Co-progettazione e il sistema giuridico amministrativo impermeabile al cambiamento
Alceste Santuari | 21 Maggio 2024
La co-progettazione, così come disciplinata dall’art. 55 del Codice del Terzo settore, è “la procedimentalizzazione dell’azione sussidiaria” (Corte costituzionale, sentenza n. 131 del 2020).
Quanti, tra coloro che, a vario titolo, si occupano di enti non profit e di processi collaborativi con le pubbliche amministrazioni, non hanno sentito o letto almeno il passaggio della sentenza citata? Quest’ultima non è stata forse salutata e intesa quale “sentenza storica”, capace di tracciare una chiara ed inequivocabile linea di demarcazione tra un “prima” e un “dopo” nella concettualizzazione (e quindi applicazione) della co-progettazione e delle relative caratteristiche, ratio e finalità?
Molti interpreti hanno, quindi, voluto leggere nella sentenza n. 131 una “risposta” all’approccio riduzionistico ovvero marginale agli istituti giuridici cooperativi espresso nel noto parere del Consiglio di Stato del 2018.
Non può revocarsi in dubbio, pertanto, che la sentenza de qua rappresenti un faro, un sicuro punto di riferimento, i cui contenuti sono finanche riportati in molti avvisi di co-progettazione, nella parte di premessa ovvero nelle fonti normative – interpretative a sostegno della scelta delle pubbliche amministrazioni di intraprendere i processi collaborativi con gli Enti del Terzo settore per la realizzazione di una o più delle attività di cui all’art. 5 del Codice del Terzo settore.
È inoltre altrettanto indubitabile che la sentenza n. 131 del 2020 costituisca uno stimolo, un supporto e un parametro su cui fondare l’azione delle amministrazioni pubbliche e degli Enti del Terzo settore, in particolare in quanto la pronuncia in parola ha legittimato l’equiordinazione tra co-progettazione e procedure competitive.
Tuttavia, nonostante l’art. 55, la sentenza n. 131, le numerose leggi regionali, che, a seguito dell’approvazione del Codice del Terzo settore, si sono susseguite in questi anni, nonché i numerosi (ormai) regolamenti di enti locali e aziende sanitarie che disciplinano i rapporti giuridici con gli Enti del Terzo settore, si assiste ancora – e i casi non sono così infrequenti, come ci si potrebbe immaginare – ad una certa impermeabilità delle decisioni politico-amministrative all’utilizzo degli istituti giuridici cooperativi. Anzi, per vero, si può evidenziare un certo uso strumentale dei medesimi, quando essi – mutuando un’espressione del diritto anglosassone – una volta “alzato il velo” sulla forma con cui gli avvisi sono predisposti, si comprende che la procedura “nascosta” è, nella sostanza, una procedura competitiva dissimulata.
Non si intende qui sostenere che l’art. 55, la sentenza n. 131 del 2020, le leggi regionali e gli atti regolamentari di autodisciplina delle pubbliche amministrazioni non stiano segnando il nuovo paradigma, ribadito anche nella medesima sentenza, rispetto a quello tradizionale delle regole concorrenziali. È diffusa la consapevolezza che gli istituti giuridici cooperativi siano un efficace leva attraverso cui valorizzare l’azione sussidiaria degli enti non lucrativi. Quello che si intende evidenziare è che detti istituti sembrano ancora, almeno in taluni contesti di intervento, ritenuti marginali, eccezionali, forse addirittura residuali, rispetto a quelli più invalsi e conosciuti.
Residualità, marginalità, eccezionalità che derivano anche da una mancanza di conoscenza approfondita ovvero da una interpretazione errata degli istituti giuridici previsti dal Codice del Terzo settore. E dall’assenza di conoscenza o, peggio, dal pregiudizio nei confronti di uno strumento spesso conseguono diffidenza, dubbi applicativi, nonché, forse, anche indifferenza, che rischiano di minare alla radice l’essenza stessa dei percorsi collaborativi.
Al fine di comprendere quali possono essere i pregiudizi e i dubbi che ancora possono circondare la co-progettazione, in particolare, prenderemo di seguito, ancorché in forma necessariamente sintetica, una recentissima pronuncia del giudice amministrativo ligure (Tar Liguria, sez. I, 3 maggio 2024, n. 310).
Il ricorso in oggetto, accolto dai giudici amministrativi liguri, è stato presentato da un soggetto lucrativo che ha contestato la decisione della Regione Liguria di ricorrere agli istituti giuridici cooperativi disciplinati dal Codice del Terzo settore e, conseguentemente, di avere così limitato la concorrenza.
A giudizio di chi scrive, quattro sono i profili di interesse oggetto della decisione richiamata, segnatamente, 1. Il contesto in cui si colloca la co-progettazione e la relativa finalità; 2. i criteri indicati nell’avviso per la partecipazione degli Enti del Terzo settore; 3. l’interpretazione del contenuto economico previsto; 4. il rapporto tra gli ETS e i soggetti di mercato.
- Nel caso di specie, il Tar ha sottolineato che il finanziamento statale dal quale la Regione ha fatto discendere l’avviso oggetto del contezioso amministrativo non obbligava l’ente pubblico ad esperire una procedura cooperativa, riservata ai soli Enti del terzo settore, in quanto il fondo in parola prevedeva il coinvolgimento degli ETS maggiormente rappresentativi delle categorie beneficiarie (nel caso di specie, si tratta di persone con disabilità uditive) soltanto nell’individuazione dei progetti da sovvenzionare, “ma non, necessariamente, per la relativa attuazione”. A giudizio della società ricorrente, confermata dalla decisione del giudice amministrativo, la Regione non era tenuta a costruire un percorso collaborativo. A fortiori, quando la pubblica amministrazione ricerca il soggetto produttore/erogatore di dispositivi finalizzati a facilitare l’accesso di sordi e ipoudenti ai servizi sociosanitari, scolastici e culturali mediante sistemi innovativi per abbattere le barriere alla comunicazione, un simile obiettivo avrebbe potuto (rectius: dovuto) essere ricondotto nella logica competitiva. In caso contrario, la Regione avrebbe dovuto sostenere la propria scelta strategica e amministrativa con un’adeguata motivazione, che a giudizio della Sezione, nel caso di specie è mancata. E ciò a fortiori, se si considera che l’avviso prevedeva la continuazione di un precedente progetto, realizzato da una delle APS che ha poi preso parte alla co-progettazione, risultando, per inciso, prima nella graduatoria finale dei progetti ammessi a finanziamento.
- Il Tar ha altresì censurato le clausole previste nell’avviso, in forza delle quali gli ETSD avrebbero dovuto dimostrare di avere una sede operativa e un’esperienza pregressa in Regione Liguria. La contestazione muove – in linea con altre pronunce sul tema – dalla considerazione che siffatte clausole risultano “illegittimamente restrittive della partecipazione e violativa del principio di par condicio, che vieta ogni discriminazione dei concorrenti ratione loci”.
- Il Tar non ha ritenuto legittima la previsione di riconoscere un contenuto economico che non fosse limitato e circoscritto al mero rimborso delle spese, unico parametro che può sostenere la dimensione di gratuità che – a giudizio della Sezione ligure – unica può caratterizzare i rapporti non competitivi ispirati al Codice del Terzo settore.
- Quest’ultimo profilo merita particolare attenzione, attesa la sua novità sia nel panorama interpretativo sia in quello dottrinale. Si tratta della contestazione mossa all’azione degli ETS destinatari di fondi pubblici, con i quali si sostengono i percorsi anche di co-progettazione. Nello specifico, agli ETS – hanno ribadito i giudici – dovrebbero risultare completamente responsabili della realizzazione degli interventi, progetti, azioni e prestazioni oggetto della co-progettazione. Qualora, invece, decidano di ricorrere a soggetti privati a titolo oneroso, essi, in quanto destinatari di fondi pubblici, devono agire come se fossero “organismi di diritto pubblico”, applicando, di conseguenza, le regole previste per i contratti affidati da amministrazioni pubbliche.
Due sembrano, ad avviso di chi scrive, le lezioni che è possibile trarre da quanto sopra sinteticamente ricostruito. La prima riguarda la necessità di predisporre gli avvisi in maniera adeguata e coerente con gli obiettivi che l’amministrazione procedente intende perseguire. La predisposizione richiede, necessariamente, anche l’analisi e la conoscenza del contesto in cui le azioni e i progetti oggetto della co-progettazione sono collocali. Nello specifico, occorre che la pubblica amministrazione procedente abbia chiaro, ex ante e fin dall’inizio, se quanto ritiene di “conseguire” con la procedura è l’erogazione di un servizio ovvero la messa a disposizione di un prodotto, che, sul mercato, come ribadito dai giudici amministrativi della Liguria, potrebbe anche risultare maggiormente competitivo. In quest’ottica, dunque, non si tratta di comparare in astratto le procedure concorrenziali e quelle cooperative. Al contrario, è dirimente interrogarsi su quale obiettivo si intende raggiungere e, conseguentemente, presentare la partecipazione e il coinvolgimento degli enti del terzo settore, quale “valore aggiunto”, capace di rafforzare la coesione e l’inclusione sociale. Profilo questo più volte rimarcato anche dai giudici di Lussemburgo che, in contesti diversi (si trattava del trasporto sanitario di emergenza e urgenza) hanno, comunque, individuato nella coesione sociale e nel principio solidaristico le due componenti che possono legittimare il ricorso agli istituti giuridici cooperativi in luogo di quelli competitivi.
La seconda attiene, invece, all’interpretazione riduzionistica e, quindi, fuorviante, del contenuto economico oggetto dei percorsi amministrativi cooperativi. Anche nella sentenza in argomento si confonde il principio di non-lucratività con quello di gratuità. Quest’ultima – come già sopra ricordato – è presa a parametro per identificare il perimetro oltre il quale occorre necessariamente esperire una procedura competitiva. In quest’ottica, è condivisibile quanto recentemente affermato dal Giudice della Corte costituzionale ed estensore della Sentenza 131 Luca Antonini in occasione della presentazione del Rapporto sulla Amministrazione condivisa della Fondazione Terzjus, tenutasi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in data 11 marzo 2024 e pubblicato su Vita in data 6 maggio 2024: “Questo è sbagliato. Perché esiste il mondo della non-lucratività, che coincide con quello della società solidale, che è quello che la nostra Costituzione valorizza con l’articolo 2 e che, con una serie di ulteriori disposizioni, come l’articolo 118, richiede sia valorizzato anche con strumenti diversi da quelli del mercato”.
Lasciando sullo sfondo i diversi profili sopra richiamati, che potranno essere oggetto di ulteriori e futuri approfondimenti, si ritiene che la qualificazione del contenuto economico della co-progettazione rappresenti invero la componente maggiormente delicata e che, in molti casi, solleva numerosi dubbi circa la procedura amministrativa relativa. È evidente che, a tacere di altri profili, ritenere che la co-progettazione debba essere caratterizzata dal mero rimborso delle spese non solo non è coerente con la previsione dell’art. 55, che riconduce il contributo alle fattispecie di cui alla legge n. 241/19901, ma rischia anche di misconoscere la realtà. Se solo si pensa alle attività e ai servizi socio-sanitari, per citare alcune delle attività di interesse generale di cui all’art. 5 del d. lgs. n 117/2017, non si può prescindere dalla necessità di riconoscere che il “coinvolgimento diretto” degli enti del terzo settore nella progettazione, organizzazione ed eventualmente realizzazione degli interventi, delle azioni e dei progetti oggetto del percorso collaborativo richiede risorse, umane, finanziarie e immobiliari. In quest’ottica, dunque, non è condivisibile l’atteggiamento interpretativo secondo il quale le attività e i progetti oggetto degli istituti giuridici cooperativi debbano naturaliter essere gratuiti. Si tratta di una interpretazione che divide in modo eccessivamente semplificatorio e, pertanto, fuorviante le procedure competitive da quelle collaborative. Il reasoning si svolge come segue: se la co-progettazione contempla un riconoscimento economico eccedente il mero rimborso delle spese non può considerarsi tale e, pertanto, deve ricondursi al gioco concorrenziale. Al riguardo, tuttavia, non può negarsi la circostanza che in alcuni specifici ambiti di intervento, quali, per esempio, i servizi e le prestazioni socio-assistenziali e socio-sanitarie, l’impegno degli Enti del Terzo settore non può limitarsi a prevedere un “mero” rimborso delle spese. Ecco che allora occorre – come anche le linee guida ministeriali del 2021 hanno ribadito – che le amministrazioni procedenti, anche attraverso l’adozione di proprie regolamentazioni autonome, indichino con precisione gli elementi rendicontativi, al fine di valorizzare in modo adeguato e non ipocrita, o peggio, ingannevole, la collaborazione richiesta e offerta dagli enti non lucrativi.
In ultima analisi, è possibile affermare che lungi dall’essere giunti ad un approdo sicuro, i tempi sono comunque maturi per definire percorsi collaborativi “taylor-made”, ossia rispondenti alle istanze, bisogni ed esigenze della comunità, in specie quella più fragile, come – tra gli altri – è stato previsto nel decreto legislativo in materia di disabilità (cfr. questo articolo).
- Per completezza di esposizione, si ricorda che il rimborso delle spese è previsto dall’art. 56 del Codice del Terzo settore nel caso di convenzioni tra pubbliche amministrazioni e specifiche tipologie di enti del terzo settore, segnatamente, le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale, strutture giuridiche che si devono sostenere con il prevalente apporto di volontariato.