Gli operatori nei centri di accoglienza per migranti
Competenze, sussurri e grida
Giovanni Garena | 28 Febbraio 2023
Questo contributo si propone di rielaborare un’esperienza di conduzione di percorsi formativi volti agli operatori dei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) e del Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI) delle province di Torino e Alessandria. In questo articolo si descrivono obiettivi, contenuti e metodologie formative proposte e si analizzano alcuni aspetti, emersi durante le attività formative, che riguardano da una parte saperi e competenze degli operatori coinvolti, dall’altra le fonti di disagio legate a questi servizi di frontiera.
I Centri di Accoglienza Straordinaria sono strutture, individuate dalle Prefetture attraverso appositi bandi di gara per l’affidamento di contratti pubblici, e gestite generalmente da cooperative ed associazioni di varia natura, ove i migranti dovrebbero essere inseriti eccezionalmente, in caso di saturazione del sistema principale di accoglienza. Da elemento “cuscinetto”, da utilizzarsi come ultima spiaggia, i CAS sono tuttavia divenuti un passaggio ordinario. Basti pensare che oggi su tutto il territorio nazionale sono presenti circa 5.000 CAS con una capacità di accoglienza di 80.000 persone. Rispetto alle caratteristiche il Ministero dell’Interno, nei vari bandi di gara pubblicati negli anni, ha fornito indicazioni diverse e contraddittorie.
Il Sistema di accoglienza e integrazione SAI è costituito dalla rete degli enti locali che per la realizzazione di progetti di accoglienza integrata accedono, nei limiti delle risorse disponibili, al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo. A livello territoriale gli enti locali, con il prezioso supporto delle realtà del terzo settore, garantiscono interventi di accoglienza integrata che, oltre ad assicurare servizi di vitto e alloggio, prevedono in modo complementare anche misure di informazione, accompagnamento, assistenza e orientamento, attraverso la costruzione di percorsi individuali di inserimento socioeconomico.
In questi servizi lavorano oggi circa 35 mila operatori con diverse professionalità (assistenti sociali, educatori professionali, psicologi, mediatori culturali, operatori socioassistenziali, infermieri).
Il contesto, gli obiettivi e i contenuti del percorso formativo
L’esperienza formativa qui analizzata ha coinvolto complessivamente oltre 150 operatori dei servizi di accoglienza appartenenti a diverse aree professionali ed è stata condotta su due diversi mandati della Prefettura di Alessandria (percorso breve della durata di 10 ore) e della Prefettura di Torino (percorsi modulari per complessive 70 ore che ha coinvolto il personale di 13 enti di Terzo settore). Con le committenze sono stati concordati due obiettivi formativi:
- definire mappe di orientamento per passare dalla mera accoglienza a progetti personalizzati di accompagnamento sociale verso l’autonomia;
- sperimentare opportunità di adozione di queste mappe nelle diverse realtà operative dei servizi di accoglienza.
Il lavoro su questi obiettivi ha riguardato:
- la rivisitazione di alcuni fondamenti che stanno alla base del lavoro sociale ed educativo con particolare riguardo al dovere della formazione e del formarsi, alla riflessività, alle intelligenze al lavoro, ai quadri motivazionali, alle responsabilità individuali e collettive
- la riflessione su alcuni aspetti politici e strategici che danno forma ai servizi: l’analisi dei servizi alla luce di alcuni termini chiave (es. libertà e liberazione, integrazione, diversità e differenza, tempo), la scelta tra servizio individualista-riformista e servizio socialista-collettivista (e quindi le come collocare CAS e SAI in un modello di servizio socioeducativo anti-oppressivo)
- le dinamiche organizzative (in specifico la gestione dell’autorità, del sistema delle regole, del potere).
Questa rivisitazione ha consentito di mettere in rete le conoscenze per promuovere una efficace azione professionale a favore delle persone migranti. Si è poi entrati nel merito di metodi e tecniche di lavoro sociale e educativo che concernono il colloquio professionale, il setting, l’osservazione professionale e il diario di bordo, la progettazione socioeducativa, l’analisi di eventi critici e degli errori come fonte di apprendimento, la conciliazione – nello stesso servizio – tra ospiti che presentano differenti progetti di accoglienza-accompagnamento.
Soprattutto nei percorsi più lunghi si è utilizzato un ambiente laboratoriale che ha permesso l’ingaggio di operatori motivati a far crescere le loro competenze attraverso simulate, lavori di gruppo, tecniche training, discussione di casi e di concrete situazioni organizzative. Particolare attenzione è stata dedicata ad analizzare aspetti e difficoltà applicative dei metodi e delle tecniche di lavoro sociale e educativo volto alla tipicità degli ospiti di questi servizi.
La formazione
Nel confronto laboratoriale è emersa la complessità di interventi in cui si intrecciano una dimensione sociopolitica (un sistema che opera per accogliere e rendere autonome le persone ospitate), una dimensione antropologica (l’ibridazione di diverse culture, saperi, fedi, tradizioni, storie, nutrimenti), e una dimensione comunicativa e massmediatica (l’immagine e le rappresentazioni sociali di questo universo composito di persone in fuga da mondi lontani).
Questo quadro è ulteriormente complicato dal fatto che l’opinione pubblica (ma anche molti operatori del sistema pubblico non direttamente coinvolti sulla materia immigrazione) immagina che ad occuparsi di questi interventi siano volontari non meglio identificati e privi di qualifiche professionali; o giovani in attesa di una occupazione “vera”, all’interno di organizzazioni di volontariato di tipo essenzialmente elemosiniero e consolatorio, o peggio, implicato in fenomeni corruttivi o di sfruttamento.
A partire da questa carenza di legittimazione, i professionisti coinvolti nei corsi hanno maturato consapevolezze del doversi impegnare nella dimensione comunicativa. Questi stereotipi pesano su operatori cui è affidato un compito impegnativo, da svolgere peraltro in condizioni economiche penalizzati, se si pensa che lo Stato assegna agli ETS per ogni migrante 28,73 euro/giorno che devono remunerare, oltre al lavoro degli operatori, cibo, alloggio, vestiario, utenze, trasporti, igiene, sanità, il cosiddetto pocket money, spese amministrative, costi di struttura, ecc.
Oltre a questo rilevante intreccio tra dimensione di sociopolitica, antropologica, comunicativa e massmediatica, economica, il percorso formativo ha suscitato una riflessione su metodi e tecniche per gestire altre dimensioni, connesse al lavoro di accoglienza, che l’operatore deve saper cogliere:
- la dimensione del dolore umano provocato dalle ingiustizie e disuguaglianze;
- la dimensione sensoriale, fatta di occhi che parlano, di sorrisi e di allegria, di pianti, di urla, di abiti ed oggetti con loro diversi significati;
- la dimensione relazionale: la gratitudine, il dono, il ricordo;
- la dimensione del tempo nei diversi calendari e nella diversa concezione dell’attesa;
- la dimensione burocratico-amministrativa della nostra società (le lunghe e contorte procedure per il permesso di soggiorno, lo status, ecc.);
- la dimensione emozionale nelle dinamiche dello spiccare il volo verso la libertà, del distacco, dell’empatia, della nostalgia, dello scambio e della reciprocità.
L’insieme di queste dimensioni ha rafforzato la percezione di un lavoro sfidante che implica lo sviluppo di competenze e saperi specifici, che riguardano la pluridimensionalità dei bisogni dei migranti, il lavoro in rete, l’interazione con i contesti locali oltre che l’evoluzione della normativa.
L’attività formativa è proseguita approfondendo quattro aspetti: il tempo; i quadri motivazionali; la salute; le forme organizzative e la qualità del percorso di accoglienza-accompagnamento.
Il tempo
Gli operatori vivono nell’eterna lotta tra un tempo che manca, che sfugge, spesso in una concezione nevrotica da cronodipendenza, e desiderio di un tempo buono, pregno di senso, in cui attribuire significato all’azione. Le narrazioni della vita quotidiana degli operatori in questi servizi evidenza un tempo a volte maligno, vissuto in continue urgenze, emergenze che fanno sovente assomigliare un CAS ad una sorta di Pronto Soccorso socioassistenziale:
“…evitare di arrivare allo sfinimento. Fermarsi prima siamo in un vortice di corsa affannosa, in continua emergenza, non abbiamo tempo per dare veramente attenzione all’altro (ospite o collega), questo lavoro non è un lavoro qualsiasi, è un lavoro che deve essere amato avendo nel cuore il senso sociale di ciò che facciamo” (un’educatrice professionale).
Le motivazioni
Le motivazioni in genere sono alte nel primo periodo di impiego, spesso si mantengono anche in seguito su buoni livelli, probabilmente grazie ad un forte attaccamento alla mission, ad un sistema valoriale che travalica le fatiche e le oggettive problematiche quotidiane; ma in molti altri casi la motivazione ha difficoltà a rigenerarsi anche a seguito di pesanti carichi di lavoro cui corrisponde una retribuzione inadeguata.
La salute
Il tema della Salute ha occupato una parte consistente dell’attività formativa. Tutti gli ETS coinvolti attribuiscono una notevole importanza a questo tema e nel corso si è riflettuto su ciò che porta gli operatori a star bene con se stessi per far star bene gli ospiti, le fonti del malessere (lo star male, mentalmente e fisicamente), le ferite con particolare riguardo alle ferite emozionali dell’animo, il rapporto con l’errore, lo stato dei legami con l’organizzazione, la solitudine dell’operatore, lo stress e l’esigenza di prevenire il burnout:
“sto male quando gli ospiti ci dicono di sentirsi animali in gabbia; mi rendo conto che per molti dei nostri ospiti nessun luogo sarà mai abbastanza grande da contenere la loro rassegnazione” (una mediatrice culturale).
“mi fa star male ogni volta che, preso da emergenze, devo dire ad un ospite “non posso occuparmi di te” (una psicologa).
Si è acquisita consapevolezza circa il fatto che, se la salute è il bene fondamentale da promuovere e da conservare, anche in un CAS o in un SAI è dirimente che agli operatori sia garantita una dignitosa soglia di ben-essere e si è riflettuto sul come rinforzare le resilienze degli operatori per far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, per fronteggiare efficacemente le contrarietà, per riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, per ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre senza perdere la propria umanità e dare nuovo slancio alla propria esistenza. Solo attraverso questi passaggi si possono prevenire le ferite emozionali che nelle organizzazioni di lavoro sociale sono frequentissime: ferite da irraggiamento del dolore portato dagli ospiti e dalle loro terribili storie di vita, ferite provocate nelle organizzazioni, da rifiuto, da abbandono, da ingiustizia, da umiliazione, da tradimento, da insuccesso, da conflitti irrisolti. Queste determinano veri e propri traumi che possono condurre gli operatori alla totale demotivazione sino ad una vera e propria malattia professionale come il burnout: “…sono molto più numerose e dolorose le ferite che mi hanno procurato i capi o i colleghi rispetto a quelle procuratemi dagli ospiti (una educatrice)”.
Le forme organizzative e la qualità
È apparsa in tutta evidenza la difficoltà degli ETS, nel contesto di precarietà sopra delineato, a superare i mansionari, il prestazionismo, l’indeterminatezza e l’improvvisazione a favore di realistici e trasparenti organigrammi, funzionigrammi, meccanismi operativi: “non c’è qualità in organizzazioni in cui ciascuno suona per proprio conto il proprio strumento. Qui nasce la solitudine. Ma per non sentirsi soli occorrono spazi strutturati di ascolto, di discussione e di condivisione (una assistente sociale)”.
Nell’ambito della messa in discussione dei modi di lavorare, cioè non solo il quanto, ma anche il come si lavora, si è costruito un manuale di autovalutazione dell’attività socioeducativa e si sono formulate proposte per migliorare il funzionamento dei servizi, soprattutto per quanto riguarda l’attribuzione del lavoro per progetti e per funzioni, i meccanismi di presa di decisione condivisa, la gestione del sistema delle regole, il lavoro in équipe multiprofessionale; si è inoltre lavorato su modelli di progettazione concertata, sulla riflessione-apprendimento dagli errori e sull’individuazione partecipata di criteri e indicatori di qualità.
Limiti del percorso formativo e prospettive
L’esperienza formativa ha sicuramente registrato alcuni limiti strutturali sostanzialmente legati al rapporto tra obiettivi-contenuti e tempo a disposizione, ma in ogni caso questa esperienza consente di abbozzare alcuni spunti per la disseminazione di iniziative formative su queste tematiche:
- partire dalle risorse presenti in questi sistemi di servizio, prima di concentrarsi sui problemi, sui deficit, sulle mancanze; partire in primo luogo dal patrimonio di valori, intenzionalità, capacità degli operatori. È indispensabile dare dignità e legittimazione a queste pratiche di lavoro socioeducativo, agli operatori, ai loro ETS e di qui partire per una formazione utile ad affrontare la dialettica tra strumenti professionali e una realtà in costante mutamento che pone ogni giorno nuovi interrogativi, dubbi, incertezze, e tanta fatica.
- ingaggiare operatori motivati a studiare dispositivi per far accadere cose nuove in questi servizi di frontiera, a immaginare un “futuro possibile”, impegnandosi nell’elaborazione, bottom up, di nuove formule frutto di immaginazione, creatività, indipendenza cooperativa, aspirazioni, utopie (Garena, Tosco, 2018). Laboratori nel quali cercare di vedere insieme il domani da protagonisti e generatori di cambiamento attraverso le cose nuove da fare, già oggi.