Amministrazione condivisa e procedimento amministrativo, un cantiere da aprire
Gianfranco Marocchi | 29 Gennaio 2025
Un auspicio per il 2025: che i tanti amici giuristi che in questi anni hanno contribuito in modo così significativo all’affermazione dell’art. 55 del Codice del Terzo settore – e degli istituti della coprogrammazione e della coprogettazione in esso contenuti – possano intraprendere una riflessione circa il radicamento procedimentale di tali istituti nella legge 241/1990.
La scelta del legislatore di ancorare l’art. 55 del Codice del Terzo settore alla legge 241/1990 sul procedimento amministrativo ha rappresentato una scelta ingegnosa e feconda. Ha collocato una delle più ardite innovazioni del nostro diritto – “È in espressa attuazione, in particolare, del principio di cui all’ultimo comma dell’art. 118 Cost., che l’art. 55 CTS realizza per la prima volta in termini generali una vera e propria procedimentalizzazione dell’azione sussidiaria”, afferma la Sentenza 131/2000 della Corte costituzionale – sulle basi di un riferimento procedimentale consolidato, contribuendo così a rafforzarne l’affermazione in un panorama nel quale, prevedibilmente, tale innovazione avrebbe dovuto affrontare resistenze significative (come di fatto è stato).
La scelta alternativa, quella di disegnare un riferimento amministrativo procedimentale autonomo per gli istituti della coprogrammazione e della coprogettazione – in una prima fase talvolta auspicato da chi riteneva l’art. 55 di difficile applicazione per una sua supposta “reticenza” rispetto al procedimento – avrebbe in realtà indebolito l’impianto dell’art. 55, di fronte agli attacchi di chi mal tollerava la creazione di un canale di relazione tra Enti pubblici e Terzo settore distinto e autonomo rispetto a quello governato dal Codice dei Contratti pubblici. Ora, invece, il fatto che da una parte vi siano i rapporti sinallagmatici che fanno riferimento al Codice dei Contratti pubblici, e dall’altra rapporti ispirati ad una logica sussidiaria e collaborativa che fanno riferimento al Codice del Terzo settore e che tali due filoni costituiscano ambiti tra loro distinti è un aspetto comunemente accettato; semmai la discussione può investire l’esatto confine tra i due universi e la loro eventuale relazione. E, rispetto alla lamentata “reticenza” dell’art. 55, le linee guida approvate con DM 72 del 2001 sono intervenute a tracciare buona parte degli elementi utili a realizzare una coprogrammazione e una coprogettazione entro un procedimento amministrativo coerente con il dettato della legge 241/1990.
Dunque, non vi è che da lodare la lungimiranza di avere ancorato l’art. 55 del Codice del Terzo settore nel procedimento amministrativo della 241/1990. Ma, al tempo stesso, oggi emerge come taluni aspetti della 241/1990 – nata non solo prima della riforma Costituzionale del 2001, ma anche prima delle grandi leggi del 1991, la 381 e la 266 – scontino un’impostazione in cui la logica sussidiaria non era ancora solidamente radicata nel nostro ordinamento.
A tale proposito, in questa riflessione si intendono considerare due elementi centrali della configurazione dell’art. 55 nel procedimento amministrativo della 241/1990: la qualificazione dell’accordo tra partner pubblici e di Terzo settore ai sensi dell’art. 11 della legge 241/1990 e la qualificazione del flusso di risorse tra pubblica amministrazione e Terzo settore come contributo ai sensi dell’art. 12 della legge 241/1990. A ben vedere, entrambe queste scelte – probabilmente le migliori possibili nell’attuale quadro normativo – manifestano una certa incompiutezza e richiedono la capacità di immaginare uno scenario normativo diverso e oggi inedito.
L’art. 11 è infatti concepito come composizione (pur consensuale, giacché di accordo si tratta) tra soggetti potenzialmente controinteressati e potenzialmente mossi – gli attori non pubblici – dal perseguimento di interessi privati, ancorché armonizzabili con l’interesse pubblico. Molto diverso è ad esempio il ritmo dell’art. 15 della 241/1990, secondo il quale “le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune”. In altre parole, la 241/1990 possiede uno strumento pensato per essere fruibile nella relazione tra pubbliche amministrazioni e la generalità dei soggetti privati (anche) mossi dal self-interest e uno strumento pensato per la relazione tra pubbliche amministrazioni; non poteva concepire, al tempo, il rapportarsi tra soggetti, pubblici e non, mossi da un convergente interesse generale. Come potrebbe configurarsi, se lo dovessimo pensare oggi, un procedimento amministrativo che coinvolga il Terzo settore, in un ipotetico nuovo articolo della 241/1990? Come impatterebbe sulle procedure oggi esistenti?
Ma è forse l’art. 12, non a caso rubricato “Provvedimenti attributivi di vantaggi economici”, che, nella pratica, mostra maggiormente i segni dell’origine non sussidiaria della 241/1990. Il “vantaggio economico” in generale riguarda azioni di sostegno pubblico alle finalità perseguite dagli enti privati (indipendentemente dalla finalità lucrativa o meno degli stessi); che è un caso diverso dallo svolgimento di interventi conseguente ad un procedimento collaborativo che ha coinvolto congiuntamente soggetti pubblici e di Terzo settore uniti dall’obiettivo di realizzare attività di interesse generale. In sostanza, l’articolo 12 della 241/1990 concepisce il flusso di risorse tra pubblica amministrazione e soggetto terzo come appunto “vantaggio economico”, cogliendo solo in modo molto parziale l’effettiva natura della relazione che si origina da una coprogettazione ex art. 55. Ma, d’altra parte, il nostro ordinamento in alternativa oggi conoscerebbe solo la logica tipica degli affidamenti, senza dubbio ancora più lontana dalla sostanza della relazione collaborativa. Schematizzando:
- la logica sinallagmatica descrive una situazione in cui la pubblica amministrazione decide cosa fare e di cosa ha bisogno per farlo e, a tal fine, chiede ad un terzo qualcosa, compensando ciò con delle risorse economiche;
- la logica del contributo descrive una situazione in cui l’autonoma azione di un soggetto privato (generalmente, anche se non necessariamente, auto-interessato) può comportare delle esternalità positive che si risolvono in vantaggi pubblici. Ad esempio, la scelta di un imprenditore di investire in ricerca e sviluppo o in nuovi macchinari – pensata per conseguire il proprio interesse imprenditoriale – può portare esternalità positive sulla comunità di riferimento, come la nuova occupazione; pertanto, la mano pubblica può ritenere ragionevole sostenere questa scelta e orientare l’imprenditore ad utilizzare le risorse per l’investimento che crea sviluppo. Ovviamente, l’attribuzione del contributo dovrà essere fatta in forme trasparenti e che non determinino un iniquo vantaggio per l’imprenditore in questione (ad esempio determinando arbitrariamente un vantaggio rispetto ad altri imprenditori);
- la logica dell’amministrazione condivisa si basa, diversamente dalle due precedenti, sul fatto che il “cosa fare” sia deciso insieme da soggetti, pubblici e di Terzo settore, che concordemente perseguono l’interesse generale, orientando di conseguenza le proprie risorse (economiche, strumentali, di competenza, di relazione, ecc.) a tale finalità condivisa.
Laddove ci si trovi nella terza situazione, se per realizzare quanto insieme convenuto si rende utile un flusso di risorse economiche della pubblica amministrazione ad un soggetto di Terzo settore, sarebbe fuori luogo configurare ciò come un “vantaggio privato” per tale ente. Questo, infatti, non sta operando, come avveniva nel caso 2), nell’ambito di proprie strategie di autoaffermazione ancorché contraddistinte da esternalità positive, ma a partire da un intento convenuto e condiviso con la pubblica amministrazione e finalizzato al perseguimento dell’interesse generale.
Molte delle discussioni che in questi mesi hanno caratterizzato (e attardato) l’amministrazione condivisa – dai dubbi talvolta avanzati (e fortunatamente rientrati) sulla pertinenza del De Minimis rispetto ai contributi conseguenti a coprogettazioni, alle previsioni di cofinanziamento, all’esclusione di talune voci dalla rendicontazione – trovano, a ben vedere, origine in una concezione errata in cui il flusso di risorse dalla pubblica amministrazione è concepito come “attribuzione di un vantaggio” anziché come un’allocazione di risorse funzionale a perseguire un obiettivo comune.
In sintesi, il riferimento alla 241/1990 ha costituito una soluzione ottimale per rendere agibile il percorso amministrativo dell’art. 55 e se comunque rappresenta, nell’attuale quadro normativo, la soluzione migliore per assicurare all’amministrazione condivisa la solidità del procedimento e al tempo stesso evitare che essa venga irrimediabilmente attratta entro le logiche competitive del Codice dei contratti pubblici, come pure talvolta qualcuno insiste a sostenere. Questo non ci impedisce di notare che oggi, proprio grazie allo sviluppo dell’amministrazione condivisa reso possibile dal riferimento procedimentale alla 241/1990, si ponga in modo sempre più nitido all’ordine del giorno la necessità di avviare una riflessione su come adeguare la 241/1990 ad un contesto normativo evoluto, grazie all’art. 118 della Costituzione e all’art. 55 del Codice del Terzo settore, in senso collaborativo e sussidiario.