A che punto siamo con il Servizio di Pronto Intervento Sociale (SPIS)


Andrea Mirri | 16 Dicembre 2024

Nel mio recente articolo “Sul pronto intervento sociale” (2023) mi sono soffermato sull’approccio culturale del servizio sociale al tema del lavoro in circostanze di emergenza che ha influito molto sulla mancata, o comunque molto parziale, realizzazione, in maniera omogenea e diffusa, di questo servizio in Italia. La sfida necessaria per la sua piena attuazione – sostenevo – appare infatti non pienamente raccolta da un servizio sociale ancora impigliato in quella “visione negativa” su questo tema (Fargion, 2013), che ha avuto come conseguenza quello che definirei un (grave) ritardo di elaborazione teorica e, di conseguenza, di realizzazione organizzativa del servizio di pronto intervento sociale (SPIS) come livello essenziale previsto dall’art. 22, c. 4, lett. b della legge 328/2000. Un ritardo di un quarto di secolo. Che ha, come ulteriore conseguenza, una forte disomogeneità che sta caratterizzando il comparire qua e là di queste sperimentazioni, ‘a macchia di leopardo’, nel nostro Paese.

In questo articolo, quindi, vorrei riprendere la riflessione proprio a partire da questi due punti: il PIS come servizio (quindi SPIS) e come livello essenziale dotato di uniformità su base nazionale.

Primo punto: la questione del servizio

Prima di tutto – mi preme sottolinearlo – ritengo che in un paese civile dovrebbe essere garantito effettivamente ai cittadini il diritto, oltre al ‘pronto soccorso’ sanitario, anche ad un ‘pronto soccorso’ sociale, come capacità di “risposta immediata e tempestiva, in modo qualificato, con un servizio specificatamente dedicato”, come novella il recente Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali 2021 – 2023, nella scheda 3.7.1. allegata a quel Piano. Ma qui il primo punto su cui c’è ancora grande confusione: cosa è questa ‘risposta’? Meglio e per essere più preciso: ‘pronto intervento sociale’ o ‘servizio di pronto intervento sociale’? Va subito sgombrato il campo da un primo equivoco di fondo: parlare di ‘intervento’ e di ‘servizio’ implica parlare di due cose diverse. Se il primo configura essenzialmente l’azione professionale del professionista, il secondo, invece, rappresenta la struttura organizzativa che ha una determinata dotazione di risorse attraverso le quali svolge i propri interventi. Il primo è un atto, un’azione, il secondo, invece, una vera e propria organizzazione, per un determinato e particolare settore di interventi. Quindi si fa confusione e non si interpreta correttamente il dettato della norma se – come scrivevo nell’articolo del 2023 – “si pensa il PIS come intervento, e non, come dovrebbe essere, come servizio, riducendolo ad una modalità rapida di intervento, o ad una semplice prestazione di natura genericamente emergenziale” (Mirri, op. cit., p. 4). La scheda 3.7.1., invece, da questo punto di vista è molto chiara, perché fin dal suo incipit parla chiaramente di ‘servizio’, anzi, di servizio dedicato e specifico. Quindi se gli ambiti realizzano, semplicemente, dei ‘pronto intervento’, ovvero se prevedono che ci siano operatori, magari non solo assistenti sociali, che agiscono in maniera pronta, questo non è realizzare il servizio di pronto intervento sociale: questo non basta, ci vuole ‘alle spalle’ il servizio che lo organizza, che lo governa, che lo inquadra all’interno di precise funzioni e attività complessive previste nella scheda 3.7.1..

Per questo preferisco usare l’acronimo SPIS, e non PIS, perché quest’ultimo appare deprivato della sua parte più importante, quella ‘S’ iniziale che lo connota con la dimensione di ‘servizio’.

Secondo punto: la questione del livello essenziale e dell’uniformità

Il SPIS è un livello essenziale, e questa non è cosa di poco conto: va infatti ricordato, e tenuto ben presente, che questo significa che lo Stato, in tutte le sue articolazioni, ha un impegno a dare pieno risalto ai bisogni della cittadinanza che si intendono tutelare, con una contestuale precisazione del “volume minimo” (Motta, 2022) di interventi che devono essere garantiti dai Soggetti impegnati e le risorse necessarie per la loro concreta messa a terra. Impegno che si inserisce nel contesto della Riforma del titolo V della Costituzione, con il nuovo dettato dell’art. 117 che ha elevato a “precetto costituzionale” quella previsione della L.328/2000 (Torretta, 2021). Questo significa riconoscimento costituzionale dei LEPS della legge 328/2000, compreso il SPIS, che quindi non solo deve essere garantito come diritto sociale e civile su tutto il territorio nazionale, ma, in tal senso, anche “secondo standard di uniformità” (Santuari, 2021).

È vero che la scheda 3.7.1. spiega che il SPIS va realizzato in relazione “alle caratteristiche territoriali e di organizzazione dei servizi” (p. 107), ma questo non significa che ognuno fa come gli pare: ogni ambito deve impegnarsi a realizzarlo entro una cornice di conformità e coerenza al dettato della scheda 3.7.1., quindi entro limiti precisi di uniformità.

D’altra parte, ci potremmo immaginare – tanto per fare qualche esempio – un servizio di pronto soccorso che in un territorio apre tutti i giorni alle 17 e chiude alle 22 e in un altro apre solo il sabato e la domenica dalle 8 alle 20, e in un altro ancora è sempre aperto? E lo potremmo immaginare organizzato in un territorio solo con infermieri, reperibili, in un altro con un’equipe stabile di medici e infermieri, e in un altro ancora con la disponibilità di (qualche) medico di famiglia o di reparto?

Può sembrare assurdo, ma i servizi sociali, nella migliore delle ipotesi, stanno ad oggi proponendo qualcosa che non è così lontano da quella situazione, e, in realtà, più spesso, non propongono proprio alcun servizio di pronto soccorso.

Dunque, se inquadriamo il SPIS correttamente nella logica di ‘servizio’ e di ‘livello essenziale’ secondo criteri di uniformità, in modo coerente con la normativa, esso rappresenta una importante sfida per il servizio sociale e per la comunità intera.

La mia personale opinione, però, sulla base della mia esperienza ‘in giro’ per l’Italia, è che non vi sia (ancora) un’esatta percezione del livello di importanza che costituisce la realizzazione di questo servizio nel nostro Paese. Sicuramente i finanziamenti collegati hanno attivato interesse, ma – mi pare – ancora con non sufficiente attenzione alle reali implicazioni metodologiche e organizzative che il SPIS comporta. E tutto questo genera – a detta anche dello stesso Ministero – una discreta confusione attuativa.

Per provare ad esemplificare queste considerazioni, provo a riassumere, in maniera certamente un po’ schematica (e forse anche inevitabilmente riduttiva) alcune principali criticità in cui, peraltro non infrequentemente, mi imbatto:

  1. Le emergenze non sono competenza dei servizi sociali. Molti ambiti di fatto non si pongono il problema del SPIS (o PIS che dir si voglia) poichè considerano il tema delle ‘emergenze’ qualcosa che non appartiene alle competenze dei servizi sociali ma a quelle di forze dell’ordine o pronto soccorso/118: il SPIS/PIS è un ‘di più’ rispetto alla priorità di sostenere l’organizzazione attuale e la gestione del lavoro ordinario e, al più, le azioni orientate alla prevenzione. Ma così vengono abbandonate competenze del servizio sociale e consegnati bisogni dei cittadini ad altri soggetti.
  2. Confusione fra PIS e SPIS. Molti ambiti, invece, ritengono di avere già il PIS perché i loro servizi sociali, quando arriva la segnalazione di emergenza, intervengono prontamente attraverso il sistema di alleanze sociali locali, negli orari di apertura. In quelli di chiusura, gli stessi operatori, per i rapporti di vicinanza e di conoscenza, per ‘buona volontà’, ‘senso del dovere’ (o scrupolo) in qualche modo sono disponibili ad intervenire, e quindi, di fatto e in qualche modo si trova una soluzione (questo accade specialmente nelle realtà dei piccoli paesi). Ma i livelli essenziali non si garantiscono con la ‘buona volontà’.
  3. Il PIS riguarda i momenti di chiusura degli uffici dei servizi territoriali. Molti ambiti, ancora, pensano che realizzare il SPIS significhi (semplicemente) istituire la reperibilità o fare una gara d’appalto per coprire con operatori dedicati gli orari di chiusura dei servizi territoriali (extratime), mentre negli orari di apertura (intratime) tutto rimane invariato. In realtà la scheda 3.7.1. del Piano prevede diversamente e, infatti, indica quelle che io chiamo le due strade realizzative del SPIS (Mirri, 2023; Mirri, 2022):

– la strada uno, forse delle due la più complessa e complicata da realizzare (e, dal mio punto di vista, meno efficace ed efficiente) è quella per cui il SPIS, che – per norma – deve essere uno, e attivo h24, deve essere garantito negli orari di apertura dall’organizzazione stessa dei servizi sociali territoriali, mentre, negli orari di chiusura deve essere garantito con personale dedicato attraverso la reperibilità o l’assegnazione del servizio con appalto al terzo settore. Questo implica che l’organizzazione intratime e quella extratime siano sinergiche e sintoniche a garantire questo livello essenziale, con modalità organizzative, tempi e approccio professionale che siano unitari e integrati, nell’interesse e a garanzia dei diritti dei cittadini. L’organizzazione dei servizi sociali in orario di apertura, per queste ragioni, non può rimanere la stessa.

– la strada due, invece, dal mio punto di vista forse la più chiara e, se non più semplice, più lineare, da realizzare (e preferibile), richiede di costituire il servizio SPIS come “servizio specifico e dedicato” – come novella il Legislatore della scheda 3.7.1. –  quindi con una propria organizzazione, proprio personale e proprie risorse, in modo integrato e sinergico con i servizi sociali territoriali di quell’ambito.

Concludo dicendo che la situazione attuale relativamente al SPIS è caratterizzata da aspetti sia positivi che negativi: l’intervento normativo del Legislatore nazionale con il Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali 2021-2023 e la scheda 3.7.1. ha sicuramente risvegliato un po’ di interesse per l’argomento e dato un certo impulso alla progettazione locale e quindi a sperimentazioni di SPIS. Ma il percorso è ancora lungo per poter parlare di realizzazione del livello essenziale, non solo per le criticità realizzative in relazione alla necessaria coerenza con l’impianto normativo, ma anche e soprattutto per quelle culturali di un servizio sociale che fa ancora molta fatica ad incorporare questo tema nel proprio bagaglio disciplinare. Questa sfida, quindi, non può che passare anche attraverso l’Università: se il servizio sociale sarà capace di produrre pensiero e ricerca specifici su questo tema, potrà ambire non soltanto ad entrare nelle aule e nei programmi d’insegnamento universitari e a formare fin da subito le nuove generazioni di professionisti, ma anche ad avere un giusto corredo scientifico, metodologico e professionale, per poter portare il proprio contributo, fondamentale, nella discussione pubblica sul tema delle emergenze sociali, in una visione aperta al dialogo con altre discipline, e ad una capacità effettiva di costruzione del SPIS come livello essenziale, in cui appaiano a quel punto chiari i contenuti specifici e specializzati della mission professionale e organizzativa, in una logica di maggior uniformità.