Nuove tecnologie e polarizzazione dell’occupazione
Gli sviluppi tecnologici più recenti stanno rapidamente portando ad una quarta rivoluzione industriale (“Industria 4.0”), che comporta una crescente rilevanza dei settori ad alta tecnologia ed una crescente digitalizzazione dell’intera filiera produttiva e di tutti i settori, con lo sviluppo di tecnologie digitali e di strumenti per la trasformazione di enormi quantità di dati in informazioni utili alle decisioni strategiche ed operative.
Le nuove tecnologie digitali sono tra i principali fattori di competitività e comportano nuovi modi di produzione, erogazione, consumo, trasporto e commercializzazione dei prodotti e dei servizi ed anche la creazione di nuove occupazioni e la distruzione di altre. Se l’effetto complessivo delle nuove tecnologie sull’occupazione non è del tutto chiaro, l’innovazione tecnologica sta senz’altro rafforzando la tendenza già in atto alla polarizzazione dell’occupazione. Da un lato, infatti, si prevede che saranno penalizzate soprattutto le professioni facilmente sostituibili dalle macchine, che richiedono delle competenze di carattere routinario poco o mediamente qualificate, sia nelle funzioni amministrative che nella produzione. Dall’altro, invece, sono attesi incrementi occupazionali per le professioni altamente specializzate e non routinarie che richiedono competenze interpersonali e capacità di problem solving, nelle aree finanziarie, gestionali, di informatica ed ingegneria (World Economic Forum, 2016; OECD 2013 e 2016). Incrementi sono prevedibili anche nell’ambito dei servizi di cura e personali in considerazione del progressivo invecchiamento della popolazione: si tratta in questo caso di professioni non ad alta specializzazione ma basate su competenze relazionali difficilmente automatizzabili. Nel complesso alcuni settori quali ad esempio il manifatturiero, le costruzioni, l’agricoltura, i servizi di ristorazione, la grande distribuzione commerciale, le attività finanziare ed assicurative si caratterizzeranno più di altri per un più elevato tasso di automazione.
Stime basate sulla Survey of Adult Skills (PIAAC) mostrano che in media in 21 paesi OECD, il 9% dei lavori è ad alto rischio di essere automatizzato (il che implica che almeno il 70% delle mansioni previste da questi lavori è automatizzabile), con percentuali che variano dal 12% dei lavori in Austria, Germania e Spagna a circa il 6% o poco meno in Finlandia ed Estonia (Arntz et al., 2016). In Italia, la percentuale di posti lavori ad alto rischio di essere automatizzato si attesta al 10%. Le differenze tra paesi nella quota di lavoratori ad alto rischio di sostituzione dipendono in buona parte dalle differenti modalità con cui è organizzato il lavoro e dal diverso livello degli investimenti nelle nuove tecnologie.
Un altro studio recente (McKingsey & Company, 2017) esamina l’impatto di tecnologie quali la robotica, l’intelligenza artificiale (AI) e l’apprendimento automatico su occupazione e produttività in 54 nazioni a livello mondiale (compresa l’Italia), con una copertura di circa il 78% dei lavoratori del pianeta. Ebbene, secondo il suddetto studio, quasi la metà (il 49%) delle attività lavorative potranno essere automatizzate, quando queste tecnologie si saranno sviluppate e diffuse su scala globale, ma solo il 5% delle professioni potranno essere sostituite per intero dai robot. Per circa il 60% delle professioni potranno essere tecnicamente automatizzate in media solo il 30% delle mansioni lavorative, corrispondenti a 11,8 milioni di lavoratori in Italia.
La digitalizzazione sta garantendo un matching più efficace tra domanda e offerta di lavoro, prodotti ed attività, creando maggiori opportunità per i lavoratori di godere dei vantaggi della flessibilità e del lavoro freelance, oltre che di accrescere il proprio reddito con il lavoro supplementare in altri posti di lavoro. I service provider possono dividersi compiti altresì complessi in una serie di mini-compiti a basso costo e di routine assegnati ai lavoratori di tutto il mondo. Questa tendenza ha portato al fiorire della “gig”, “ondemand”, “sharing”, o, più in generale, della “platform economy” (AirBnB, Uber, etc.) (OECD, 2016). Tuttavia, la platform economy si basa in gran parte su forme di lavoro non standard e, in particolare, sul lavoro indipendente, che rispetto al lavoro standard, offre un minore accesso alla protezione sociale e alla formazione, progressioni di carriera più deboli, limitato accesso a mutui e ad altre forme di credito, e quindi, più in generale, una maggiore insicurezza lavorativa.
Sviluppo industriale e crescita delle diseguaglianze
I cambiamenti legati allo sviluppo industriale potranno quindi avere effetti anche sulle condizioni sociali, la povertà ed il sistema di welfare nel suo complesso. In particolare, la crescente diffusione del lavoro non standard e l’aumento della polarizzazione dell’occupazione potrebbero aumentare sia il rischio di povertà nel lavoro che la persistenza di bassi redditi da lavoro (OECD, 2015a e 2015b). Le disuguaglianze tra lavoratori nell’accesso al lavoro, nella qualità del lavoro svolto, nelle tutele garantite e nelle possibilità di carriera potrebbero esasperarsi ulteriormente, accrescendo la vulnerabilità dei lavoratori più poveri che già sono maggiormente penalizzati e svantaggiati, oltre che per il minore accesso alle nuove tecnologie, anche per via dei più bassi livelli di istruzione e delle più scarse competenze linguistiche.
I cambiamenti tecnologici in corso potranno avere un impatto negativo soprattutto su quei lavoratori che, proprio per i più bassi livelli di istruzione e le minori competenze possedute, meno degli altri sono in grado di transitare verso nuovi posti di lavoro. Se la polarizzazione nell’occupazione cresce ancor di più, alcuni lavoratori corrono il rischio di rimanere bloccati in lavori poco qualificati e con bassa retribuzione, con ridotte possibilità di passare a lavori che consentano di avere un reddito e una protezione sociale adeguati. La polarizzazione della struttura occupazionale tra posti di lavoro altamente qualificati e posti di lavoro poco qualificati e tra rapporti di lavoro a tempo indeterminato e varie forme di lavoro atipico può inoltre accrescere ulteriormente la polarizzazione della struttura salariale tra impieghi ad alta e a bassa retribuzione. In alcuni paesi, la riduzione della domanda di lavoratori con competenze di medio livello ha rafforzato la concorrenza per i lavori a basso reddito, mantenendo i salari nella parte bassa della distribuzione salariale. Nello stesso tempo, i salari nella parte superiore della distribuzione sono aumentati a causa della accresciuta domanda di lavoratori con competenze di alto livello.
L’impatto delle nuove tecnologie potrà essere diverso per età, sesso, livello di istruzione, razza e/o etnia (West, 2015). Alcuni individui sono infatti più esposti di altri ai rischi connessi allo sviluppo delle nuove tecnologie, a causa delle minori competenze tecniche o delle difficoltà nell’acquisizione delle nuove competenze. Particolarmente a rischio sono i giovani in quanto all’inizio delle loro carriere lavorative, che quasi certamente saranno influenzate dalla robotica, dall’intelligenza artificiale e dall’apprendimento automatico. Nei giovani, che stanno sempre più sostituendo gli anziani come gruppo più a rischio di povertà, la presenza di esperienze difficili nella transizione al lavoro (disoccupazione, inattività, occupazione saltuaria e/o precaria, ecc.) può avere infatti effetti negativi permanenti che riducono le prospettive future di occupazione e di reddito, attraverso il cosiddetto “effetto cicatrice” (scarring effect). A causa di questo meccanismo le prolungate difficoltà dei giovani nel mercato del lavoro possono radicarsi e trasformarsi in problemi strutturali più difficili da affrontare e risolvere. Questi giovani rischiano infatti di rimanere intrappolati nella inattività o nella disoccupazione/sottooccupazione, con una elevata probabilità di esclusione sociale. Diventa quindi fondamentale sostenere, tra l’altro, l’investimento in istruzione e formazione dei giovani, orientandone al meglio le scelte, ad esempio nella direzione dell’acquisizione delle competenze necessarie per adattarsi ai cambiamenti tecnologici, anche alla luce del fatto che sono ancora relativamente pochi coloro che intraprendono e concludono con successo percorsi di studio e di formazione nei campi della scienza, della tecnologia, dell’ingegneria e della matematica (i cosiddetti percorsi STEM): secondo dati EUROSTAT, nel 2013, i laureati in discipline STEM erano il 25,1% in Europa e il 22,5% in Italia.