Su questo sito, ci siamo già occupati dei rapporti intercorrenti tra gli istituti giuridici cooperativi di cui al Codice del Terzo settore e le previsioni contenute nel Codice dei contratti pubblici. In quell’occasione, si è avuto modo di evidenziare che, sebbene possano esserci similitudini tra le diverse procedure, esse mantengono una loro autonoma e indipendenza, in specie in ordine agli obiettivi che le medesime intendono raggiungere (cfr. questo mio articolo su Welforum).
Poiché non mancano gli esempi di procedure competitive “mascherate” da percorsi di amministrazione condivisa, anche prendendo spunto dal bell’articolo di Gianfranco Marocchi pubblicato su Impresa Sociale, si ritiene utile contribuire alla comprensione delle differenze che intercorrono tra appalti e co-progettazione, non sempre chiare nemmeno tra i commentatori.
Le pubbliche amministrazioni si trovano nella condizione di dover decidere “se e come” organizzare servizi, attività e interventi in modo diverso dall’impiego di proprie strutture, aziende e società (gestione c.d. in economia, a mezzo di aziende speciali, società miste ovvero società c.d. in house).
Infatti, la scelta diametralmente opposta alla gestione secondo le modalità sopra richiamate è individuata nella c.d. esternalizzazione, che consiste nell’affidamento della gestione di un servizio, di norma standardizzato, alla responsabilità di un soggetto erogatore/gestore, individuato ad esito di una apposita selezione pubblica di natura competitiva.
La procedura in parola permette alle pubbliche amministrazioni aggiudicatrici di affidare/assegnare la realizzazione di quel/quei servizi ad un unico operatore economico, selezionato sulla base dell’offerta economicamente più vantaggiosa. L’operatore economico selezionato si impegna ad adempiere alle obbligazioni dedotte nel contratto in un determinato arco temporale, che può essere anche rinnovabile, a fronte di un corrispettivo che l’amministrazione si obbliga a riconoscere.
L’affidamento (esternalizzato) di un servizio ovvero di un’attività attraverso il ricorso alle procedure ad evidenza pubblica di matrice concorrenziale rimane “altero” rispetto al modello di “amministrazione condivisa”, consacrato dall’art. 55 del Codice del Terzo settore. Si tratta degli istituti della co-programmazione, della co-progettazione e dell’accreditamento (libero).
Concentrando l’attenzione in questa sede soltanto sull’istituto giuridico cooperativo della co-progettazione, è opportuno (in questi casi, è bene non dare per scontato i passaggi relativi) richiamare la nota sentenza della Corte costituzionale n. 131 del 2020. Essa non solo ha richiamato all’alternatività degli istituti giuridici di cui al Codice del Terzo settore, ma ne ha altresì segnalato la capacità di valorizzare il “rapporto collaborativo” degli Enti del Terzo settore, in quanto portatori, unitamente alle pubbliche amministrazioni, di un interesse generale, da realizzarsi congiuntamente proprio con gli enti pubblici.
Anche allo scopo di comprendere le necessarie differenze tra procedure concorrenziali e procedure collaborative, è utile rimarcare per quale motivo i giudici costituzionali abbiano inteso identificare “la procedimentalizzazione del principio di sussidiarietà” (come è stato definito l’art. 55 del d. lgs n. 117/2017) quale alternativa al sistema degli appalti. La ragione deve ricercarsi nel fatto che la co-progettazione rappresenta “un canale di amministrazione condivisa, alternativo a quello del profitto e del mercato: la «co-programmazione», la «co-progettazione» e il «partenariato» (che può condurre anche a forme di «accreditamento») si configurano come fasi di un procedimento complesso espressione di un diverso rapporto tra il pubblico ed il privato sociale, non fondato semplicemente su un rapporto sinallagmatico.”
Ed è proprio sull’assenza genetica di corrispettivi e prezzi riconosciuti quali controprestazioni di un facere da parte del soggetto non lucrativo che si fonda la distanza tra i due modelli che le pubbliche amministrazioni possono adottare. Perché di possibilità si tratta: invero, l’ente pubblico non è obbligato a ricorrere agli istituti giuridici di natura collaborativa, nemmeno qualora, in linea teorica, si trovi di fronte alla necessità di disciplinare la gestione di un servizio sociale (cfr. Tar Parma, Sez. I, 18 ottobre 2022, n. 294).
La scelta delle pubbliche amministrazioni di attivare percorsi di amministrazione condivisa deve considerarsi quale alternativa rispetto alla funzione di committenza pubblica, che definisce le decisioni degli enti pubblici allorquando essi si trovino nelle condizione/necessità di acquistare prestazioni e servizi sul mercato degli operatori economici. Detta alternativa, che rappresenta – è anche in questo caso utile ricordarlo in questa sede – un’opzione politico-amministrativa, frutto, pertanto, di una decisione finalizzata ad instaurare un modello alternativo a quello di mercato, muove dal riconoscimento degli enti del terzo settore quali soggetti idonei ad operare per la cura di interessi generali, che, per se, non è riconducibile ai canoni contrattualistici, ma collocabile nella vasta area degli accordi collaborativi.
In questa prospettiva, è dunque possibile affermare che gli istituti giuridici di cooperazione esprimono un favor esplicito nei confronti del coinvolgimento attivo delle organizzazioni non profit, in quanto queste ultime sono espressamente costituite per perseguire finalità di interesse generale in termini solidaristici. Ciò permette di leggere e interpretare tutte le forme relazionali tra pubbliche amministrazioni e soggetti non lucrativi non esclusivamente attraverso il principio europeo di tutela della concorrenza, atteso che, proprio a livello comunitario, altri principi, quali quello di solidarietà e della coesione e integrazione sociale definiscono l’azione precipua degli enti pubblici e degli enti non profit.
Finalità e modalità di perseguimento delle finalità medesime non escludono, tuttavia, che l’attività di interesse generale svolta sia priva di metodo economico, ossia non sia orientata a compensare i costi con i ricavi. I ricavi eventualmente conseguiti nello svolgimento dell’attività devono essere investiti nell’organizzazione solidaristica e, quindi, vincolati al perseguimento dello scopo statutario dello specifico ente non lucrativo. Da ciò discende che il paradigma solidaristico si contrappone alle logiche di mercato, dalle quali si differenzia non soltanto per origine, ratio e finalità, ma anche (e, necessariamente) in ragione delle diverse procedure amministrative adottate, fondate sul concetto di amministrazione condivisa.
Nel contesto sopra delineato, gli istituti giuridici cooperativi disciplinati dal Codice del Terzo settore esprimono un modo diverso dell’essere amministrazione pubblica e, conseguentemente, rappresentano le scelte operative attraverso cui il modello dell’amministrazione condivisa o collaborativa trova concreta applicazione. L’art. 55 del d. lgs. n. 117/2017, inserito nel Titolo VII, rubricato “Dei rapporti con gli enti pubblici”, rappresenta la “disposizione-manifesto” degli istituti collaborativi: in esso sono contemplati i principi cui gli istituti in parola devono conformarsi, le azioni, le procedure e le modalità di realizzazione e implementazione di quei principi, nonché i soggetti non profit “abilitati” a collaborare e cooperare con gli enti pubblici.
I principi di cui sopra risultano coerenti e applicabili ai rapporti giuridici non di natura competitiva intercorrenti tra pubbliche amministrazioni ed organizzazioni non profit, atteso che queste ultime si attendono che l’azione della pubblica amministrazione, con la quale essi sono chiamati a collaborare per garantire i livelli essenziali delle prestazioni sociali e civili ex art. 117, comma 2, lett. m) Cost., valuti con attenzione gli obiettivi e i mezzi per perseguirli, le risorse da allocare agli interventi da realizzare, nonché identifichi le procedure ritenute più idonee e adeguate per realizzare finalità di natura solidaristica.
Alla luce del contesto sopra delineato, l’art. 55, sia per i richiami espressi alla disciplina sul procedimento amministrativo sia in ragione degli obiettivi che i diversi istituti giuridici ivi contemplati intendono realizzare, non può rappresentare una “variazione sul tema” degli affidamenti / appalti. Anzi, è opportuno segnalare che proprio il tenore letterale della disposizione in oggetto contempla la sola eventualità che la co-progettazione, nel caso di specie, possa realizzare un servizio ovvero un intervento.
I due “modelli” possono invero presentare taluni punti di contatto sotto il profilo procedurale, ma essi non risultano sufficienti a ricondurre gli istituti giuridici cooperativi nell’alveo delle procedure competitive, atteso la loro diversità ontologica e teleologica. Quando, al momento della scelta da operare da parte delle pubbliche amministrazioni, non si ha chiara questa distinzione, si rischia di inquinare, per così dire, i percorsi collaborativi e di sterilizzare le innovazioni, anche di natura giuridico-amministrativa, apportate dal Codice del Terzo settore. In questo senso, le Linee guida adottate dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali in materia di co-progettazione (D.M. 72/2021) hanno ribadito come la co-progettazione permetta di individuare un “canale” di cooperazione tra ETS e pubblica amministrazione “alternativo a quello del profitto e del mercato” e capace di superare il tradizionale rapporto sinallagmatico. Di qui, la piena legittimità di rapporti che non si fondano unicamente sulla relazione di scambio tra prestazioni erogate dagli ETS e corrispettivi previsti e versati dalla P.A.
Nella prospettiva sopra delineata, la co-progettazione costituisce dunque una scelta consapevole delle pubbliche amministrazioni, che possono individuare in questa specifica procedura, ormai “sdoganata” non soltanto dal Codice dal Terzo settore, ma anche dalla Corte costituzionale, dai giudici amministrativi, dalla regolamentazione ministeriale e, da ultimo, anche dalle Linee guida ANAC del 27 luglio 2022, la modalità ordinaria per coinvolgere attivamente gli enti del terzo settore nella realizzazione di obiettivi di interesse generale.
La legittimazione della co-progettazione rende questa particolare modalità di partenariato pubblico-privato non profit coerente con le finalità che le pubbliche amministrazioni intendono conseguire nella valorizzazione dell’apporto originario degli enti del terzo settore, che ne dovrebbe pertanto evitare un impiego alla stregua di escamotage cui fare ricorso per evitare le procedure competitive di mercato.
La dignità dell’istituto giuridico della co-progettazione è tale, infatti, che le pubbliche amministrazioni sono sollecitate a prestare la massima attenzione affinché non se ne offrano letture distorte o svilenti, che contribuiscono soltanto a rendere meno chiaro il coinvolgimento e, quindi, il contributo degli enti del terzo settore, così come individuato dalla Riforma del Terzo settore.