Accanto ai LEPS: criteri che escludono dai diritti


Maurizio Motta | 27 Gennaio 2025

Pubblichiamo qui il secondo della serie di tre articoli proposti dall’autore. Il primo è scaricabile qui.

 

È opportuno riflettere su tre requisiti soggettivi (diversi tra loro) per poter accedere a interventi del welfare pubblico:

  • la cittadinanza ossia l’appartenenza come status giuridico della persona a uno Stato nazionale.
  • Il permesso di soggiorno, ossia il titolo per stranieri non dell’UE che li autorizza alla presenza in Italia
  • la residenza come presenza sul territorio, di norma coincidente con l’iscrizione nei registri dell’anagrafe.

Sono infatti operanti nel welfare pubblico criteri diversi che limitano l’accesso in base al tipo di permesso di soggiorno e/o alla durata della residenza. Ad esempio:

  1. per ottenere l’assegno sociale INPS (il “reddito minimo” contro la povertà per gli anziani) occorre avere maturato un “soggiorno legale e continuativo” in Italia di almeno 10 anni
  2. per ottenere un alloggio ERP (le “case popolari”), i criteri sono definiti dalle Regioni con scelte molto differenti, che in genere prevedono un numero minimo di anni di residenza nella regione.
  3. per richiedere l’Assegno di Inclusione tutti i componenti del nucleo devono essere residenti in Italia (senza durata minima), mentre solo il richiedente deve essere residente da almeno 5 anni e (se è extra UE) avere un permesso di soggiorno di lungo periodo.

Per contro ci sono prestazioni del welfare pubblico ad accesso molto più universalistico ed esteso, ad esempio l’inserimento nella scuola dell’obbligo è previsto anche per i minori stranieri che sono irregolarmente presenti in Italia.

Gli interventi sopra citati non sono inclusi tra i LEPS (anche se l’assegno sociale è indubbiamente un diritto esigibile, e nell’Assegno di Inclusione sono LEP solo i servizi per la definizione dei percorsi personalizzati e i sostegni in essi previsti), e non riguardano funzioni dei servizi sociali territoriali alle quali i più recenti LEPS emanati si riferiscono.

Ma anche nel definire la fruibilità degli interventi dei servizi sociali locali sono operanti diversi criteri rispetto alla residenza e ai permessi di soggiorno dei richiedenti. Merita dunque rifletterci, perché criteri di accesso diversi (per intervento e/o per territorio) incidono sulla esigibilità; e il tema qui discusso non viene trattato nei LEPS sinora definiti.

A) Sulla cittadinanza normativa europea e sentenze della Corte Costituzionale1 hanno consolidato il principio secondo il quale non è legittimo introdurre limitazioni nell’accesso a prestazioni sociali solo in ragione della cittadinanza non italiana. E dunque occorre prevedere per gli stranieri (purché in possesso di un legittimo titolo di soggiorno) gli stessi criteri di accesso previsti per gli italiani. Il singolo Stato ha diritto a definire specifiche tipologie di permesso di soggiorno per accedere a diverse prestazioni ma non ha invece diritto ad escludere a priori da prestazioni del welfare pubblico soltanto in base alla nazionalità. Dunque uno slogan che tempo fa qualcuno usava nel dibattito politico (e che talvolta riemerge) per prevedere di erogare un intervento pubblico “prima agli italiani” definisce un criterio non solo incostituzionale, ma anche sanzionabile dalla Corte di Giustizia Europea.

B) Sulle selezioni in base al permesso di soggiorno e/O residenza anagrafica propongo cinque criticità di accessi ad interventi contro la povertà o l’emarginazione che siano limitati a chi ha permesso di soggiorno di lungo periodo e/o residenza anagrafica “qualificata” (ossia una residenza da almeno un certo periodo):

Diritti di serie A e diritti di serie B?  

Se si vuole puntare a misure che siano “Livelli essenziali” contro la povertà o nel sociale, perché devono essere diversi da altri livelli essenziali nell’accesso? Può infatti fruire del SSN chi ha qualunque permesso di soggiorno e residenza anagrafica, e possono accedere alla scuola dell’obbligo i minori stranieri irregolarmente in Italia (e dunque senza permesso di soggiorno né residenza anagrafica). Dunque vogliamo che nel welfare pubblico si possa essere “curati” e “istruiti” senza questi vincoli, ma invece che siano limitativi per poter alimentarsi, vestirsi , pagare l’affitto (cioè non essere poveri assoluti)? Ossia è corretto che ricevere interventi per non essere poveri sia meno importante di riceverne per non essere malati o analfabeti?

Profili di incostituzionalità

La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittime diverse leggi regionali:

  • Utilizzando in molte sentenze2 la stessa motivazione: non è legittimo prevedere che vi siano differenze di accessibilità a prestazioni assistenziali tra persone (italiane o straniere che siano) che hanno una residenza nel territorio di diversa durata, perché questa distinzione tra beneficiari nulla ha a che fare con la condizione di bisogno. Non si può presumere che chi risiede da meno tempo versi in stato di bisogno diverso da chi ha residenza da più mesi, e perciò questa differenza è in contrasto con i principi costituzionali di ragionevolezza (ossia ci vuole una ragione di merito non arbitraria per introdurre differenze) e di uguaglianza. E la Corte Costituzionale scrive che il contrasto alla povertà riguarda “…un bisogno primario dell’individuo che non tollera un distinguo correlato al radicamento territoriale”
  • La Corte Costituzionale ha cassato leggi regionali che prevedevano molti anni di residenza entro una regione per poter richiedere un alloggio di ERP (una “casa popolare”), motivando che una eventuale durata minima di residenza non deve essere sproporzionata. La Corte non proibisce una durata minima di residenza purché non sia eccessiva e sproporzionata.

Tuttavia la Corte Costituzionale ha poi emanato due sentenze di diverso orientamento, prevedendo che pretendere per gli stranieri extra UE un permesso di soggiorno solo di lungo periodo:

  • sia incostituzionale per due interventi a famiglie in povertà: il cd “bonus bebè” e l’assegno di maternità attivato dai Comuni
  • non sia invece incostituzionale per il reddito/pensione di cittadinanza3

Dunque il dibattito anche giuridico resta aperto e la giurisprudenza è attestata su questi principi: non è legittimo introdurre diversi diritti di accesso a tutele pubbliche soltanto in base alla cittadinanza, ma i singoli Stati dell’UE possono introdurre criteri che limitano l’accesso in base al tipo di permesso di soggiorno, oppure in base alla durata pregressa di residenza, purché queste limitazioni non siano irragionevoli, cioè siano proporzionate alla natura della tutela da garantire. È chiaro che tutto si fonda su come è costruita questa ragionevolezza, e se la si condivide.

Esclusioni distorte 

In prestazioni che richiedano un periodo pregresso di residenza in Italia sono escluse, sino a che maturano questa durata:

  1. le persone che hanno rinnovato l’iscrizione anagrafica dopo essere state cancellate in quanto irreperibili ai censimenti della popolazione, e che non sono riuscite a presentarsi all’anagrafe nel tempo utile a evitare la cancellazione
  2. i senza fissa senza dimora che ottengono una residenza anagrafica presso una residenza fittizia del Comune solo dopo molto tempo di presenza in quel Comune.
  3. oltre che gli stranieri immigrati, anche gli italiani che sono rientrati da loro emigrazione, che non hanno maturato il periodo di residenza richiesto.

Ricordo il “compromesso” del Reddito di Cittadinanza prima e dell’Assegno di Inclusione poi: solo il richiedente deve avere la residenza qualificata. Ma nuclei composti solo dalle persone qui sopra elencate non possono richiedere questa prestazione

Che cosa è il “radicamento nel territorio”?

La previsione di una permanenza minima sullo stesso territorio per poter chiedere interventi poggia anche sull’idea che è opportuno assistere solo persone che abbiano maturato un “radicamento nel territorio”; idea che può avere due possibili motivazioni:

  1. che un progetto di inserimento sociale ha più speranza di successo se chi ne fruisce ha già legami col territorio;
  2. che la spesa pubblica debba selezionare i beneficiari in base a una sorta di “merito sociale” (ossia essere membri della comunità non da poco tempo) e sulle ricadute in termini di investimento sociale (spendere risorse pubbliche solo verso persone che resteranno nella comunità, arricchendone così il capitale sociale).

Ma si tratta di due presupposti fallaci, dei quali è facile verificare la distanza dalla realtà:

  • nulla dimostra che una più lunga stanzialità nel territorio sia miglior garanzia di successo nei percorsi di uscita dalla povertà. Infinitamente più di questa variabile hanno peso le caratteristiche personali e familiari (istruzione, occupabilità, risorse interne al nucleo).
  • è poco reale immaginare che le famiglie in difficoltà si radichino in un territorio solo perché ricevono interventi sociali: fruirne non frena le famiglie a spostarsi se trovano altrove migliori opportunità di lavoro, o di abitazione, o di vicinanza a parenti che possono aiutare.
  • l’idea di derivare un diritto soggettivo ad essere assistiti dal fatto di “meritarlo perché si è radicati nel territorio” rischia fantasie sociologiche o l’assurdo: essere da un certo numero di mesi in un territorio di per sé non significa in alcun modo far parte attiva di quella comunità, né produce alcun radicamento concreto.

Ma che cosa è il “radicamento nel territorio”? È utile rifletterci perché non solo opinioni correnti ma anche sentenze della Corte Costituzionale si appoggiano a questo criterio. Pensiamo a queste situazioni:

  • 40enne italiano residente dalla nascita nel Comune, che vive da sempre di spaccio e piccoli furti, non paga imposte locali perché esente, non partecipa alla vita della comunità, non va a votare.
  • Marito e moglie marocchini con permesso di soggiorno per lavoro annuale rinnovato che risiedono anagraficamente da 23 mesi. Lavorano a tempo determinato, frequentano la moschea e una associazione di migranti.
  • 65enne italiano rientrato da 10 mesi dopo 20 anni di emigrazione in Argentina. Partecipa alla vita della parrocchia e si è candidato per essere eletto consigliere comunale.
  • Residente italiano da 20 anni in un comune, ma con domicilio in Svizzera dove lavora continuativamente. Vive in Italia solo un week end ogni 3. Non va a votare né ha rapporti con la comunità di residenza.

Se opera un criterio di accesso che prevede una “residenza qualificata” (ad esempio di almeno 2 anni nel territorio): sono ammessi alla prestazione i nuclei 1 e 4, non sono invece ammessi i nuclei 2 e 3. Non è una conseguenza almeno un po’ bizzarra? Chi di questi è “più radicato” nel territorio, e partecipa di più alla comunità locale?

Dunque se vogliamo poggiare selezioni sul “radicamento nel territorio” il rischio è di infilarsi nel dover misurare “se e quando la stanzialità fa diventare meritevoli”.

Sono utili queste selezioni?

Far accedere alle prestazioni solo chi ha un certo numero di mesi/anni di residenza, e/o chi ha un permesso di soggiorno solo di lungo periodo, rischiano di essere criteri inutili, per due ragioni:

  1. Si limitano ad escludere dalle prestazioni una platea di utenti fragili, ma non eliminano la loro povertà o gli altri problemi sociali, col rischio di accendere tensioni e/o conflitti verso le istituzioni che sono più vicine ed “esposte”, come i Comuni.
  2. Poiché le richieste di prestazioni possono proseguire in anni successivi, le limitazioni producono effetti di contenimento dell’utenza solo nei primi anni. Man mano che le persone maturano gli anni di residenza necessari diventano eleggibili alla prestazione, e dunque in quel momento cade l’obiettivo di escluderle. Perciò sono selezioni che servono molto poco per limitare la spesa (se è questo che si desidera ottenere) se non nel breve periodo.

Ovviamente chi legge può invece ritenere giusti ed efficaci i criteri che qui sono esposti come criticità. Ma in ogni caso che è bene conoscerli, e valutarli facendo attenzione al rischio di non accorgersi delle loro selezioni distorsive. Considerando che si possono applicare non solo ai sostegni del reddito ma anche ad altri interventi, sarebbe opportuno che anche i LEPS non eludessero il tema, almeno per evitare che la fruibilità di ciò che prevedono sia poi deformata dall’uso di dispositivi locali o regionali sui meccanismi qui discussi.4.

  1. Ad esempio le sentenze n°  432 del 2005, n° 306 del 2008, n° 40 del 2013, che  fanno riferimento anche all’art. 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) che vieta differenze dei diritti di tutela negli Stati membri fondate solo sulla nazionalità. Vige sul punto anche l’art. 11 della direttiva europea 2003/109.
  2. Ad esempio la 44 del 2020, e la 9 del 2021
  3. Sentenza n°19 del 2022
  4. Sui temi discussi in questo articolo si trovano approfondimenti ed attenzioni in www.asgi.it, sito dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, ed in www.avvocatodistrada.it, sito dell’organizzazione di volontariato “Avvocato di strada” dedicata al supporto giuridico ai cittadini privi di dimora, ed ai temi dei loro diritti.Da entrambi è possibile ricevere periodiche newsletter gratuite