L’assordante silenzio sui disturbi alimentari


Sergio Pasquinelli | 3 Febbraio 2025

Dilagano i disturbi del comportamento alimentare. E continuano a essere trattati in chiave totalmente sanitaria, dove è evidente il carattere multidimensionale del disagio che li genera. Sintomi di un malessere diffuso, ma anche evidenza di un welfare che arranca di fronte a nuovi bisogni.

Nei primi anni duemila le persone che soffrivano di disturbi dell’alimentazione in Italia erano circa 300 mila, oggi sono oltre 3 milioni. Tra il 2019 e il 2023 la crescita dei casi è stata costante e mentre i numeri aumentavano è scesa sempre più l’età. Secondo i dati del Ministero della salute, l’incidenza maggiore si rileva sulle ragazze tra i 12 e i 25 anni, ma c’è stato anche un sensibile aumento della componente maschile tra i pazienti, ormai il 20% del totale. E vertiginoso è l’aumento dei disturbi in età pediatrica, con l’abbassamento dell’età di esordio e l’aumentata prevalenza nei maschi.

Anoressia e bulimia sono le più conosciute, ma si diffondono comportamenti meno noti (vedi qui) come l’ortoressia (la ricerca ossessiva di una dieta sana), la vigoressia (l’eccessiva attenzione per la forma fisica), la diabulimia (pazienti con diabete di tipo 1, che omettono l’insulina per dimagrire) o il disturbo da alimentazione incontrollata (Binge Eating Disorder), caratterizzato da grandi abbuffate, a cui segue un aumento di peso e, spesso, l’insorgere di una obesità. Per non parlare dei disturbi definiti minori, che riguardano ben più di 3 milioni di italiani, comunque molto impattanti sulla qualità di vita e sulle aspettative di salute.

I disturbi del comportamento alimentare sono sintomi in un corpo che parla. L’espressione di un disagio inespresso, di un’identità compressa. Richiedono ascolto, prima che diagnosi, da parte di competenze diverse: psicologo, psichiatra, pediatra, nutrizionista, dietista, infermiere, assistente sociale, e su diversi livelli di assistenza, dall’ambulatorio al centro diurno, alla residenza riabilitativa, ai ricoveri in ospedale per le situazioni più gravi. Come afferma Chiara Daina qui “il successo del trattamento dipende anche dal tempo della diagnosi: prima si interviene e meno ci sarà il rischio che il disturbo cronicizzi con danni permanenti a tutti gli organi (che nei casi più gravi possono portare alla morte)”.

Il tempo, il momento, il timing dell’aiuto chiama in causa interventi sul lato sociale, relazionale, psicologico. Intervenire in chiave solo sanitaria è riduttivo, vuol dire non capire l’origine del disagio, e affrontare il disturbo quando diventa patologia, malattia. È un modello che si ripete nelle dipendenze, nelle demenze senili: se ne occupa la sanità, con tutto l’apparato (e il linguaggio) che la cateterizza. Ma è dimostrato quanto la malnutrizione sia legata a fasce sociali più deboli, e quanto il contesto educativo, culturale giochi un ruolo assolutamente cruciale. L’esposizione ai social poi, con l’ampia pressione legata all’alimentazione e al corpo, esalta le fragilità a danno di chi è più suscettibile di condizionamenti. E tutto questo non richiede medici, né infermieri, ma tutt’altre geometrie di intervento.

In Italia i supporti sono arretrati. L’Istituto superiore di sanità fornisce una mappa delle strutture specializzate qui. Se ne contano 214, ma si tratta di realtà estremamente diverse tra loro, pubbliche e private, localizzate in ospedali, in ambulatori territoriali, presso le Asl o presso associazioni. Soprattutto, con una distribuzione infinitamente disomogenea: basti dire che in tutta la Sicilia se ne contano sei, ventuno in Lombardia.

Il primo punto di contatto dovrebbero essere gli ambulatori specializzati (occupandosi del 60% della domanda di assistenza). Una collocazione ideale di questo primo accesso sarebbe nelle Case della Comunità. Quante di esse prevedono la presenza di un centro di accoglienza specializzato? Pochissime. In Lombardia nessuna.

Il Fondo nazionale per il contrasto dei Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione, istituito tre anni fa, è stato rifinanziato con 10 milioni di euro per il 2025: una goccia nel mare. Alla fine dell’anno scorso 16 nuove esenzioni sanitarie sono state aggiunte alle altrettanti già esistenti, facenti parte dei Lea. Ma si tratta di prestazioni che dipendono dalle possibilità (e volontà) concrete delle Regioni (spazi, personale). La soluzione è quella che chiedono le associazioni dei familiari: conferire ai disturbi alimentari un budget separato, con un’autonomia strutturale nei Lea, un’area distinta dalla salute mentale.

Intanto ci sono in parlamento, da tempo, due disegni di legge che potrebbero aiutare sia a prevenire questi disturbi, con misure ad hoc, sia a reprimere comportamenti illeciti, con l’introduzione del reato di istigazione a pratiche alimentari atte a provocare anoressia e bulimia. Ma i tempi di approvazione sembrano lunghi.

Come altrove, le cose si muovono con estrema lentezza: è evidente che il Fondo nazionale consiste in uno stanziamento poco più che simbolico per costruire reti adeguate. A livello di Servizio sanitario nazionale e su una nuova legge, escludiamo un traguardo per il prossimo 15 marzo (giornata nazionale “Fiocchetto Lilla” dedicata ai disturbi alimentari). Vogliamo sperare qualcosa entro l’anno?