Beni confiscati alle mafie e welfare, il caso campano


Angelo Buonomo | 14 Novembre 2017

Beni confiscati e welfare

La legge 109/1996, “Disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati“, ha rappresentato una vera e propria rivoluzione capace di generare valori attraverso l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie, producendo economia, welfare e cultura. La normativa prevede che gli Enti Locali acquisiscano i beni immobili confiscati nel patrimonio indisponibile e procedano all’assegnazione temporanea a enti del terzo settore. Alcuni significativi studi1 hanno messo in evidenza come spesso i beni confiscati alla criminalità organizzata siano riutilizzati per realizzare servizi di welfare, esperienze di accoglienza di persone con disagio, progetti di inclusione sociale che creano occasioni di lavoro per i giovani, offrono servizi, ricostruiscono relazioni; in questo modo il contrasto alla mafia, colpendola negli interessi economici attraverso il provvedimento di confisca, si salda con un’azione volta ad erodere il contesto di povertà di servizi in cui essa prolifera.

 

Cosa significa per il terzo settore gestire un bene confiscato

Gli effetti sugli enti di terzo settore che gestiscono questi beni sono interessanti; lavorare in un bene confiscato, infatti, è una sfida per nulla scontata: si tratta di resistere alle pressioni e talvolta alle intimidazioni dei gruppi criminali che li controllavano e questo è possibile solo se si dispone di un sostegno diffuso da parte della popolazione. Ma per avere questo “scudo” è necessario agire su più fronti:

a) rendere il bene un luogo partecipato, sentito come proprio dai cittadini e dunque far evolvere l’organizzazione sviluppandone le caratteristiche comunitarie e quindi:

  1. promuovere processi collaborativi, aprendosi al territorio e curando maggiormente le relazioni;
  2. dotarsi di strumenti di trasparenza, necessari per non far venire meno il consenso sul proprio operato.

b) Mostrare come i servizi realizzati presso il bene confiscato siano effettivamente utili alla comunità, così da rendere evidente come il nuovo utilizzo sia più favorevole rispetto a quando il bene era posseduto dalla criminalità; e questo spinge l’organizzazione a:

  1. ampliare gli ambiti di intervento riuscendo a realizzare, anche grazie al sostegno dei cittadini, servizi prima non presenti;
  2. professionalizzare il lavoro e rendere sostenibili le attività.

 

Insomma, gli enti di terzo settore impegnati in processi di riutilizzo devono rendere effettivamente il bene confiscato un bene comune, essere in grado di rendere i processi partecipati, rispondere grazie al bene confiscato ai bisogni della popolazione. E per fare questo spesso devono, “cambiare pelle”, evolvere essi stessi, aprirsi ai cittadini, specializzarsi, acquisire competenze professionali e imprenditoriali.

Molti beni confiscati gestiti da associazioni hanno generato la nascita di cooperative sociali al fine di ampliare gli interventi, erogare diversi servizi e rendere sostenibile – economicamente e socialmente – la propria azione. Le realtà che gestiscono beni confiscati hanno dovuto necessariamente rendere più professionale il lavoro sociale, qualificandolo e formando figure capaci di rispondere a diverse esigenze. L’operatore impegnato nei beni confiscati assomiglia sempre di più alla figura dell’animatore di comunità capace di costruire reti, organizzare coalizioni dal basso, stimolare il lavoro di gruppo, in grado di dialogare con le istituzioni e con i cittadini, coordinare le équipe e incoraggiare processi di cambiamento. Il sistema di partecipazione che si sviluppa all’interno dei beni confiscati porta all’emergere dei bisogni dentro la società a cui gli enti gestori sono indotti a dare risposta creando iniziative sperimentali e innovative, utilizzando la progettazione sociale come strumento di coinvolgimento della società.

 

Il riutilizzo sociale dei beni confiscati innesca un processo di apprendimento che coinvolge l’intera comunità. In questo senso assumono un ruolo decisivo le connessioni con gli istituti scolastici del territorio che, molto spesso, sono i protagonisti di collaborazioni dalle quali nascono nuovi servizi, attività, iniziative aperte al territorio. La progettazione sociale si sviluppa in particolar modo con gli istituti professionali per i servizi sociali e con i Licei delle Scienze Umane al fine di sviluppare servizi, percorsi educativi, laboratori. È possibile, quindi, osservare che il riutilizzo sociale dei beni confiscati genera effetti positivi che seguono due direzioni: da un lato interviene sulle comunità creando coesione e inclusione nel corso della riconversione in bene comune di un patrimonio accumulato illecitamente; dall’altro lato impone agli enti gestori di rivedere i propri modelli organizzativi interni e di intervento sociale rigenerandoli e spingendoli a cedere sovranità. Un meccanismo che produce effetti complessivi e sviluppi che in molti casi non possono essere previsti.

Un approfondimento sulla Campania

I beni confiscati come opportunità di sviluppo”, la ricerca promossa da Libera Campania e Fondazione Polis della Regione Campania, ha monitorato 78 pratiche di riutilizzo impegnate in tutto il territorio regionale in processi di riuso e rigenerazione dei beni confiscati mettendo in luce alcune caratteristiche principali dei beni immobili confiscati e riutilizzati presenti nel territorio regionale. Le esperienze censite presentano tre peculiarità:

  1. L’82% dei beni confiscati in Campania è riutilizzato per attività di welfare attraverso percorsi di reinserimento socio-lavorativo e/o l’erogazione di servizi alla persona.
  2. L’azione di queste realtà sociali è ibrida: i soggetti coinvolti e accolti in uno stesso bene confiscato spesso sono giovani e anziani, immigrati e disabili, donne vittima delle violenze e minori oppure ancora a soggetti con disagio psichico e diversamente abili. C’è uno sconfinamento che supera la rigidità delle categorie tradizionali e della segmentazione classiche del welfare state creando approcci che mettono insieme problemi diversi tra loro.
  3. Gli interventi tendono a promuovere l’autonomia dei soggetti presi in carico superando nella pratica la logica assistenziale.

Queste esperienze hanno un approccio multidimensionale e rispondono a bisogni diversi anche contemporaneamente. Sono 33 i beni confiscati in cui si erogano servizi alla persona e 31 i beni in cui la principale attività è quella del reinserimento socio-lavorativo, su un totale di 78 realtà sociali che operano su 81 immobili. Le cooperative sociali presentano elementi distintivi in termini di struttura organizzativa, capacità di modellarsi al territorio, democrazia interna soprattutto per quanto riguarda la partecipazione e il protagonismo dei soci che provengono dall’area del disagio. In questo senso è interessante evidenziare l’esperienza di una cooperativa intervistata che ha una quota del 67% di soci svantaggiati, ma è possibile sostenere che tendenzialmente la quota di soci svantaggiati supera spesso il limite minimo imposto dalla legge. Il numero così elevato di realtà che operano nel settore del welfare diventa più significativo se si incrociano con le tipologie degli 81 beni riutilizzati dalle 78 pratiche di riutilizzo analizzate: la maggioranza dei beni immobili è rappresentata da appartamenti e ville, strutture in cui è possibile progettare e pianificare servizi di welfare. Le esperienze di gestione di beni confiscati hanno la possibilità di ampliare i servizi combinando più fonti che le rendono sostenibili:

  • le risorse pubbliche e private indirizzate direttamente al riutilizzo sociale dei beni confiscati;
  • le risorse che derivano dalla gestione dei servizi di welfare;
  • la commercializzazione di prodotti dei beni confiscati;
  • gli strumenti finanziari previsti per le cooperative e per gli enti del terzo settore;
  • come si è visto, forme di gestione che comprendono un significativo apporto da parte della cittadinanza.

Conclusioni

Appare evidente il legame tra riutilizzo sociale dei beni confiscati e welfare. In tale direzione dobbiamo immaginare processi formativi rivolti agli operatori, progetti sostenibili, processi di rigenerazione e innovazione sociale. In questo quadro, anche alla luce delle recenti innovazioni legislative prodotte dalla modifica del cosiddetto codice antimafia (legge 159/2011) e l’introduzione del codice del terzo settore, va costruito un lavoro di rete e di comunità articolato capace di rendere sistemici gli interventi.

 

Le argomentazioni del presente articolo sono sviluppate in modo più ampio in Angelo Buonomo, Beni confiscati alle mafie e welfare, il caso campano, in «Welfare Oggi» 4/2017, pagg. 45-48

  1. Bene Italia – indagine conoscitiva “I beni confiscati come opportunità di sviluppo” 2016