A proposito di disabilità e “accomodamento ragionevole”

Per un’analisi filosofico-morale


Alessio Musio | 28 Febbraio 2018

Nel testo della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle persone con disabilità (2007), l’espressione “accomodamento ragionevole” ricorre in più punti e con un ruolo fondamentale. Se lo scopo della Convenzione, infatti, è quello di promuovere «il pieno e uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità» (così l’art. 1), la categoria di “accomodamento ragionevole” emerge sin da subito come il mezzo idoneo al raggiungimento di tale finalità. La mossa della Convenzione è in questo senso molto precisa: «minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali» – si legge al secondo punto dell’articolo 1 – non possono e non devono essere pensate come un’obiezione rispetto a una «piena ed effettiva partecipazione [delle persone con disabilità] alla società su una base di eguaglianza con gli altri».

Queste poche battute, di un documento troppe volte dato per scontato, costringono in effetti a riflettere sul modo in cui il binomio uguaglianza-differenza caratterizzi la condizione umana. Da un lato, perché nessuna differenza fra gli uomini può essere considerata così rilevante da annullarne l’uguaglianza fondamentale; dall’altro, perché il dovere da parte della società di mettere in atto «modifiche» e «adattamenti necessari ed appropriati» (secondo la Definizione di ‘accomodamento ragionevole’ proposta all’art. 2) per agevolare chi vive in una condizione di disabilità, si motiva proprio a fronte del riconoscimento dell’incidenza di certe differenze.

 

Quanto poco questa logica abbia preso piede lo si vede dalle politiche pubbliche sulla disabilità, in cui continuano a permanere due modelli discriminanti e fortemente intrecciati. Il primo è quello che ha preso di mira nelle sue ricerche la filosofa americana Martha Nussbaum, vale a dire il fatto che ci si occupi della disabilità solo dopo che si sono già predisposti e affrontati i problemi di giustizia sociale relativi alla maggioranza delle persone; in fondo, come una questione secondaria. In quest’ottica – ed è il secondo modello – la disabilità non è pensata, a ben vedere, come una possibilità della condizione umana, ma come l’espressione di una categoria sociale minoritaria e relativamente poco influente: quella dei ‘disabili’, appunto, sulla base di un linguaggio in cui la parola ‘persone’ esce inavvertitamente di scena senza neppure stabilirlo.

A questa incapacità diffusa di riconoscere l’uguaglianza personale si affianca poi quella di riconoscere – come si diceva – le tante differenze che caratterizzano le varie forme di disabilità. Basta pensare all’immagine (né maschile né femminile) della persona in carrozzella; un simbolo, divenuto nel tempo un vero e proprio stereotipo, che continuamente rimuove nella coscienza personale e collettiva il fatto che esistono invece tanti tipi di disabilità: motorie, cognitive, sensoriali, che cambiano nella loro entità a seconda dell’ambiente (più o meno barriera, più o meno facilitatore, secondo la logica classificatoria dell’ICF) in cui le persone sono inserite.

 

Eppure, per quanto le nostre immagini non corrispondano mai in modo adeguato ai nostri concetti, in questo caso la discrepanza si fa davvero rilevante, perché – ci dice la Convenzione – non si possono trovare risposte alle esigenze delle persone con disabilità se si rimane indifferenti alle tante differenze che sostanziano la quotidianità della loro condizione. Il che significa qualcosa di banale, ma nello stesso tempo di sconvolgente: che se si trattano davvero allo stesso modo persone che vivono differenze importanti non le si tratta con uguaglianza. Anche se questa tesi sembra essere ormai dimenticata, l’uguaglianza come equità non ha nulla a che vedere, infatti, con l’egualitarismo.

È quello che spiega la Convenzione nell’art. 5 al punto 4, quando, dando sostanza all’idea di accomodamento ragionevole, rivendica che «le misure specifiche che sono necessarie ad accelerare o conseguire de facto l’uguaglianza delle persone con disabilità non costituiscono una discriminazione […]».

Per capire l’importanza di questa mossa teorica, basta pensare al rovescio, rendendosi conto di quanto succede in quelle grottesche situazioni che accadono nei Pronto Soccorsi di tanti nostri ospedali quando non si fa distinzione tra persone con e senza disabilità: le cronache raccontano di persone con sordità che non riescono ad accedere alle cure perché non sentono chiamare il loro nome; di persone che soffrono di autismo che, come tutte aspettano, tre o quattro ore il proprio turno in un luogo chiuso e affollato (sono tratte con uguaglianza!) e così diventano aggressive verso se stesse e verso gli altri; di ragazzi affetti da gravi disabilità cognitive che hanno la peritonite, ma che vengono “curati” con ansiolitici, perché “si dimenano”… Se ci spostiamo dal contesto dell’assistenza e guardiamo al versante lavorativo, scopriamo aziende che preferiscono pagare multe piuttosto che dare lavoro alle persone con disabilità, proprio perché il criterio è per tutti quello della velocità, della prestazione, e non si ammettono tempi e risultati diversi; o ancora aziende che, proprio per questo, assumono invece persone con particolari condizioni di disabilità che le rendono più dedite al lavoro e dunque più performanti (con un criterio che non è quello della giustizia, ma quello della competitività, della produttività, della resa lavorativa).

 

Eppure, di per se stesso, il tema dell’uguaglianza sembrerebbe essere facilissimo, visto che tutti gli uomini sono uguali in dignità per il fatto stesso di essere uomini. Sicché non si deve fare nulla per ottenere la dignità: il fatto di possedere un valore talmente grande da non avere prezzo (secondo l’idea kantiana) è in questo senso il dato di partenza e strutturale di ogni vicenda umana – una tesi che la Convenzione Onu per altro richiama usando l’espressione «dignità inerente» (cfr. art. 1). Nondimeno, il linguaggio della dignità è concettualmente esigente e articolato, perché, mentre esclude che esistano vite indegne di essere vissute, invita a non essere indifferenti, invece, rispetto a tutte quelle situazioni che non sono all’altezza della dignità umana e che per questo motivo devono essere modificate.

Ed è qui che viene allora il difficile. Non solo perché all’ingiusta sbrigatività del linguaggio delle “vite indegne” devono subentrare la fatica e le tante difficoltà pratiche e teoriche che servono per capire come intervenire per modificare situazioni inaccettabili se guardate dalla prospettiva della dignità umana. Ma anche perché accanto a questa linea culturale, ve n’è una opposta per la quale il singolo uomo ha valore se e solo se riesce in qualche maniera a distinguersi da tutti gli altri. Ed è così che l’uguaglianza diventa difficile, perché è negata in partenza, tanto che non conta, non è nemmeno un obiettivo; anzi, è proprio ciò da cui si deve sfuggire.

 

L’insistenza con cui la Convenzione Onu ritorna sulla nozione di ‘accomodamento ragionevole’ va compresa, allora, come una critica implicita alla logica di quella società della prestazione in cui tutti siamo più o meno immersi, in un tessuto di relazioni umane, prima ancora che professionali, che sono tutte occasioni perdute perché sempre competitive o strumentali.

È in questo intreccio di uguaglianza e differenze, di uguaglianze che sarebbero importanti se non avessimo dimenticato il significato di questa parola, che va allora colta la strategia della Convenzione Onu, quando all’art. 2 insiste – come ricordato – su quelle «modifiche» e su quegli «adattamenti necessari e appropriati» grazie ai quali diventa possibile «garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali».

Perché l’atteggiamento nei confronti della disabilità non è, alla fine, materia soltanto di una Classificazione, ma un problema culturale di natura etico-politica, in cui è in gioco la radice della nostra condotta quotidiana nei confronti di noi stessi, prima ancora che degli altri o di una non meglio precisata categoria sociale.

Dire, come fa la Convenzione, che servono accomodamenti ragionevoli significa sostenere che, affinché le uguaglianze si realizzino, non si può lasciare semplicemente che le cose facciano il loro corso (secondo il comodo laissez-faire di ogni tempo e cultura). Il paradosso della logica degli accomodamenti ragionevoli è così quello per cui, per far essere-comodo occorre scomodarsi, procedendo attraverso continue revisioni e continui aggiustamenti – espressione in cui compare, spesso non vista, la parola ‘giustizia’.

 

Se molte altre sarebbero le cose da dire di una logica in cui il lessico degli ‘accomodamenti ragionevoli’ diventa semplicemente il lessico della giustizia, non si può qui in conclusione non notare come, sempre all’art. 2, la Convenzione Onu finisca per precisare il criterio con cui pensare gli interventi di accomodamento, i quali – si dice – in ogni caso non devono determinare «un onere sproporzionato o eccessivo» (ibidem). Come una terapia medica può risultare, infatti, in certe condizioni sproporzionata e diventare quindi una forma di accanimento terapeutico, allo stesso modo esistono azioni di accomodamento che, se fuori-proporzione, risultano futili o addirittura violente per il contesto e/o per le persone; aggiustamenti che invece di realizzare effettive condizioni di giustizia finiscono per danneggiare il tessuto umano e relazionale che volevano modificare.

Eppure, se può sembrare strana l’idea che qualcosa che nasce per far sentire comodi possa finire in realtà per ferire o far male, certamente non può sorprendere che intorno a un’espressione apparentemente insignificante come ‘accomodamento ragionevole’, si giochi non solo la questione stessa della disabilità, ma il senso etico-culturale della nostra civiltà.