Il welfare italiano sta cambiando nei suoi principi e nei suoi orientamenti di fondo. Quello che emerge non è un progetto di cambiamento definito in un documento, in una proposta di legge, ma per lo più una successione di atti, di iniziative, di procedure complesse, che delineano e svelano con sostanziale chiarezza il mutamento in corso e la sua direzione di sviluppo.
Rispetto al welfare condizionale che applica severamente sanzioni e sospensioni dei benefici a beneficiari che non si comportano in modo responsabile (hanno comportamenti moralmente riprovevoli, non rispettano le prescrizioni, non si impegnano a cercare un lavoro, non frequentano con regolarità corsi di aggiornamento), questa configurazione emergente è un ulteriore passo in avanti verso un welfare che crea distinzioni, gruppi sociali ai quali è favorito l’accesso alle prestazioni e gruppi esclusi da ogni diritto a ricevere un beneficio.
La successione di atti, di iniziative a cui mi riferisco sono destinati ai gruppi meno sostenuti dall’opinione pubblica ed elettoralmente irrilevanti: gli sgomberi senza ricercare un’alternativa socialmente adeguata e come soluzione dell’emergenza abitativa e delle condizioni di abbandono, i 60 mila stranieri espulsi dal circuito dell’accoglienza, l’attacco e il discredito delle ONG che operano nel Mediterraneo, la circolare del Ministero dell’interno sul “censimento degli insediamenti di comunità rom, sinti e caminanti” che ha un carattere chiaramente discriminatorio nei confronti di queste comunità e non riguarda insediamenti di altre etnie, i requisiti di residenza, in particolare, richiesti ai senza dimora per l’accesso al reddito di cittadinanza.
Il segnale più rilevante di questo cambiamento sono forse le modifiche apportate dalla legge n. 26 del 2019 sul Reddito di cittadinanza al decreto n.4/2019. La recente circolare dell’INPS sul Reddito di cittadinanza (nr. 100, del 5 luglio), definisce in dettaglio il nuovo regime specifico che si intende adottare per i cittadini extra UE sulla base dell’art. 2 della stessa legge (commi 1-bis e 1-ter). Per i cittadini extra UE vige l’obbligo di presentare una certificazione dell’autorità estera competente ai fini dell’attestazione dei requisiti tradotta in lingua italiana e legalizzata dall’autorità consolare italiana. Questa procedura complessa e queste disposizioni non si applicano, in particolare, “nei confronti di cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea nei quali è oggettivamente impossibile acquisire le certificazioni, relative in particolare al patrimonio immobiliare posseduto in uno stato estero. Al riguardo, il comma 1-ter demanda ad un decreto attuativo del Ministro del Lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, l’individuazione dei Paesi i cui cittadini sono esonerati dall’obbligo di cui al comma 1-bis, per oggettiva impossibilità di produrre tale documentazione.”
In attesa dell’emanazione del decreto attuativo l’INPS ha sospeso l’istruttoria di tutte le domande presentate a decorrere dal mese di aprile 2019 da parte di richiedenti non comunitari. A dire il vero, alla data di emanazione della circolare dell’INPS, i tre mesi previsti dalla legge per la predisposizione del decreto (art. 2, comma 1-ter) sono già trascorsi e l’individuazione di un primo gruppo di paesi nei quali è oggettivamente impossibile acquisire le certificazioni non mi sembra molto complesso.
Adottando requisiti che difficilmente alcuni gruppi sociali potranno ottenere, procedure complesse, sgomberi, atti discriminatori, queste iniziative introducono organicamente in Italia un nuovo sistema di welfare che riduce sistematicamente l’accesso ai benefici delle minoranze etniche e altri gruppi sociali vulnerabili e intende rinforzare, allo stesso tempo, la protezione sociale per i cittadini italiani ritenuti meritevoli. Le attenzioni, le sensibilità sociali che per decenni hanno contraddistinto le politiche sociali diventano marginali, troppo lente rispetto al crescente dinamismo delle attuali società oppure non conformi a regole procedurali, comunque superate dai nuovi modi di intendere le relazioni fra le persone. Questi atti applicano un grave “accanimento selettivo” verso minoranze etniche e altri gruppi minoritari come le persone senza dimora. Allo stesso tempo, affermano una regola generale, una visione del mondo, delle relazioni fra le persone e delle relazioni di cura, si legittimano esclusioni sociali più o meno estese.
Il termine comunemente utilizzato per definire questa configurazione di welfare emergente è “welfare chauvinism”, un sistema di welfare che è sostenuta da partiti politici che hanno un peso elettorale rilevante in nazioni come la Francia, il Regno Unito, la Germania, l’Olanda, e che in nazioni come la Danimarca, la Finlandia e la Svezia si dimostrano comunque capaci di influenzare significative decisioni pubbliche in materia di welfare. In nazioni come la Polonia e l’Ungheria questi partiti hanno un ruolo maggioritario. Il “welfare chauvinism” limita l’accesso ai sussidi o riduce il livello di benefici per gli immigrati, introduce più selezioni e misure basate sulla condizionalità per le minoranze etniche e i gruppi ritenuti tradizionalmente non meritevoli, le persone i cui valori e comportamenti sono considerati la causa primaria della loro condizione. I tagli alla spesa pubblica devono essere limitati esclusivamente ai benefici e agli interventi destinati a questi gruppi minoritari.
Il termine “welfare chauvinism” non è stato utilizzato per indicare la stessa configurazione di welfare. In molti casi, questa configurazione è a favore delle “vittime delle politiche di riduzione della spesa” attuate dalla élite economiche e politiche che hanno governato per anni ai danni del popolo. In altri, questa configurazione di welfare cerca di rafforzare la protezione sociale dei “perdenti della globalizzazione”, aumentando i benefici, mettendo meno enfasi sulla responsabilità individuale dei cittadini meritevoli e riducendo la concorrenza con le minoranze etniche nell’accesso ai programmi abitativi, ai servizi sociali, ai servizi sanitari. Il welfare diventa una sfera di vita in cui molti governi e molti partiti politici cercano di ricostruire le distinzioni della maggioranza rispetto ad altri gruppi sociali, stabilendo e legittimando le differenze.
Le politiche sociali hanno avuto un ruolo importante nel promuovere integrazione sociale senza discriminazioni e distinzioni, nel contrastare l’esclusione sociale. Anzi, una volta operatori, associazioni, enti locali affermavano la necessità di “partire dagli ultimi”, partire dalle loro esigenze e dalla loro capacità di accesso ai servizi. In questi ultimi anni, la situazione è cambiata, le politiche sociali sono utilizzate frequentemente per distinguere, escludere, sanzionare comportamenti irregolari. Il welfare scivola così verso una prospettiva che incrementa ogni forma di controllo, una sorta di tolleranza zero della povertà non disciplinata, fino a cedere ad una “tentazione penale”, ad una criminalizzazione, cioè, di comportamenti semplicemente irregolari, di una diversità che diventa reato: l’accesso ai servizi pubblici non è un diritto, ma dipende dalla moralità, dal rispetto delle regole e dal senso di responsabilità del beneficiario sia esso una persona senza dimora o un immigrato. Per molte istituzioni esistono solo cause individuali del degrado e delle povertà estreme, solo comportamenti individuali irregolari che bisogna risolvere e affrontare con decisione e rapidamente, che determinano la perdita di ogni diritto di welfare e il disinteresse della collettività sul destino sociale delle persone che assumono questi comportamenti e vivono queste condizioni.
Aggiungerei che il confine tra i meritevoli e i così detti non meritevoli, magari perché accusati di truffa ai danno dello Stato, è alquanto labile. L’enfasi posta dai mezzi di informazione nei confronti dei beneficiari del reddito di cittadinanza che vengono sorpresi a lavorare in nero è, a tal proposito, emblematica. Questi, da soggetti meritevoli di tutela, nella forma del reddito garantito, diventano immediatamente i reietti della società e dello Stato, in quanto truffatori. Poco importa se l’ammontare del beneficio percepito sia sufficiente a soddisfare le esigenze primarie del nucleo, se i centri per l’impiego siano realmente in grado di offrire un lavoro alle persone collocabili, o se l’ISEE rappresenti adeguatamente la capacità economica del nucleo in quel momento. Inoltre, aver ammesso al beneficio economico senza consentire ai comuni di svolgere preventivamente la verifica dei requisiti anagrafici e di soggiorno, poterà molti nuclei alla decadenza dal reddito di cittadinanza e all’applicazione delle sanzioni, peraltro salate. Il problema più grave si verificherà nella dichiarazione della composizione del nucleo familiare, che dall’esperienza del ReI risulta errata in una percentuale significativa dei casi. Ciò è la comprova di come il libero accesso da parte dei cittadini alle prestazioni e ai servizi si riveli una trappola nei confronti dei beneficiari stessi. Il sistema di Welfare, espropriato della sua funzione di regolazione, in virtù di un accesso diretto -sinonimo di democrazia diretta-, produce più effetti negativi di quanti ne volesse evitare. Anche questo è l’effetto dei populismi che si traducono in uno Stato che anziché regolare, preferisce illudere per poi reprimere, tratto tipico dei sistemi totalitari.