Applicazione dell’Assegno di inclusione in Umbria
Le valutazioni da parte di alcuni operatori del servizio sociale professionale
Andrea Tittarelli | 15 Gennaio 2025
Come è noto, l’Assegno di Inclusione (ADI) e il Supporto per la Formazione e il Lavoro (SFL) hanno raccolto il testimone dal Reddito di Cittadinanza (RdC), la precedente misura nazionale di contrasto alla povertà. L’ADI è una misura categoriale rivolta alle fasce più vulnerabili della società, mentre il SFL è orientato all’attivazione al lavoro per individui considerati occupabili. Alcuni mesi fa si è intrapresa un’indagine tra gli operatori del servizio sociale professionale di un ambito umbro circa la loro esperienza di prima applicazione dell’ADI, i cui primi esiti sono stati pubblicati su Welforum; in questo articolo l’analisi è completata esplorando in specifico opinioni e valutazioni di questi assistenti sociali, prima su alcune questioni specifiche (la scala di equivalenze, i patti di inclusione, i percorsi verso il lavoro, il trattamento relativamente all’abitazione, le reazioni dei beneficiari alle novità introdotte dalla misura) e poi chiedendo un confronto generale tra la previgente misura del RdC e l’ADI.
La scala di equivalenza e gli importi
La prima questione esaminata riguarda i meccanismi che determinano il computo degli importi da accordare ai cittadini con riferimento alla scala di equivalenza, i cui coefficienti permettono di commisurare l’importo concedibile anche in base al numero e alle caratteristiche del nucleo famigliare. Tale scala di equivalenza, infatti, oltre a determinare un importo crescente al crescere delle dimensioni del nucleo famigliare, tiene conto situazioni specifiche (es. la presenza nel nucleo di figli minori oppure di persone con disabilità) che possono contribuire ad aumentare l’ammontare del beneficio. Qual è la valutazione del servizio sociale professionale in merito? In che misura appare un meccanismo equo e in che misura può aprire a distorsioni?
In primo luogo, viene evidenziato il fatto che sono prese in considerazione solo alcune potenziali fragilità, ma non altre, e che la natura categoriale della nuova misura nazionale ha giocoforza contribuito a restringere la platea degli aventi diritto rispetto al precedente Reddito di Cittadinanza. Inoltre, i servizi notano come nei fatti la nuova misura comporti anche una diminuzione degli importi rispetto a quanto gli stessi nuclei percepivano in virtù del Reddito di Cittadinanza, per lo più dovuta all’adozione di una scala di equivalenza che considera solo i componenti in determinate condizioni (i bambini, gli anziani, le persone con disabilità o in condizione di svantaggio e le persone con particolari carichi di cura). Un caso tipico è la presenza nel nucleo di figli maggiorenni a carico della famiglia che non dando adito a maggiorazioni della scala, non risultano valorizzati nella determinazione dell’assegno erogato. La logica è chiara – un maggiorenne senza fragilità specifiche, nella logica della misura, “se vuole, può lavorare”, e quindi non è computabile per definire l’entità del contributo -, mentre la realtà dei fatti è decisamente meno lineare e più sfumata.
I patti di inclusione sociale e i percorsi personalizzati di inclusione sociale e lavorativa
L’ADI prevede che i membri adulti siano tenuti ad adempiere ad aderire ad un Patto che prevede in sostanza la disponibilità del beneficiario ad attivarsi in azioni a favore della comunità, formazione, tirocini, completamento degli studi, in sostanza in attività che testimoniano il suo impegno all’inserimento sociale e lavorativo. Sono esentati da tale obbligo gli adulti che hanno in carico minori di tre anni o persone con disabilità, considerando che tale impegno di cura assorba le energie del beneficiario. Ma, secondo il servizio sociale professionale, qual è l’efficacia di tali percorsi? La valutazione dei servizi evidenzia aspetti positivi e negativi. In generale, gli operatori notano una certa efficacia della misura nello spingere le persone ad una qualche forma di attivazione che viene rispettata nel tempo e con un certo senso di responsabilità e riscontrano una buona adesione agli impegni di periodico monitoraggio di tali impegni, fatti salvi i casi in cui sussistono delle forme di fragilità specifiche, anche se non riconosciute (e in quel caso il servizio si attiva per farle riconoscere). Appare invece tutta da verificare la capacità di queste misure a determinare un’effettiva uscita dalla condizione di povertà e a raggiungere l’autonomia. Vengono inoltre segnalati dei problemi rispetto all’iscrizione alla Piattaforma SIISL (Sistema Informativo per l’inclusione Sociale e Lavorativa) che mette a disposizione le offerte formative e lavorative e consente alla persona di rendersi visibile tramite il proprio curriculum. Le persone incontrano difficoltà in tali operazioni, anche per la poca chiarezza di talune procedure, con la conseguente sospensione dal beneficio; è quindi generalmente il servizio sociale a farsi carico di queste situazioni, dal momento che i nuclei si trovano in difficoltà nell’interloquire direttamente con l’INPS o con i patronati. Anche i centri per l’impiego si dimostrano poco in grado di dare attuazione ai percorsi di inclusione lavorativa, con il risultato che i cittadini ritornano a cercare il supporto del servizio sociale, ad esempio per l’attivazione di tirocini di inclusione. In sintesi, il tentativo di spingere il cittadino beneficiario della misura ad attivarsi ha esiti positivi sino a che non riguarda aspetti direttamente connessi al reperimento di un lavoro, dove si sommano invece i limiti di molte delle persone beneficiarie e delle istituzioni.
Il lavoro
Anche con riferimento alla relazione dell’ADI con il lavoro e in particolare all’obbligo di accettare qualsiasi tipo di lavoro e alla sospensione temporanea in caso di contratti a tempo determinato vi sono valutazioni diverse. Per alcuni assistenti sociali, l’obbligo di accettare qualsiasi tipo di lavoro, e la conseguente sospensione temporanea in caso di contratti a tempo determinato, potrebbe risultare un buon deterrente di contrasto del lavoro a nero e un incentivo all’autodeterminazione della persona, nonché alla sua indipendenza economica; la sospensione temporanea in caso di contratti a tempo determinato, qualora il compenso reddituale superi le soglie previste dalla normativa, è coerente con la distribuzione in modo equo delle risorse tra i beneficiari ed è nella maggior parte dei casi compresa dai beneficiari.
Per altri ciò che va sottolineato è in primo luogo l’assenza di risposte effettive da parte dei Centri per l’Impiego: pur mancando statistiche ufficiali e nonostante la numerosità di casi inviati dai Case Manager Assistenti Sociali al Centro per l’Impiego, i beneficiari in generale riferiscono in sede di incontri periodici di non avere avuto nella maggior parte dei casi alcuna effettiva proposta formativa e/o lavorativa o, al più richieste di adesione a percorsi formativi, senza che essi appaiano comunque correlati alla possibilità di avere offerte lavorative concrete.
In sostanza emerge una contraddizione tra una disciplina di condizionalità stringente ed esigenze e percorsi che di fatto offrono opportunità reali molto limitate.
L’ADI e il pagamento del mutuo
Tra gli aspetti su cui gli assistenti sociali si confrontano vi sono le spese per la locazione della casa o il mutuo. Vi è una valutazione positiva rispetto al fatto che, da marzo 2024 in poi, sia stata prevista una quota (150 euro mensili al massimo) per il pagamento del mutuo oltre alla quota (280 euro mensili al massimo) per il pagamento dell’affitto, superando almeno parzialmente un’iniziale criticità dell’ADI. D’altra parte, viene segnalato come la presenza di massimali fissi si traduce in uno svantaggio per i nuclei famigliari più numerosi, che necessitano di spazi più ampi e pertanto affrontano spese maggiori per l’abitazione; inoltre, nella maggior parte dei casi, il contributo appare insufficiente a coprire le spese per l’abitazione.
Le reazioni dei beneficiari
I servizi riscontrano come i beneficiari ADI fatichino a comprendere e rispettare la standardizzazione delle procedure connesse alle condizionalità ADI, sia nel momento della presentazione della domanda, sia durante il monitoraggio ove necessario. In particolare, la necessità di prevedere e rispettare un calendario di incontri di monitoraggio per chi è tenuto al PAIS risulta poco chiara alla maggior parte dei beneficiari. Inoltre, appare spesso ostica la comprensione della necessità di firmare un secondo Patto di Attivazione Digitale per i componenti del nucleo attivabili al lavoro, senza il quale non si apre la presa in carico del Centro per l’Impiego e il beneficio può essere sospeso.
Più in generale, molte persone appaiono confuse rispetto al proprio titolo per accedere all’ADI e tendono a fare pressione sul servizio per ricevere un’attestazione della condizione di svantaggio anche in mancanza dei requisiti. Di fronte al diniego, i beneficiari tendono ad esigere altro tipo di sostegno al reddito. Da questo punto di vista il meccanismo del RdC appariva più semplice e lineare. Altri beneficiari hanno invece ben compreso la misura e si sono affidati alle indicazioni dei Servizi sociali per costruire un rapporto finalizzato al proseguo del proprio beneficio economico.
Viene inoltre rilevato come la difficoltà organizzative e a fare rete dei diversi servizi coinvolti può contribuire a aumentare confusione e disorientamento dei beneficiari. Ad esempio, accade che i beneficiari ricevano l’invito a presentarsi ai servizi sociali per la sottoscrizione del PAD (Patto Attivazione Digitale) nonostante gli Assistenti Sociali Case Manager non avessero ancora in carico la pratica sulla piattaforma in uso per la gestione della misura, causando frustrazione e preoccupazione da parte dei beneficiari – in molti casi l’AdI costituisce l’unica entrata per il nucleo – nonché un sovraccarico di lavoro da parte degli Assistenti Sociali. Vanno purtroppo segnalati casi in cui carenze organizzative dei servizi hanno contribuito alla sospensione o in alcuni casi alla decadenza della misura.
In generale, il confronto tra RdC e ADI
Nel confrontare l’ADI con il precedente istituto del Reddito di Cittadinanza, i commenti delle assistenti sociali sono discordi. Vi è chi vede dei benefici nel passaggio alla nuova misura, perché il fatto di distinguere tra cittadini direttamente orientabili all’occupazione (destinatari del SFL) e cittadini destinatari dell’ADI in cui sono prevalenti i progetti di inclusione sociale consente di instradare meglio il progetto, evitando di lavorare sull’occupabilità nei casi in cui ciò è inappropriato e concentrandosi maggiormente sulla progettualità con le persone, aumentando la possibilità di impatto e beneficio. Di fatto, secondo alcuni, i beneficiari ADI presentano sempre di più una situazione di fragilità cronicizzata con uno scarso spazio di miglioramento nel percorso di emancipazione dalle situazioni di bisogno. Inoltre, viene considerata con favore la riduzione da 10 a 5 anni del periodo di residenza necessario per godere del beneficio, aumentando i destinatari della misura che prima era eccessivamente punitiva nei confronti dei cittadini stranieri. Un altro aspetto considerato positivamente da alcuni assistenti sociali riguarda la maggiore efficacia dell’ADI nel responsabilizzare i destinatari, definendo in modo più puntuale le tempistiche degli obblighi da rispettare e favorisce l’empowerment dei cittadini e si sono riscontrati casi, ad esempio, in cui l’inserimento nell’ADI ha portato ad una più puntuale assunzione di responsabilità genitoriali. Inoltre, l’obbligatorietà del primo incontro con previsione di una sanzione in caso di rifiuto e la previsione del successivo monitoraggio, ha permesso ai servizi di avere una conoscenza più approfondita del nucleo familiare e in alcuni casi ciò ha permesso di rintracciare situazioni di particolare disagio che sarebbero in caso contrario rimaste sconosciute al Servizio e per i quali sono invece stati introdotti i necessari sostegni. In particolare, per i nuclei che hanno sottoscritto il PaIS (il Patto di Inclusione Sociale) è previsto un monitoraggio che consente a noi assistenti sociali di rivalutare progressivamente e periodicamente l’andamento della situazione.
Vi sono d’altra parte assistenti sociali con una visione diversa, che considerano l’ADI come un passo indietro rispetto all’esperienza di uno schema di reddito minimo universalistico – il Reddito di Cittadinanza – rivolto a tutti coloro che si trovano in uno stato di bisogno in virtù sul principio dell’universalismo selettivo, secondo cui un trasferimento è concesso a tutti coloro in condizioni di bisogno, indipendentemente da altre caratteristiche come l’età, la presenza di disabili nel nucleo, la condizione lavorativa. L’ADI è infatti improntato alla categorialità, il principio secondo cui le prestazioni sono accessibili in virtù dell’appartenenza ad una determinata categoria. Dunque, per avere questo supporto è necessario appartenere ad una categoria “meritevole” di tutela. Inoltre, sono sottolineate le differenze che emergono in relazione alla modalità di calcolo del beneficio sulla base della scala di equivalenza, che comporta, coerentemente con l’approccio categoriale, di non considerare tutti i componenti della famiglia, con conseguente riduzione del contributo. Questo, secondo alcuni assistenti sociali, sta comportando un incremento della povertà e del lavoro nero e dell’indebitamento che sfocia, a volte, nel rischio usura. La misura SFL non risulta sufficiente a sopperire alle esigenze degli adulti tagliati fuori dall’ADI, sia per l’ammontare dell’importo percepito (350,00 euro mensili), sia perché, da quanto constatato, non fornisce soluzioni lavorative a lungo termine, interrompendosi, nella maggior parte dei casi, in seguito alla partecipazione a un corso di formazione. In sintesi, con poche eccezioni, non si riscontrato evidenti benefici nel contrasto alla povertà. Viene poi evidenziata la criticità costituita dall’eccessiva burocratizzazione della procedura, sia al momento della domanda, sia per gli adempimenti relativi alle condizionalità previste dalla normativa. In particolare, la necessità di accedere alla piattaforma SIISL per la firma del doppio patto in caso di invio al CPI, oppure per le informazioni relative alla convocazione fatta dal servizio sociale tramite SMS.
Conclusioni
L’Assegno di Inclusione (ADI) rappresenta un cambiamento significativo rispetto al Reddito di Cittadinanza, adottando un approccio più focalizzato sulle categorie di fragilità sociale e sulla progettualità individuale. Tuttavia, l’analisi delle esperienze degli operatori del servizio sociale professionale in Umbria evidenzia un quadro complesso, fatto di luci e ombre.
Da un lato, l’ADI ha permesso un maggiore approfondimento delle situazioni individuali, facilitando interventi mirati e migliorando il monitoraggio delle fragilità. Dall’altro, l’eccessiva categorialità della misura, unita alla complessità burocratica e alla difficoltà di accesso a reali opportunità formative e lavorative, ha ridotto la sua efficacia nel contrastare la povertà e nel favorire l’autonomia economica dei beneficiari.
Le difficoltà organizzative e il sovraccarico degli operatori sociali si riflettono in un’esperienza per molti versi disorientante per i beneficiari, aggravata dalla frammentazione dei servizi coinvolti. Questo ha reso più complesso il processo di inclusione, portando in alcuni casi a un senso di frustrazione sia tra i beneficiari sia tra gli stessi operatori.
L’ADI pone basi interessanti per una maggiore responsabilizzazione dei destinatari e una progettazione più attenta dei percorsi di inclusione, ma per raggiungere pienamente i suoi obiettivi è necessario un impegno strutturale volto a semplificare le procedure, a garantire una maggiore equità nella distribuzione delle risorse e a rafforzare i collegamenti con il mondo del lavoro e delle opportunità formative. Solo così sarà possibile superare le criticità emerse e trasformare l’ADI in uno strumento realmente efficace per l’inclusione e il contrasto alla povertà.