Come prepararsi ad accogliere migranti


Francesca Pruiti Ciarello | 23 Novembre 2017

In questi ultimi anni migliaia di persone provenienti da luoghi lontani e da culture differenti sono entrati in contatto con il nostro Paese, le nostre strutture, le nostre istituzioni e con operatori e professionisti cui è affidato il compito di accompagnarli nel processo di integrazione sociale. Secondo i dati pubblicati dall’UNHCR tra il 1 gennaio e il 31 dicembre 2016 sono sbarcate in Europa 361.678 persone, di cui 181.405 in Italia e 173.447 in Grecia.

 

Nello stesso tempo, per motivi che qui non vi è spazio di approfondire, il nostro sistema dei servizi alla persona sta subendo dei profondi cambiamenti e, in alcuni ambiti, anche dei ridimensionamenti; ed è utile chiedersi se e in che modo esso sia in grado di rispondere positivamente alle nuove esigenze che vengono espresse da chi, pieno di aspettative, giunge nel nostro Paese.

Questo interrogativo si pone per una pluralità di soggetti, compresi quelli sino ad oggi lontani dall’ambito dei servizi alla persona come le numerose strutture alberghiere che, in crisi da anni, si sono riconvertite nell’accoglienza dei migranti, offrendo generalmente un servizio di vitto e alloggio, spesso, probabilmente, senza avere maturato vocazioni e professionalità coerenti con l’obiettivo di offrire possibilità di integrazione sociale o accompagnamento adeguate.

Ma si pone anche – e di questo si tratterà in questo articolo – per le organizzazioni di terzo settore che per necessità o per virtù hanno convertito propri servizi per la nuova utenza: in che misura le competenze acquisite in servizi dedicati a fasce di popolazione portatrici di altri bisogni (tossicodipendenti, persone con disagio psichico, persone con disabilità, minori, …), possano essere trasferite in modo immediato nei servizi che accolgono persone con bisogni differenti, quali i migranti?

 

Questa situazione è tutt’altro che infrequente, se si pensa che taluni ambiti consolidati vanno incontro a riduzioni e le organizzazioni di terzo settore sono quindi portate, per salvaguardare l’occupazione e la propria presenza sul territorio, a spostare professionalità ed energie sull’accoglienza.

Ma la “riconversione” di operatori e competenze organizzativa dalla presa in carico di un’utenza ad un’altra non è un processo né facile né scontato e deve misurarsi, oltre che con tutte le fatiche di ogni processo di riorganizzazione, con alcuni problemi peculiari legati alla specificità dell’utenza che viene da altri Paesi.

 

Se da un canto le organizzazioni (e gli operatori) che hanno maturato esperienza nell’ambito dei servizi alla persona non si trovano a “ripartire da zero” e possono “tradurre” l’esperienza maturata nella gestione di nuovi servizi, dall’altro non bisogna trascurare che la scelta di intraprendere un nuovo ambito di attività, determinata dall’esigenza di continuità occupazionale degli operatori o da strategie di sopravvivenza e/o di espansione dell’organizzazione, impone la necessità di aggiornare le professionalità e rinnovare la struttura organizzativa per realizzare un servizio adeguato.

 

Alcuni elementi, inoltre, contribuiscono a rendere tale “conversione” più complessa. Per fare solo tre esempi di situazioni non comuni alla maggioranza degli altri servizi, e che è necessario gestire al meglio quando ci si occupa di migranti: 1) rispetto ai destinatari, si tratta di relazionarsi con donne, uomini, minori non accompagnati ed interi nuclei familiari, che portano con sé forti speranze e che spesso devono scontrarsi con le frustrazioni nel momento dell’impatto reale con il nuovo contesto in cui giungono (e con l’inevitabile crollo delle proprie aspettative); 2) dal punto di vista del contesto sociale si tratta di impegnarsi in servizi che rischiano di essere circondati da resistenze e impopolarità; 3) La presa in carico e gli aspetti progettuali devono tener conto del contesto normativo in cui collocare i percorsi di integrazione degli utenti e dei tempi di attesa dettati dalle leggi vigenti, che rappresentano la maggiore fonte di insofferenza per gli ospiti.

 

Inoltre, può risultare riduttivo il tentativo dell’operatore di ricondurre le situazioni in cui si trova a lavorare a quelle note e già affrontate in altri servizi Ad esempio chi è abituato a lavorare con i minori, in comunità alloggio o in un centro giovanile, deve considerare che i ragazzi con cui lavora in una comunità per Minori Stranieri Non Accompagnati hanno probabilmente passato durante il viaggio esperienze di vita (e di morte) che li rendono profondamente diversi dai pari età con i quali l’operatore ha accumulato esperienza.

Insomma, oltre a dover reinventarsi in un “nuovo mestiere” le organizzazioni devono farlo in una situazione che presenta criticità aggiuntive di cui è necessario tenere adeguatamente conto.

 

Rimandando ad un altro articolo (Francesca Pruiti Ciarello, Come prepararsi quando si accolgono migranti, in Welfare Oggi 4/2017, pagg. 82-90) per gli approfondimenti specifici per ciascuna figura professionale (i titoli richiesti dalla legge, i requisiti necessari per lo svolgimento del proprio ruolo, gli ambiti di approfondimento formativo tecnico-pratico e rischi da fronteggiare), in questo articolo mi limito per motivi di spazio a delineare alcune linee guida sulla formazione di base che ogni professionista, a prescindere dal ruolo specifico assunto all’interno dell’equipe professionale, deve possedere, e di quali strumenti le organizzazioni possono fornirsi per poter attuare al meglio la trasformazione dei propri servizi.

Il primo dato è che, sulla base di quanto detto, tutto il personale impiegato nei servizi (coordinatori, assistenti sociali, psicologi, operatori legali, ausiliari, operatori dell’accoglienza e dell’integrazione, educatori ecc…) non deve dare per scontata la presenza di competenze per il solo fatto di operare da anni nel sociale, e necessita invece di un aggiornamento sia teorico che pratico sugli strumenti e le modalità di relazione con tale specifica utenza.

È fondamentale la conoscenza delle normative del settore immigrazione e delle caratteristiche dei flussi migratori, delle situazioni politiche e culturali dei Paesi di provenienza e l’acquisizione di strumenti adeguati alla lettura dei bisogni specifici dell’utenza.

Non solo i coordinatori, gli educatori, gli assistenti sociali, gli psicologi ed operatori legali si ritrovano a dover ampliare le proprie competenze e aggiungere ad esse specifici strumenti operativi e nuove chiavi di lettura dei bisogni. Ma tale esigenza riguarda anche il personale ausiliario ed i vigilanti diurni e notturni che – in una situazione per la quale non è richiesto loro alcuni titolo – spesso partono da un livello di conoscenze inadeguato. In assenza di un ruolo ben definito, finiscono per trovarsi in balia delle “interpretazioni libere da parte degli utenti”, divenendo per loro talvolta dei “genitori”, nel “transfert” parentale di accudimento dei caregiver perduti; talvolta dei “pari” a cui chiedere eccezioni alle regole; talvolta i “guardiani” che impediscono la loro libertà, nel caso dei vigilanti notturni ad esempio. Per queste ragioni risulta prioritario dedicare degli spazi formativi a tutta l’equipe e curare il coinvolgimento di tutte le professionalità presenti nell’équipe e nella complessa gamma delle attività volte all’accoglienza ed integrazione degli ospiti e alla condivisione dei compiti e delle responsabilità.

Per le organizzazioni che decidono di “trasformare” servizi ed equipe prima dedicati ad altri destinatari per l’accoglienza dei migranti, al di là delle iniziative formative e di supervisione comuni alle professioni sociali, è opportuno prevedere uno spazio formativo specifico volto a preparare le equipe alla gestione dei livelli di burnout e stress lavoro-correlato, per prevenire alti livelli di turn over degli operatori nei servizi, e abbandoni da parte dei responsabili in difficoltà a gestire le strutture.

Di ciò devono avere consapevolezza in primo luogo i dirigenti, che, forti dell’esperienza pregressa in altri servizi, ritengono di essere preparati alla gestione, salvo poi trovarsi a affrontare dinamiche esplosive con il personale, gli ospiti e le comunità locali, con rischi di decadimento dei livelli di servizio, di perdita della mission dell’organizzazione, di deterioramento dell’immagine propria e in generale di chi fa accoglienza.

 

Risulta fondamentale che la formazione parta dai livelli dirigenziali e venga trasmessa alle équipe, strutturando percorsi interni di formazione continua e promuovendo la partecipazione a percorsi specializzanti esterni.

Alla formazione continua ed ai necessari corsi di aggiornamento e approfondimento tecnico, va affiancato un percorso di supervisione mensile, quale valido strumento per la gestione in qualità e sicurezza dei servizi resi. La supervisione rappresenta infatti uno spazio di ascolto e “decantazione” dei vissuti degli operatori, offre un ambito “protetto” di riflessione e confronto di gruppo, mira al miglioramento delle modalità operative impiegate dall’equipe, al mantenimento dei livelli motivazionali al lavoro, alla prevenzione del burnout e soprattutto alla formazione continua degli operatori; consente inoltre la condivisione dell’approccio metodologico tra le diverse figure professionali, la definizioni di ruoli e compiti dei singoli operatori, il perfezionamento degli strumenti e delle procedure operative.

Approfondimenti formativi, cura della macchina organizzativa, rispetto dell’utenza e preparazione del personale sono elementi imprescindibili per il perseguimento efficace degli obiettivi di presa in carico a cui si è chiamati a rispondere.