Come cambia l’accoglienza un anno dopo il ‘decreto sicurezza’
Mattia MessenaSilvia LuraschiSilvia Pitzalis | 19 Dicembre 2019
È trascorso poco più di un anno dalla pubblicazione del “Decreto Sicurezza” e del Nuovo Schema di Capitolato, scelte politiche che hanno monopolizzato il dibattito pubblico sulle migrazioni, legandole sempre più a questioni di sicurezza, decoro e merito. Questo articolo si concentra sul lavoro nell’accoglienza rivolta alle persone richiedenti asilo e rifugiate evidenziando, attraverso la voce delle operatrici e degli operatori, il cambiamento radicale del suo significato.
La riduzione del budget per l’accoglienza CAS
Il Decreto “Sicurezza” non è l’unica espressione dell’orientamento politico dell’ultimo periodo. Il Nuovo schema di capitolato – ha tagliato drasticamente il budget messo a disposizione degli enti gestori dei CAS. Sono state eliminate le misure di integrazione sociale e ridotti molti servizi, ritornando ad un modo di fare accoglienza vecchio e superato, quello dei grandi centri sovraffollati, che non è venuto meno durante il governo Conte 2.
Il caso dell’ex-Hub in via Mattei a Bologna risulta esemplare. All’inizio di giugno 2019, su ordine del Ministero dell’Interno, la Prefettura annuncia la chiusura della struttura. Fino all’estate del 2019 questa era un Centro temporaneo per persone richiedenti asilo in attesa di essere collocati nei CAS o negli ex-SPRAR presenti sul territorio, in carico alla Prefettura. L’Hub Mattei negli ultimi tre anni ha conosciuto un progressivo svuotamento, passando da più di duemila persone accolte – nei picchi tra il 2016-2017 – a poche centinaia nel 2019.
La mattina del 7 giugno del 2019 il Ministero dell’Interno dà ordine di trasferire le 200 persone ancora presenti nella struttura nel Cara di Pian del lago a Caltanissetta (Sicilia). L’11 giugno si organizza, grazie anche all’utilizzo dei social-media, un gruppo di protesta davanti al Centro: si porta avanti un picchetto davanti al Mattei e, contemporaneamente, organizzando competenze e professionalità, si crea uno sportello di tutela legale. Dopo ore di presidio, informative e comunicazioni, la Prefettura e il Comune di Bologna accettano un tavolo con alcuni rappresentanti del gruppo in protesta. Verso sera si porta a casa un risultato: le persone che hanno opposto resistenza al trasferimento (lo hanno accettato solo in circa 35) hanno ottenuto di essere redistribuite nei CAS del territorio.
Il centro Mattei rimane chiuso per ristrutturazione – causando la perdita del lavoro a 35 persone – fino agli inizi di novembre 2019, quando la struttura viene riaperta sotto una nuova veste: “Centro governativo di accoglienza”, con 200 posti e i servizi di mero vitto e alloggio. La responsabilità diretta è della Prefettura. Su ordine di quest’ultima i CAS del territorio bolognese sono stati svuotati e le persone ospitate, trasferite al Mattei.
Le ripercussioni di questa operazione si sono avute, oltre che nella vita delle persone accolte, anche nella vita delle lavoratrici e dei lavoratori dell’intero sistema di accoglienza bolognese. Una delle principali cooperative sociali che aveva in gestione la maggior parte delle strutture CAS nel territorio è rimasta con un esubero di circa 41 lavoratori e lavoratrici.
Questa decisione ha prodotto diverse proteste davanti alla Prefettura. Il 5 dicembre del 2019 un presidio di circa quaranta persone – insieme ai sindacati Cgil, Cisl, Uil, Usb e Adl Cobas – si è dato appuntamento davanti alla sede degli uffici della città metropolitana di Bologna, in occasione del tavolo di salvaguardia sulla crisi occupazionale dell’accoglienza. Il tavolo è durato circa due ore: grazie alle pressioni dei sindacati e delle lavoratrici in rappresentanza al tavolo, gli esuberi si sono ridotti al di sotto di 5 ed è stato istituito un tavolo di monitoraggio sul tema dell’accoglienza.
Ma la situazione non è stata risolta definitivamente: molti progetti (ex-)SPRAR termineranno il 31/12/2019 e altri a fine 2020: il problema si ripresenterà presto. Il caso di Bologna è esemplare del fatto che l’emergenza lavorativa e la tutela dei diritti riguarda tutte le persone coinvolte nell’accoglienza, migranti e lavoratrici.
Le narrazioni politiche e il lavoro nell’accoglienza
Se la perdita dei posti di lavoro per operatori e operatrici è una conseguenza lineare della ristrutturazione del sistema d’accoglienza, sul piano delle pratiche lavorative non è l’unico colpo accusato dai lavoratori e dalle lavoratrici del settore. Parlando con Barbara1, operatrice di un progetto ex-SPRAR – dopo averci spiegato quanto il fenomeno migratorio sia cambiato negli ultimi anni inasprendo la portata traumatica delle esperienze migratorie e quindi anche la necessità di intervenire in modo più competente e puntuale – ci racconta: «La difficoltà del lavoro non è tanto l’utenza con cui noi siamo abituati a interfacciarci, ma è una resistenza che abbiamo da fuori. È questa la cosa più terrificante, perché gli operatori non hanno nessun problema anche a fare le venticinque ore in più quando necessario [ndr]. Però, dopo aver fatto le venticinque ore in più torni a casa e ti dicono: “Che cosa lo fai a fare, che tornino tutti al loro Paese”, allora a un certo punto ti dici: ma qual è il punto?».
Il punto è che c’è un altro aspetto, meno concreto ma altrettanto importante, che dev’essere considerato. I cambiamenti nelle pratiche di accoglienza si accompagnano a particolari narrazioni circa il fenomeno migratorio che non restano di certo neutre nel loro impatto sull’opinione pubblica. Come viene messo in evidenza nell’introduzione del rapporto Carta di Roma relativo al 2018, emblematica è stata l’espressione “è finita la pacchia” usata in diverse dichiarazioni da parte dell’ex-Ministro dell’Interno per riferirsi alle condizioni delle persone migranti e per connotare gli esiti della sua azione politica. L’espressione costituisce una chiara distorsione della realtà che, semplificando estremamente un fenomeno invece molto complesso e sfaccettato, ha fatto leva sulla contrapposizione tra i gruppi sociali di chi fa parte della categoria “migrante” e chi è cittadino/a italiano/a. La supposizione che in Italia le persone migranti (peraltro criminalizzate genericamente come clandestini/e) facciano una vita facile alle spalle delle/degli italiane/i non ha solo l’effetto di inasprire l’opposizione verso l’accoglienza, ma agisce anche sulle rappresentazioni che le persone si fanno del lavoro nell’accoglienza. Continua Barbara: «Io sono passata, anche a livello delle mie reti amicali, da quella che fa il lavoro più figo del mondo, perché lavora con i rifugiati, alla zecca buonista che si intasca i trentacinque euro al giorno. E l’ho proprio visto questo passaggio!».
La linea politica ostentatamente securitaria e dichiaratamente intransigente dell’ultimo anno non sta avendo solo ricadute sul futuro delle persone migranti, ma pone rilevanti criticità anche in merito al riconoscimento del lavoro degli operatori e delle operatrici. L’investimento di risorse che negli anni precedenti è stato fatto verso un sistema di accoglienza diffusa e integrata sul territorio sembrava andare nella direzione di ottimizzare i benefici sia per le persone migranti sia per la società ospitante. Col Decreto e il Nuovo schema di capitolato si è sicuramente tornati indietro, peggiorando la situazione.
Conversare per “guardare le cose da tutte le angolazioni possibili”
Dal punto di vista educativo, i discorsi di banalizzazione e omologazione riguardante il fenomeno migratorio nei quali siamo immersi riducono la possibilità di ascolto e apprendimento reciproco. Tale riduzione non ci permette di acquisire uno sguardo complesso, dove ciascun individuo cresce attraverso rapporti di reciprocità con gli altri che sono spesso opachi e incerti.
A partire da queste premesse incontriamo Franca2 nella sede della cooperativa sociale della quale è socia lavoratrice dal 2000. La conversazione si svolge nella sala riservata ai colloqui degli uffici della struttura situata nell’area industriale di un comune della città metropolitana di Milano. Qui, il lavoro è intenso perché negli anni le attività socio-educative si sono ampliate fino a essere presenti nel territorio di tre province: Lecco, Milano e Monza Brianza. Allo stesso tempo, sono cresciuti esponenzialmente anche i livelli di burocratizzazione tanto da richiedere un quotidiano e meticoloso lavoro di back-office. Attualmente Franca si occupa del coordinamento dell’area migranti e questo 2019 è stato per lei un anno di grandissima incertezza. Con franchezza dice che quando è uscito il nuovo bando per il capitolato dei centri d’accoglienza ha dovuto “farci i conti” economici ed emotivi: calcolatrice alla mano, è stato immediato capire che il taglio dei servizi non permettevano di partecipare al bando, quando invece è stato molto complesso prendere coscienza che più di 40 colleghe/i rischiavano di perdere il lavoro a causa di questa scelta obbligata. Trovare una soluzione con/per loro, oltre che per le persone presenti in accoglienza, è quello che, racconta corrugando le sopracciglia e usando il plurale: «abbiamo cercato di fare in questi mesi» attraverso la creazione di un contratto di prossimità. Franca parla al plurale perché sostiene che «per quello che mi riguarda il posto di lavoro è una casa» popolata da tante persone diverse dove «si impara tutti i giorni» perché, continua: «ogni volta che incontro una persona, comunque ti porta qualcosa».
Lavorare al coordinamento dell’area migranti è stata per lei – dopo un variegato percorso di attività nel territorio a favore delle famiglie con disagio abitativo e degli anziani – una possibilità di continuare a praticare una metodologia di lavoro prettamente educativa basata sulla conversazione e, dunque, sull’incontro della fisicità dell’altro per guardare le cose, racconta, «con altri occhi». Attraverso le diversità di lingua, gestualità, abitudini sostiene di aver imparato a «guardare le cose da tutte le angolazioni possibili».
La sua esperienza mostra come il lavoro in ambito multiculturale affini le capacità di ascolto e la qualità della presenza dell’operatore/operatrice e dell’attenzione alla quotidianità, indispensabile per non appiattirsi a un approccio burocratico – schiacciato sulle procedure – e per continuare a rivedere le pratiche e le consuetudini che possono diventare automatiche con il passare del tempo. Ogni dettaglio, ogni storia, ogni gesto assume un significato che parla della relazione tra operatori/operatrici e ospiti dei centri d’accoglienza; perché ciò che definisce il lavoro educativo è la capacità di tutte/i – operatori e ospiti – di prendersi cura dello sviluppo di tutte/i (anche di quello degli operatori/trici!). Tale capacità non si definisce in astratto, ma si sperimenta attraverso le conversazioni quotidiane e l’incontro concreto tra le persone.
Conclusioni
Come bene evidenziano i casi riportati, la riduzione del budget e l’aumento del numero di persone ospitate per singola struttura sta producendo, sicuramente, conseguenze negative sulla qualità dell’accoglienza – ma anche sulla qualità del lavoro in queste strutture.
Secondo una stima della Fp Cgil, su 40 mila persone impiegate nel sistema di accoglienza circa il 40% verrà licenziato o non vedrà rinnovato il suo contratto. Saranno circa 18 mila le persone che perderanno il lavoro, personale prevalentemente giovane (sotto i 35 anni), femminile e iper-specializzato.
Il sistema di accoglienza nel territorio italiano si presenta variegato, con esempi sicuramente negativi. Tuttavia negli ultimi anni alcune realtà avevano tentato di strutturare una tipologia di “accoglienza diffusa” che, da un lato, evitava la concertazione massiva delle persone richiedenti in strutture sovraffollate; dall’altro promuoveva la loro integrazione, costruendo percorsi di autonomia grazie ad una efficace conoscenza del territorio locale. Per quanto indubbiamente perfettibile e limitato ad alcuni contesti, si è provato a sviluppare un sistema di accoglienza più attento alle esigenze non solo delle persone accolte ma anche delle lavoratrici e dei lavoratori, dei territori che accolgono queste strutture e della cittadinanza. Seppur numericamente esigue, queste esperienze, anziché essere valorizzate e usate come modello per un reale miglioramento del sistema di accoglienza, sono state completamente cancellate dal Decreto e dal Nuovo Capitolato.