ANAC e Terzo settore. Il buon senso affiora (ma non emerge)


Gianfranco Marocchi | 7 Giugno 2019

Fino al 13 giugno prossimo è aperta la consultazione pubblica relativa al documento predisposto dall’ANAC “Linee guida recanti «Indicazioni in materia di affidamenti di servizi sociali»”, presumibilmente destinata, nella mente degli estensori, ad aggiornare, dopo i cambiamenti normativi intercorsi (Codice degli appalti e Codice del Terzo settore) la determinazione 32/2016 “Linee guida per l’affidamento di servizi a enti del terzo settore e alle cooperative sociali”.

 

Prima dell’esame di merito, può essere utile soffermarsi sulla mutata titolazione del documento, che fa riferimento a contesti culturali diversi: la determinazione del 2016 ha come punto di partenza la specificità di un rapporto, quello tra amministrazioni pubbliche e terzo settore, rispetto a cui ANAC si propone di individuare eventuali limiti connessi alla normativa in tema di appalti; il titolo del 2019 sembra riferirsi alla volontà di lavorare sull’ambito dei servizi sociali da chiunque prestati, salvo poi ricavare spazi specifici per il terzo settore. Culturalmente, non è la stessa cosa ed è singolare che ciò avvenga dopo che delle importanti normative – la Riforma del terzo settore (106/2016) e il conseguente Codice (d.lgs. 117/2017) – hanno inteso marcare proprio la specificità di organizzazioni omologhe a quelle pubbliche per finalità e per ruolo affidato nella risposta ai bisogni sociali. Comunque, dando credito al fatto che la veste e la forma possano non essere così determinanti, procediamo all’esame di merito.

La coprogettazione

E qui va prima di tutto precisato il contesto in cui la bozza di documento ANAC è maturata. Nell’estate scorsa il Consiglio di Stato, rispondendo ad una richiesta di ANAC, emise un parere teso a limitare fortemente le possibilità degli enti pubblici di ricorrere alla coprogettazione dei servizi (pur, si intende, realizzata sulla base dei principi di trasparenza ed evidenza pubblica) sulla base della discutibile tesi che il “diritto eurounitario” richieda, qualora la relazione tra enti pubblici e Terzo settore implichi un flusso di risorse economiche a vantaggio del Terzo settore, di ricorrere alla procedure previste dal Codice degli appalti. Questa presa di posizione venne ampiamente criticata da me e da molti altri (1234), anche sulle pagine di Welforum (vedi questa pagina per una raccolta dei materiali sulla vicenda).

 

Ma, accanto al contesto giuridico, va precisato il contesto sostanziale in cui tutto ciò avviene: sono sempre di più gli enti locali che in questi due anni hanno acquisito la consapevolezza che il “sistema integrato di interventi e servizi” che istituzionalmente sono chiamati a costruire, non può essere tale se costituito da soggetti mutualmente ostili e in concorrenza tra loro, ma richiede soggetti pubblici e della società civile che condividano responsabilità e lavorino insieme intorno ad un tavolo per dare forma – condividendo risorse, intelligenze, capacità professionali e progettuali – alle risposte ai bisogni sociali. Tutto ciò, sin intende, nel pieno rispetto dell’evidenza pubblica (chi siede al tavolo è individuato attraverso un bando pubblico) e trasparenza in tutti i passaggi che portano i convenuti a disegnare l’assetto finale degli interventi da attuare e delle risorse che ciascuno conferisce o percepisce a tale scopo. Ciò, oltre ad essere coerente con la visione che la legge 328/2000 dà del nostro welfare, risponde al ruolo che la legge 106/2016 e il conseguente Codice (in particolare l’art. 55 del d.lgs 117/2017) affidano al Terzo settore, chiamato ad agire preminentemente non come fornitore di servizi, ma come soggetto partecipe e corresponsabile, al pari delle pubbliche amministrazioni, dell’interesse pubblico, in adempimento all’articolo 118, quarto comma, della nostra Costituzione.

 

Ora, quasi un anno dopo, Anac indice la consultazione sulle Linee guida che siamo chiamati oggi ad esaminare.

Il primo dato è che alla coprogettazione è dedicata un’ampia sezione del documento, segno che il tema è rilevante. Ma cosa dice, in proposito, Anac?

Il dato positivo è che sono individuati degli spazi (concettualmente stretti, praticamente larghi) in cui la coprogettazione è possibile. Sostanzialmente il compromesso individuato da Anac è quello di limitare fortemente l’ambito di applicabilità dell’art. 55 del Codice del Terzo settore, che concepisce coprogrammazione e coprogettazione come strumenti ordinari delle relazioni tra Enti pubblici e Terzo settore, ma di riaffermare la legittimità, entro un perimetro derogatorio, della coprogettazione come prevista dall’art. 7 del d.p.c.m. 30/3/2001 applicativo della legge 328/2000; quindi, nella sostanza, di renderla agibile per gli interventi di welfare (e non sull’insieme dei settori di interesse generale) che siano “sperimentali e innovativi”. Questa dizione, a prima vista piuttosto angusta, a ben vedere è applicabile ad una pluralità di circostanze in cui, pur essendo ad esempio i destinatari appartenenti a categorie ben note (es. anziani, persone con disabilità, minori, ecc.), mutano le circostanze sociali e le strategie di intervento, configurando quindi le nuove soluzioni adottate ad esito dei tavoli di coprogettazione come effettivamente sperimentali e innovative. Nei fatti, l’esperienza di dice che la coprogettazione, anche quando non affronta situazioni in partenza del tutto inedite e sconosciute, tende naturalmente a sviluppare soluzioni innovative grazie alla combinazione e contaminazione delle visioni che vengono condivise sui tavoli di lavoro e quindi il ricorso agli strumenti previsti dalla 328/2000 e atti conseguenti appaiono spesso del tutto fondati.

Quindi, si potrebbe dire, tutto bene, almeno per chi opera nel welfare: si incassa il via libera, pur entro un assetto derogatorio, accordato dall’Anac e si continuano le esperienze virtuose messe in atto in questi anni.

Ma se questa potrà essere la soluzione di fatto adottata qualora il documento Anac permanesse come tale, ciò non esime dallo sviluppare alcune considerazioni ulteriori sulla vicenda.

 

Proviamo a riannodare i fili delle argomentazioni del Consiglio di Stato riprese anche in talune parti da Anac; la domanda da cui partire riguarda i fondamenti della pretesa del Consiglio di Stato di poter “arbitrare” presunte incompatibilità tra codice degli appalti e codice del terzo settore. A che titolo Il Consiglio di Stato e di conseguenza Anac ritengono di poter limitare o far soccombere il secondo al primo, essendo entrambe normative dello Stato?

Il perno della risposta è l’invocazione, da parte del Consiglio di Stato, della prevalenza del “diritto eurounitario”: in sostanza, sarebbe l’Europa a chiederci di delimitare gli ambiti di applicazione degli strumenti collaborativi a vantaggio degli appalti, sino a spingersi, secondo la lettera del parere del Consiglio di Stato, a chiedere la “disapplicazione” di una normativa vigente.

È un punto delicatissimo: il fatto che il Consiglio di Stato non rimandi al Parlamento la questione, ma scelga di agire un potere così estremo come il non rispetto di una legge è un atto che, se non adeguatamente fondato, assume caratteristiche inquietanti.

Bene, su questo punto vale la pena di notare la tesi che sia l’Europa a chiedere tutto ciò, oltre ad essere stata autorevolmente confutata da più giuristi (12), è nelle Linee guida in consultazione riconosciuta come fragile dalla stessa Anac, che circa il potenziale conflitto tra normativa nazionale e imposizioni euro-unitarie opportunamente scrive a pagina 8:

 

“Occorre considerare che la normativa del terzo settore è anch’essa attuativa di principi comunitari, quale il principio solidaristico, che trova ingresso anche nella direttiva 24/2014, laddove è consentito agli Stati membri di fornire i servizi alla persona direttamente o di organizzare servizi sociali attraverso modalità che non comportino la conclusione di contratti pubblici, ad esempio tramite il semplice finanziamento di tali servizi. E tali considerazioni sono altresì confermate nell’ambito dell’articolato normativo (si veda ad esempio l’art. 1, comma 4, della predetta Direttiva). Infine, occorre considerare che, nella materia dei servizi sociali, la Costituzione, all’art. 117, quarto comma, riconosce la competenza legislativa esclusiva delle Regioni e all’articolo 118, ultimo comma, individua il Terzo settore come attuazione del principio di sussidiarietà.”

 

Nulla di più condivisibile! Allora, però, logica richiederebbe di trarre le opportune conseguenze.

Se manca una solidissima e inoppugnabile prova che una normativa di grande rilievo, frutto di lunghe discussioni parlamentari, come la Riforma del Terzo settore e il conseguente Codice, contrasti con previsioni comunitarie, bisogna riconoscerne la piena vigenza.

A questo punto si apre un ulteriore bivio, da gestire interamente entro a livello nazionale. Si ritiene che Codice del Terzo settore e Codice degli appalti abbiano elementi di contrasto oppure no?

Se la risposta è – ed è questo il parere di chi scrive – negativa, il problema non si pone. Il Codice degli appalti disciplina l’affidamento di servizi con corrispettivi a fronte di prestazioni; l’art. 55 del Codice del Terzo settore disciplina i casi di coproduzione collaborativa tra enti pubblici e Enti di Terzo settore che esercitano una funzione di interesse generale in adempimento al principio costituzionale di sussidiarietà. Cose diverse, che rispondono a logiche e riferimenti normativi differenti, sebbene ugualmente rispettosi, come ogni azione amministrativa, dei principi di trasparenza e parità di trattamento.

Se la risposta fosse, al contrario, positiva, si tratterebbe non certo di far prevalere (con che diritto?) per via tecnica, una normativa sull’altra, ma di identificare con chiarezza eventuali aree di contrasto, affidando all’organo legislativo il compito di dirimere la questione.

Da questo punto di vista, il documento Anac, pur contenendo elementi encomiabili, non mostra il coraggio di andare sino in fondo nelle logiche conseguenze che si potrebbero attendere; e in generale appare timido – con l’eccezione di alcuni passaggi come quello sopra citato – nel riconoscere una modalità di relazione tra Enti pubblici e Terzo settore di natura diversa da quella del rapporto commerciale basato su corrispettivi a fronte di prestazioni.

Dal punto di vista pratico, ne discende ancora un’impostazione “sospettosa” che invece di sostenere le preziose esperienze che in questi anni hanno generato un beneficio pubblico grazie alla collaborazione tra enti pubblici e enti di Terzo settore che hanno scelto di lavorare per l’interesse generale, tende a definire un percorso ad ostacoli (si veda ad esempio la trattazione sulla coprogrammazione), in cui l’ansia di evitare possibili distorsioni della concorrenza mortifica quanto di più vantaggioso per la comunità si possa concepire: un complesso di cittadini organizzati che collaborano con le istituzioni per realizzare l’interesse generale.

Il principio di rotazione

Ma vi è un altro punto rispetto al quale il documento Anac appare insoddisfacente e che riguarda una delle aberrazioni del Codice degli appalti, cioè il principio di rotazione.

Il pensiero sottostante al documento Anac sembra essere: ruotino le imprese, tanto i lavoratori rimangono gli stessi per effetto delle clausole di riassunzione e la continuità del rapporto con gli utenti è tutelata.

Questa posizione ha purtroppo rischiose affinità elettive con una cultura (criminogena) non estranea a talune amministrazioni pubbliche e che vede complici settori degenerati dell’imprenditorialità sociale e non. Si tratta di una cultura tollerante con l’intermediazione illegale di manodopera, che è un reato, oltre che con una concezione degradante del Terzo settore, privato di identità, singolarità e progettualità e concepito come agenzia che assume / riassume lavoratori che ruotano da un’impresa all’altra (e che bene farebbero a rivendicare l’assunzione dall’ente appaltante!).

Prevedere l’applicazione del principio di rotazione ai servizi di welfare, così come ad una fornitura di sedie o ad un servizio di tipografia, ha esattamente questo esito: personale che passa da un’impresa all’altra ogni fine contratto, senza sapere nemmeno bene chi sia il suo “datore di lavoro”, progettualità ridotte ai minimi termini, ricerca di minimi margini da parte di imprese spregiudicate attraverso il dumping contrattuale.

Va detto senza mediazioni e senza mezzi termini. Il principio di rotazione nei servizi di cura delle persone è inconcepibile, immotivato, dannoso e va abolito. Punto.

Se poi ciò debba essere compensato con la previsione di modalità (ragionevolmente) più allargate e complesse di scelta dell’impresa cui affidare il servizio anche nei casi di importi limitati, benissimo. Ma prevedere che una cooperativa in gestione non possa ripresentarsi alla successiva gara, se non gravando l’ente appaltante di un onere di motivazioni intimidatorio, è insensato.

Anche in questo caso si avverte che Anac ha compreso la presenza del problema, ma una visione “monotematica” che scaturisce da una mission legata al contrastare possibili corruttele, determina una visione distorta che per evitare la possibilità di un eventuale danno, ne crea uno certo e più grande.

In conclusione

In chiusura, queste riflessioni rimandano ad una questione più generale sul ruolo di Anac, probabilmente non estranea agli interrogativi che in questi mesi vengono sollevati in merito. La lotta alla corruzione è cosa doverosa e quanto mai urgente nel nostro Paese; e Anac, su questo aspetto, svolge ottimamente il suo compito. Semmai il problema sta nell’avere affidato ad una struttura tecnica che si occupa di un problema specifico – il contrasto alla corruzione, appunto – il compito di governare di fatto il complesso dei meccanismi di affidamento, cosa che richiederebbe di contemperare una pluralità di esigenze: il contrasto della corruzione, certamente; ma anche l’effettivo perseguimento dell’interesse generale, la fluidità e speditezza dell’azione amministrativa, l’equilibrio tra costi (anche quelli di gara) e prestazioni, la possibilità delle amministrazioni locali più vicine al territorio di garantire servizi coerenti con i bisogni della propria comunità, il rispetto delle peculiarità dei diversi interlocutori della pubblica amministrazione e delle specificità settoriali, ecc.

Ed è necessario essere consapevoli che perseguire uno di questi obiettivi perdendo d’occhio gli altri porta a risultati controproducenti. È positivo che un ente non paghi un servizio molto di più di un altro per inefficienza o per rapporti opachi con soggetti locali, ma è negativo che servizi molto localizzati siano affidati da soggetti terzi e distanti; è positivo cercare procedure che contrastino la corruzione, è negativo riversare per questo motivo determinare oneri insostenibili e procedure ingestibili per gli enti; è positivo evitare rendite di posizione, ma è negativo disconoscere le peculiarità dell’apporto del Terzo settore al benessere collettivo, ecc.

È evidente che, nel corretto adempimento del proprio mandato, una Autorità Anticorruzione tende naturalmente privilegiare la prima delle istanze richiamate, anche a costo di sacrificare le altre; ma toccherebbe ad altri – ad una politica capace di cogliere le potenzialità di cambiamento insite nella collaborazione con il Terzo settore e attenta a dialogare con il territorio facendo tesoro della preziosa esperienza degli amministratori locali – riprendere il mano il complesso di queste istanze e trovare il modo di contemperarle; insomma, senza abbassare la guardia nella meritoria lotta alla corruzione, né mortificare il ruolo di Anac, collocare sul giusto piano le diverse istanze avendo come faro l’interesse generale.