociale, contraddistinta da un alto contenuto sociale e da elevati costi di gestione (per esempio le comunità alloggio per madri con minori, le Rsa o le Rsd) oppure può essere prevista una risposta immediata all’interno di una struttura di prima accoglienza o di strutture ricettive private (alberghi, ostelli, B&B), in attesa di una soluzione alternativa di breve-medio periodo. Può, in alcuni contesti, essere stato creato un sistema ad hoc per rispondere alle situazioni di emergenza utilizzando alloggi pubblici, cosiddetti “fuori Erp”, o, più frequentemente, alloggi/posti letto messi a disposizione da Ets. Si tratta di soluzioni abitative temporanee, che hanno costi che variano in relazione al tipo di servizio offerto, della durata di pochi giorni, mesi o anni, terminati i quali non si ha certezza di una alternativa e a cui sempre più frequentemente viene associato un intervento di tipo educativo. L’intervento educativo, che è facoltà dell’ente attivare, viene svolto da operatori sociali (assistenti sociali e educatori) spesso appartenenti a Ets in accordo con il Comune, per accompagnare il nucleo verso la riacquisizione dell’autonomia abitativa perduta.
L’amministrazione ha la facoltà di definire un regolamento locale pubblico per la definizione di criteri, requisiti di accesso e condizioni di permanenza nelle strutture temporanee oppure di lasciare la scelta della soluzione più appropriata per il nucleo alla discrezionalità dei servizi sociali guidati da eventuali protocolli/linee guida interni.
Alla base della maggior parte dei sistemi locali di risposta all’emergenza abitativa, sembra prevalere la necessità di arginare una domanda abitativa, contenendo il più possibile la spesa pubblica e basandosi sulle “risorse disponibili”. L’attenzione è spostata sulla capacità e responsabilità delle famiglie nel riconquistare l’autonomia abitativa e sull’organizzazione del servizio sociale e meno su interventi strutturali che possono richiedere di entrare in campi di competenza di altri settori. Un approccio comprensibile se pensiamo che alcune questioni più regolative sono connesse ad ambiti di policy che non dipendono neanche dai governi locali ma più direttamente da quelli nazionali e internazionali (per esempio il mercato abitativo, del lavoro e più in generale l’economia, le politiche migratorie).
L’efficacia e l’appropriatezza delle risposte appaiono, in questi casi, subordinate alle risorse disponibili e attivabili a livello locale. Un approccio che si rintraccia nell’utilizzo ambiguo di alcuni dispositivi che sembrano volti a indurre un turn-over delle famiglie all’interno delle strutture o a scoraggiarne l’accesso (il criterio della temporaneità, la divisione delle famiglie anche in assenza di disfunzioni, la localizzazione delle strutture in zone lontane dai quartieri di residenza, la scelta di tipologia abitative di co-housing/coabitazione). Dispositivi che non rappresentano in assoluto e in tutti i casi elementi dequalificanti delle proposte abitative ma che, se guidati solo da criteri di economicità e non di appropriatezza della risposta, oltre a non essere in grado di rispondere a tutte le domande in arrivo, rischiano di produrre situazioni senza uscita o effetti peggiorativi.
Possibili traiettorie di innovazione per la gestione dell’emergenza abitativa e per le politiche abitative
Quello che abbiamo appreso dal passato è che, se a mutare non sono i paradigmi alla base delle politiche abitative, un approccio quantitativo, «più case» (ancorchè popolari), non è la soluzione alla questione abitativa (Tosi, 2004)2.
Nel paragrafo precedente si è visto come nella gestione dell’emergenza abitativa si sia generato uno spazio di intervento dove, con un certo grado di libertà, i Comuni stanno definendo le modalità di funzionamento di alcuni servizi abitativi, discostandosi dagli standard e dagli strumenti tradizionali di politica abitativa. Nel corso delle attività di ricerca e di consulenza svolte in questi anni e, in particolare della Comunità di Pratiche, abbiamo conosciuto operatori sociali capaci di utilizzare coraggiosamente questo spazio di azione per definire progettualità in grado di misurarsi tanto con i limiti congiunturali quanto con quelli strutturali delle misure di welfare abitativo. Tra gli aspetti osservati da queste realtà e che riteniamo importante riportare troviamo, in primo luogo, il riconoscimento della centralità della famiglia e della persona, della loro dignità e del loro coinvolgimento nella definizione di una soluzione per superare un momento di fragilità. In secondo luogo, lo scostamento da soluzioni abitative standard inteso non in senso riduttivo ma come opportunità per identificare soluzioni più aderenti ai bisogni delle persone, grazie anche al contributo di altre discipline come quelle pedagogiche. In terzo luogo, la possibilità di non lasciare per strada nessuno, attivando, in comune con altri settori dell’amministrazione e attori, strategie di azione locale. Un approccio che implica di modificare lo sguardo, dall’emergenza alla povertà, e la prospettiva temporale, dal breve al medio lungo periodo, e di comprendere come stanno in dialogo tra loro i diversi servizi, come si possono fornire risposte appropriate ai bisogni, quali soluzioni posso immaginare per gestire le situazioni post-emergenza per non far diventare le soluzioni temporanee delle trappole e come posso prevenirle. Quarto, l’opportunità connessa a una maggiore integrazione tra servizi sociali, del lavoro, della casa attraverso forme di presa in carico integrata e multidimensionale in grado di unire gli sguardi (Gnocchi, 2024) e lavorare in sinergia su dimensioni di vita tra loro fortemente interconnesse. In ultimo, l’urgenza di rendere chiara e trasparente l’azione pubblica locale attraverso la condivisione di strategie e la pubblicazione di regolamenti locali per la gestione delle emergenze abitative. Si tratta di esperienze da tenere sotto osservazione proprio per la loro capacità di misurarsi con i limiti delle politiche abitative attuali e di tracciare nuove possibili traiettorie di azione pubblica per la casa.
Conclusioni
Lo sforzo operato verso un ripensamento delle ideologie e dei paradigmi che stanno alla base delle politiche abitative, a partire da alcune esperienze concrete, riteniamo offra l’occasione per riscoprire che cosa significa ridare valore all’esistenza umana e individuale, per ricomprendere e nel caso ridefinire, in questa nuova prospettiva (in una visione diversa dell’uomo e della società), il senso e il significato dei sistemi e delle istituzioni entro cui ci troviamo ad agire e abitare. Può essere un percorso risolutivo delle situazioni più gravi? Forse no ma potrebbe portare alla creazione di precedenti importanti, all’individuazione di nuovi spazi di azione o forse solo a una maggiore consapevolezza e libertà del nostro agire come policy maker, come operatori sociali, come abitanti. A essere in gioco non sembra essere solo il ‘diritto’ a un abitare dignitoso bensì, in senso più lato, la possibilità di un buon funzionamento della società nelle sue varie espressioni.