Codice del Terzo settore e rapporti di lavoro
Alcune precisazioni in una nota del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali
Gianfranco Marocchi | 16 Marzo 2020
Nota n. 2088 del 27 febbraio 2020, relativa agli artt. 8, comma 3, lettera b), 16 e 17 del Codice del Terzo settore
Il Codice del Terzo settore comprende alcune disposizioni relative ai rapporti di lavoro, rispetto alle quali il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, in risposta ad alcuni quesiti posti dal Forum Nazionale del Terzo settore, ha recentemente rilasciato una nota. Le questioni affrontate dal Ministero del Lavoro sono riconducibili a quattro temi.
Il primo tema è relativo alle disposizioni volte ad evitare che retribuzioni eccessive nascondano una implicita ripartizione di utili. Ciò è affrontato all’art. 8, comma 3, lettera b del d.lgs. 117/2017 (Codice del Terzo settore), insieme ad altre previsioni dello stesso tenore che mirano ad impedire che la distribuzione implicita di utili avvenga a favore di amministratori, fondatori, membri (ad esempio assicurando loro prestazioni gratuite) o di finanziatori (con tassi di interesse fuori mercato), ecc. Nello specifico la norma citata vieta “la corresponsione a lavoratori subordinati o autonomi di retribuzioni o compensi superiori del quaranta per cento rispetto a quelli previsti, per le medesime qualifiche, dai contratti collettivi di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, salvo comprovate esigenze attinenti alla necessità di acquisire specifiche competenze ai fini dello svolgimento delle attività di interesse generale di cui all’articolo 5, comma 1, lettere b), g) o h)”.
Tale norma, non connessa alla piena operatività del Registro unico è di per sé immediatamente applicabile su tutti i rapporti di lavoro instaurati dopo l’entrata in vigore del Codice (3 agosto 2017); diverso il caso in cui invece un rapporto di lavoro sia stato stipulato prima dell’entrate in vigore del Codice, le cui condizioni sono quindi state definite prima della validità della norma.
Il limite del 40% va computato con riferimento a quanto viene corrisposto per una determinata mansione sulla base dei contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, comprensivi di eventuali somme aggiuntive previste dalla contrattazione territoriale o aziendale, importi che fungono da riferimento anche qualora ci si riferisca a prestazioni rese da un collaboratore in regime di lavoro autonomo.
La nota si concentra principalmente sui casi in cui possa essere lecito derogare dalla limitazione alle retribuzioni sopra richiamate, che, innanzitutto, come si evince dalla lettura dell’articolo citato, possono riguardare solo specifiche attività: interventi e prestazioni sanitarie, formazione universitaria e post-universitaria, ricerca scientifica di particolare interesse sociale, settori cioè in cui si ritiene che possa esservi la necessità di disporre di personale con qualifiche molto specifiche di alto livello e quindi dove potrebbe essere possibile dover corrispondere cifre più alte per assicurarsi professionalità di adeguato livello. Se la natura derogatoria della norma da una parte esclude che essa possa venire estesa ad altre attività di interesse generale, dall’altra ha come conseguenza che il motivo per cui si ricorre alla deroga debba essere circostanziato, essendo a carico dell’Ente che la applica l’onere di giustificare come “solo il superamento del tetto retributivo rende possibile all’ETS l’acquisizione di una professionalità da ritenere oggettivamente necessaria ai fini dell’implementazione delle specifiche attività di interesse generale facoltizzate dalla norma, senza le quali non sarebbe possibile lo svolgimento delle attività medesime”. Insomma, deroga possibile laddove sia ben argomentata – con il supporto di adeguata documentazione, dal curriculum del lavoratore, alla delibera dell’organo che decide l’assunzione spiegando i motivi che portano ad avvalersi della possibilità di deroga – l’effettiva necessità “dell’elevato profilo di professionalità … senza le quali, pertanto, si genererebbe un pregiudizio alle attività di interesse generale sopra richiamate”.
L’effettiva sussistenza di condizioni che giustificano la deroga dovrà essere oggetto delle forme di controllo previste dal Codice (articoli 93 e 94), in specifico in sede di valutazione dei requisiti per l’iscrizione o il mantenimento nel Registro Unico; e laddove le giustificazioni fossero ritenute inconsistenti si determinerebbero, oltre alle conseguenze sull’Ente, le sanzioni per gli amministratori esplicitamente previste per la violazione del vincolo alla non distribuzione degli utili: “In caso di distribuzione, anche indiretta, di utili e avanzi di gestione, fondi e riserve comunque denominate… i rappresentanti legali e i componenti degli organi amministrativi dell’ente del Terzo settore che hanno commesso la violazione sono soggetti alla sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000,00 euro a 20.000,00 euro”.
Insomma, la Nota del Ministero intende richiamare ad una seria considerazione del vincolo alla non distribuzione degli utili e di conseguenza presidia in modo severo le norme poste a tutela del suo aggiramento, richiamando come esso rappresenti un aspetto fondativo della qualifica di ETS: “La maggiore entità della sanzione amministrativa, rispetto alle altre fattispecie di illecito tipizzate dal codice, evidenzia il particolare disvalore di tali condotte, in quanto minano alla radice un requisito fondamentale dell’ETS, l’assenza del fine lucrativo”, conclude la nota.
La previsione si applica a OdV e APS (e, per effetto dell’analoga disposizione d.lgs. 112/2017, a tutte le imprese sociali); gli enti considerati nella fase transitoria – sino alla completa operatività del Registro – di Terzo settore in quanto Onlus, sono invece tenuti a considerare la più restrittiva previsione dell’art. 10, comma 6, lettera e) del d.lgs. 460/1997, dove è preclusa una retribuzione superiore a quella contrattuale in misura non superiore al 20% (“Si considerano in ogni caso distribuzione indiretta di utili o di avanzi di gestione; […] la corresponsione ai lavoratori dipendenti di salari o stipendi superiori del 20 per cento rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi di lavoro per le medesime qualifiche”); tutto ciò sino all’esaurimento della fase transitoria, fino a quando quindi le misure fiscali del Codice non saranno autorizzate dalla Commissione europea e il Registro Unico non sarà pienamente operativo, con il conseguente superamento della qualifica di Onlus e il pieno riassorbimento delle organizzazioni così inquadrate entro il bacino del Enti di Terzo settore.
Il secondo tema riguarda le previsioni che mirano ad evitare che il lavoratore dell’Ente di Terzo settore sia sottopagato; l’art. 16 del codice prevede infatti che “I lavoratori degli enti del Terzo settore hanno diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81”. Questo tema è trattato in modo marginale nella nota del Ministero, salvo richiamare, come nel caso precedente, che il riferimento da cui non derogare sono in contratti collettivi di lavoro stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, comprensivi degli eventuali livelli di contrattazione territoriale o aziendale.
Sempre lo stesso articolo 16 del Codice introduce – e questo è il terzo tema trattato dalla nota – anche un criterio relativo alle differenze retributive; come si ricorderà il Codice ritiene incompatibile con lo spirito degli Enti di Terzo settore un’eccessiva distanza tra le retribuzioni più alte e più basse; nello specifico, il Codice prevede che “In ogni caso, in ciascun ente del Terzo settore, la differenza retributiva tra lavoratori dipendenti non può essere superiore al rapporto uno a otto, da calcolarsi sulla base della retribuzione annua lorda”. L’articolo 16 prevede altresì, a riprova della rilevanza attribuita a questo aspetto, che gli Enti del Terzo settore siano tenuti a dare “conto del rispetto di tale parametro nel proprio bilancio sociale” o, se non tenuti a presentarlo, nella relazione di missione. Al fine di computare tale criterio, precisa la nota, si fa riferimento alla retribuzione più bassa in essere presso l’Ente nel momento in cui si instaura il nuovo rapporto, con l’obbligo appunto di non superare il differenziale retributivo in misura superiore al rapporto uno a otto. Rispetto alla validità temporale della previsione vale il medesimo discorso di prima: tali norme debbono essere rispettate in tutti i rapporti di lavoro instaurati successivamente all’entrate in vigore del Codice.
Infine, il quarto tema affrontato nella circolare è quello contenuto nell’Art. 17, comma 5 del Codice, che afferma come la qualità di volontario “è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di lavoro retribuito con l’ente di cui il volontario è socio o associato o tramite il quale svolge la propria attività volontaria”. A tale proposito la questione affrontata dalla nota del Ministero riguarda il fatto che tale divieto comprenda o meno coloro che svolgano volontariato in modo occasionale, configurando una situazione per così dire “rovesciata” a quella che la norma disciplina: non il volontario che ambisca a svolgere in talune situazioni lavoro retribuito – chiaramente vietato – ma la persona che ha un rapporto di lavoro retribuito – poniamo il dipendente di una associazione – che sia disponibile in talune occasioni a operare a titolo di volontariato. La nota del Ministero evidenzia però che la disposizione del Codice non è tesa solo a salvaguardare la “purezza” dell’intento di chi opera a livello volontario, che quindi non deve avere al contempo rapporti di lavoro con lo stesso Ente, ma anche “assicurare la necessaria tutela del lavoratore da possibili abusi legati ad attività che non rispondono alle caratteristiche dell’azione volontaria”: in altre parole, evitare che chi è contrattualizzato da un Ente di Terzo settore come lavoratore venga poi forzato a svolgere prestazioni di volontariato solo formalmente spontanee, ma in realtà vere e proprie corvée pretese dall’ente per abbassare i costi aziendali. Di conseguenza, conclude la nota del Ministero, “alla luce delle superiori considerazioni, la sussistenza di qualsiasi forma di rapporto di lavoro con l’ETS preclude al lavoratore di svolgere attività di volontariato per il medesimo ETS”.
Approfondisci leggendo la Nota n. 2088 del 27 febbraio 2020, relativa agli artt. 8, comma 3, lettera b), 16 e 17 del Codice del Terzo settore.