Aiutiamoli a casa loro?


Maurizio Ambrosini | 3 Novembre 2017

È uscito puntualmente a fine ottobre il Dossier Immigrazione curato da Idos, sotto la guida di Franco Pittau: uno strumento utilissimo per conoscere i numeri e le dinamiche dell’immigrazione nel nostro paese. Spiega alcuni dati importanti: il primo è che l’immigrazione in Italia nel complesso è sostanzialmente stazionaria, anzi in molti territori è diminuita. In secondo luogo che gli immigrati rappresentano più del 10% dell’occupazione complessiva. In terzo luogo, che non vengono dai paesi più poveri del mondo. E’ inevitabile collegare questi dati con il dibattito politico in corso, in modo particolare con il discusso slogan “aiutiamoli a casa loro”.   Se un posto di lavoro su dieci è occupato da un immigrato, allora il presunto buon senso dello slogan dimentica un aspetto di capitale importanza: il bisogno che le società sviluppate, in modo particolare la nostra, hanno del lavoro degli immigrati. Basti pensare alle centinaia di migliaia di anziani assistiti a domicilio da altrettante assistenti familiari, dette comunemente badanti. Se i paesi che attualmente esportano queste lavoratrici verso l’Italia dovessero conoscere uno sviluppo tale da scongiurare le partenze, non cesserebbero i nostri fabbisogni. In mancanza di alternative di cui per ora non si vedono neppure i presupposti andremmo semplicemente a cercare lavoratrici disponibili in altri paesi, più arretrati di quelli che attualmente ce le forniscono. In secondo luogo, i dati mettono in discussione l’idea che l’emigrazione sia provocata dalla povertà. Se gli immigrati non arrivano dai paesi più poveri, e non sono i più poveri dei loro paesi, dovremmo paradossalmente aiutare i paesi in posizione intermedia sulla base degli indici di sviluppo, anziché quelli più bisognosi, le classi medie invece di quelle più svantaggiate, le persone mediamente istruite anziché quelle meno alfabetizzate. Bisogna poi considerare un aspetto più tecnico: gli studi sull’argomento mostrano che in una prima fase lo sviluppo fa aumentare la propensione a emigrare, perché cresce il numero delle persone che dispongono delle risorse per partire. Le aspirazioni a un maggior benessere aumentano prima e più rapidamente delle opportunità locali di realizzarle, anche perché lo sviluppo solitamente inasprisce le disuguaglianze, soprattutto agli inizi. Solo in un secondo tempo le migrazioni rallentano, finché a un certo punto il fenomeno s’inverte: il raggiunto benessere fa sì che regioni e paesi che in precedenza erano luoghi di origine di emigranti diventino luoghi di approdo di immigrati, provenienti da altri luoghi che a quel punto risultano meno sviluppati. Così è avvenuto in Italia, ma dobbiamo ricordare che abbiamo impiegato un secolo a invertire il segno dei movimenti migratori, dalla prevalenza di quelli in uscita al primato di quelli in entrata. Il fatto che negli ultimi anni sia tornata a crescere l’emigrazione dimostra la complessità dei movimenti contemporanei di popolazione: oggi molti paesi intermedi, dal Messico alla Russia alla regione nord-africana, sono contemporaneamente luoghi di partenza, di arrivo e di transito di flussi di migranti.   L’emigrazione non è facile da contrastare neppure con generose politiche di sostegno allo sviluppo e di cooperazione internazionale, anche perché un altro fenomeno incentiva le partenze e la permanenza all’estero delle persone: le rimesse degli emigranti, ossia il denaro che inviano ai familiari in patria. Si tratta di 586 miliardi di dollari nel 2015, 616 nel 2016, secondo le stime della Banca Mondiale, basate sui soli canali ufficiali di trasferimento di valuta. Potremmo dire: gli immigrati fanno già moltissimo per aiutare casa loro, al punto che qui rimangono con pochi risparmi in tasca per tamponare eventuali emergenze. A livello macro, vari paesi hanno le rimesse come prima voce attiva negli scambi con l’estero. 26 paesi del mondo hanno un’incidenza delle rimesse sul PIL che supera il 10%. I primi in classifica sono Tagikistan (36,6%), Kirghizistan (30,3%), Nepal (29,2%) (Caritas e Migrantes, 2016). A livello micro, le rimesse arrivano direttamente nelle tasche delle famiglie, saltando l’intermediazione di apparati pubblici e imprese private.  Sono soldi che consentono di migliorare istruzione, alimentazione, abitazione dei componenti delle famiglie degli emigranti, in modo particolare dei figli, malgrado gli effetti negativi che pure non mancano. I critici osservano che le rimesse alimentano uno sviluppo drogato e dipendente dall’esterno, senza promuovere un’infrastruttura produttiva locale, tranne qualche attività direttamente connessa con l’industria delle migrazioni: money transfer, vendita di cellulari e schede telefoniche, internet points, agenzie di viaggi, produzione e vendita di prodotti locali richiesti dagli emigranti, quello che è stato definito “nostalgic trade”.  Poiché gli emigranti tipicamente investono in terreni e case come simbolo del loro successo, le rimesse fanno lavorare l’industria edilizia.  Fanno però salire i prezzi e svantaggiano chi non ha parenti all’estero, alimentando così nuove partenze. Difficile negare tuttavia che le rimesse allevino i disagi e migliorino le condizioni di vita delle famiglie che le ricevono. Più volte in occasione di disastri naturali, come il terremoto in Nepal, gli emigranti hanno incrementato l’invio di rimesse per soccorrere famiglie e comunità di provenienza. Non stupisce pertanto che da anni si discuta della rimozione delle barriere ai trasferimenti di denaro verso i paesi in via di sviluppo, e che tra gli Obiettivi strategici dello sviluppo sostenibile rientri l’abbattimento dei costi di transazione delle rimesse.   Il sostegno dei paesi avanzati allo sviluppo di quelli più fragili dovrebbe realizzare rapidamente delle alternative per competere con la dinamica propulsiva del nesso emigrazione-rimesse-nuova emigrazione, ma ciò nel breve periodo è praticamente impossibile. Il dibattito politico italiano e anche europeo ha semplicemente saltato a pié pari una riflessione sulle rimesse, sul loro significato e sulle loro implicazioni per lo sviluppo: identificando immigrati e rifugiati, riducendo i motivi della partenza alla povertà, immaginando flussi enormi e incontrollabili, il discorso corrente ha adottato una visione patologica delle migrazioni, individuando il sostegno allo  sviluppo come possibile terapia. In tutto questo, l’importanza delle rimesse è stata completamente dimenticata. Ciò non significa che la cooperazione allo sviluppo sia inutile, ma serve e dovrebbe servire ad altro. Le politiche di sviluppo dei paesi svantaggiati sono giuste e auspicabili, la cooperazione internazionale è un’attività encomiabile, rimedio a tante emergenze e produttrice di legami, scambi culturali e posti di lavoro su entrambi i versanti del rapporto tra paesi donatori e paesi beneficiari, ma subordinare tutto questo al controllo delle migrazioni è una strategia di dubbia efficacia, certamente improduttiva nel breve periodo, oltre che eticamente discutibile. Di fatto, gli aiuti in cambio del contrasto delle partenze significano finanziare dei governi affinché usino le maniere forti per impedire l’emigrazione dei loro giovani cittadini alla ricerca di un futuro migliore, o più spesso finanziare i governi dei paesi di transito affinché assumano il ruolo di gendarmi di confine per nostro conto.   Una prospettiva più interessante è semmai quella della promozione del co-sviluppo, ossia la valorizzazione delle organizzazioni dei migranti come soggetti attivi dei progetti di sviluppo destinati alle loro comunità di provenienza. Questa linea di pensiero prende quindi le distanze da una visione patologica delle migrazioni, proponendo invece un approccio in cui le associazioni dei migranti sono protagoniste dello sviluppo, costruendo ponti tra le due sponde del movimento migratorio e facendo circolare esperienze e saperi in entrambe le direzioni. La collaborazione tra donatori, ONG del Nord del mondo, associazioni dei migranti e comunità locali del Sud del mondo ha trovato spazio da alcuni anni nelle linee di intervento delle organizzazioni internazionali e nelle politiche di sostegno allo sviluppo. Anziché contrapporre migrazioni e sviluppo, il dibattito e le esperienze internazionali sono andate più avanti, valorizzando le sinergie tra i due poli di una relazione necessaria e reciproca.   E’ possibile scaricare qui una scheda riassuntiva del rapporto

Il rapporto completo si può acquistare qui

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