Che cos’è il welfare collaborativo? Una ricerca in Lombardia


Sergio Pasquinelli | 19 Maggio 2017

Famiglie che si aiutano, badante di condominio, baby sitter condivisa, co-abitazioni, orti di quartiere, piattaforme digitali, hub territoriali, biblioteche aperte, cortili sociali. Cosa hanno in comune queste esperienze? E cosa c’è di nuovo rispetto a dinamiche collaborative che ci sono sempre state? Sono le domande che ci hanno sollecitato verso un nuovo progetto di ricerca. Realizzato, naturalmente, in modo collaborativo e di cui diremo tra poco. Perché l’impressione condivisa è che il formato tradizionale di “servizi che danno e di utenti che ricevono” va stretto in molti ambiti, va superato, va ripensato. Serve un nuovo sguardo, il passaggio da una centratura su “servizi-che offrono” a una sulle attività della vita quotidiana: abitare, prendersi cura, lavorare, educare. I servizi non più come i soggetti delegati a fornire risposte, ma attori fra gli altri: attivatori di risorse, relazioni, connessioni. Se al posto di avviare un nuovo centro di aggregazione giovanile coinvolgo, in un percorso di coprogettazione, un oratorio, due associazioni e un gruppo di volontariato, sto dando valore a ciò che questi fanno, spendo meno come ente pubblico e genero una ricaduta che può essere amplificata. Se ripenso il Servizio di assistenza domiciliare in un’agenzia che si avvale di badanti formate, e le collega con una serie di prestazioni diverse, offro qualcosa che non costa di più ma che può rispondere molto meglio ai bisogni degli anziani.  

Di cosa parliamo

Che cosa è il welfare collaborativo1? Sono azioni che fanno dell’aiuto tra pari, dello scambio, della reciprocità il loro perno. Esistono diverse forme di collaborazione. Se sono mamma e lavoro part time posso seguire i figli di altri, e questo poi mi viene ricambiato quando sono io al lavoro. Oppure: un orto urbano ha bisogno di un coordinamento e riesce se ci si aiuta a vicenda. O ancora: se sono portatore di disabilità psichica posso vivere in una comunità indipendente insieme ad altri in condizioni analoghe. Rispetto ai servizi tradizionali cambia il mandato: non erogare ma connettere, non rispondere ma costruire possibilità, non più contenere i mali di una società fragile, ma facilitare, intraprendere, intermediare. Certo, i servizi essenziali, quelli rivolti alle fragilità evidenti, alle discriminazioni, devono continuare ad esistere come strumenti di tutela dei diritti, livelli essenziali di assistenza. Ma senza deprimere gli spazi di crescita di questo insieme di esperienze collaborative, che arricchiranno la rete dei servizi più consolidati. E forse ne modificheranno la stessa conformazione.  

Una ricerca: Welco

Abbiamo realizzato una ricerca-azione sul welfare collaborativo chiamato “#WELCO”. Promosso da Irs in partnership con: Cgil, Spi Cgil e Fnp Cisl Lombardia, tre cooperative sociali (Genera, La Cordata e il Melograno), le Acli milanesi e il Comune di Milano. Per iniziare a decifrare questa galassia e a raccogliere evidenze in relazione alle possibilità che vanno aprendosi. E per superare la retorica con poche evidenze che spesso circonda questa realtà e che non ci aiuta a capire, lo storytelling che spesso pervade progetti e sperimentazioni quando vengono presentati pubblicamente e che non ci aiuta a interpretare i meccanismi virtuosi, la sostenibilità nel tempo delle diverse azioni, la loro autonomia organizzativa, economica. Il rapporto di ricerca è scaricabile qui: www.qualificare.info. Riprendiamo di seguito alcune delle evidenze emerse.  

Sei aree di intervento

Concretamente, come si configura il welfare partecipativo in Lombardia? Sotto quali forme e in quali campi concretamente si esprime? Attraverso quali esperienze? Quali i punti di forza e di debolezza? Quali criticità? Quali prospettive? Per rispondere a queste domande ci siamo concentrati su quasi 70 progetti, distribuiti in sei aree:

  • L’aiuto tra famiglie, sia peer to peer, sia intermediato da facilitatori e organizzazioni. Questo è forse il campo più ampio che abbiamo affrontato, e dove abbiamo trovato l’insieme più eterogeneo di progetti;
  • Gli Hub territoriali, o “Community hub”, ossia luoghi di aggregazione con funzioni polivalenti, marcati territorialmente, che possono diventare incubatori di aiuto e collaborazione tra persone e gruppi;
  • Le esperienze di co-abitazione, tra generazioni diverse e tra le stesse generazioni;
  • La badante condivisa e la badante di condominio, formula molto evocata su cui abbiamo cercato di arricchire l’evidenza empirica, oggi piuttosto limitata;
  • Le piattaforme digitali, come spazi dove, anche per questa via, transita il nuovo e dove l’innovazione, come ci insegna la sharing economy, ha tante possibilità di esprimersi;
  • La mobilità e i trasporti, condivisi e assistiti, un ambito dove proprio la sharing economy ha conosciuto un grande spazio di affermazione e dove il welfare collaborativo presenta differenze e specificità tutte sue.

  In ciascuna di queste aree abbiamo dapprima contestualizzato l’insieme delle pratiche in essere, in Lombardia e talvolta anche fuori regione, e quindi abbiamo approfondito l’analisi su alcuni progetti ritenuti emblematici, dove è presente una componente professionale (quindi non di volontariato puro), evidenziandone elementi di forza e criticità. Ne emerge un quadro articolato, luci e ombre che segnano un primo tassello di una analisi che deve proseguire, affiancando l’operatività di molti progetti e, auspicabilmente, valorizzandone e ampliandone il potenziale.  

Una prima mappa

Esistono tipi diversi di collaborazione. C’è una collaborazione di tipo “passivo”, l’adesione a una proposta che non implica attivazione di risorse proprie: in un progetto di badante condominiale non c’è bisogno che le famiglie coinvolte si attivino in un progetto, ma che accettino il fatto che la badante che viene sia la stessa che segue l’anziano due piani sotto il loro. C’è poi una collaborazione attiva, la più sfidante, che a sua volta può declinarsi a livello di singoli o puntare sul collettivo. Quella individuale riguarda l’attivazione del destinatario dell’aiuto, attraverso un patto che impegna e responsabilizza. Nel nuovo Rei – Reddito di inclusione, si parla di contratti di servizio tra operatori e famiglie in carico, termini noti nell’ambito del lavoro sociale. La collaborazione può poi assumere una dimensione collettiva, di gruppo. Parliamo di socializzazione dei bisogni individuali, aggregazione degli interessi per convergere su un’offerta nuova, un aiuto condiviso. Inoltre, le attività di collaborazione possono oscillare tra un prevalente obiettivo di socializzazione, relazione tra persone, oppure uno più vicino all’aiuto, alla cura, all’assistenza. Dunque abbiamo due diverse dimensioni: individuo/gruppo e socialità/aiuto. La figura che segue, disegna un campo correlando queste diverse dimensioni, ponendole lungo due continuum dove, in via preliminare ed esemplificativa, abbiamo provato a collocare alcune esperienze per come le conosciamo.      Nel lavoro che abbiamo condotto abbiamo così scoperto quanto il welfare collaborativo non vada confuso con la sharing economy. Ci sono convergenze interessanti ma anche differenze sostanziali, date in particolare dalla frequente necessità di un’intermediazione (versus una economia disintermediata) e dalla utilità di riferimenti fisici, di luoghi e di spazi (versus una economia dematerializzata, digitalizzata). I cambiamenti in atto chiedono però attenzioni, non semplificazioni, perché molto ambivalenti. Per esempio, sulla disintermediazione verifichiamo che un numero crescente di persone inizia a familiarizzarsi con servizi a cui accedere direttamente: la sharing economy sta cambiando la modalità di entrare in contatto e di ricercare soluzioni, sta cambiando la forma mentis. Ma in diversi casi l’assenza di un soggetto e di luoghi che aiutano, facilitano, orientano, rischia di far crescere il divario tra i più e i meno dotati di risorse e possibilità, tra chi è solo e chi non lo è. Nei servizi alla persona, nel lavoro di cura, nell’educazione, ciò che è in gioco non sono oggetti, raramente prestazioni brevi, occasionali, che iniziano e finiscono nell’arco di poco. Ciò che è in gioco sono relazioni, di diverso genere, ma pur sempre relazioni. Come tali hanno bisogno di fiducia, un senso di sicurezza, affidabilità, per cui servono consigli, sostegni, tutele. Serve per questo una intermediazione, un broker: attento ai bisogni e agli interessi di chi dà e di chi riceve. Esistono alcuni ambiti in cui è più facile disintermediare: nelle prestazioni brevi e leggere. Ma in altri, e in prevalenza, la disintermediazione è difficile e forse poco auspicabile. Io posso valutare un appartamento su Airbnb se corrisponde alle mie aspettative, se il locatore è affidabile e così via. Una badante ho bisogno che mi venga presentata, devo conoscerla, non la cambio facilmente, e per questo ho bisogno di una parte terza.

  1. Questo intervento, con qualche modifica, è presente anche su Scambi di Prospettive e su Lombardiasociale.it