Eccole qui, queste “mosse”, in sintesi:
1. Da alcuni anni nel welfare pubblico si moltiplicano le situazioni nelle quali risorse finanziarie vengono veicolate tramite bandi, ossia prevedendo da parte di una amministrazione una finestra temporale entro la quale possibili interessati devono presentare adesioni e/o progetti, con finanziamenti che sono subordinati all’approvazione e (quasi sempre) a termine. È una modalità molto diffusa, tramite la quale Regioni, Aziende Sanitarie, Comuni o Enti gestori dei servizi sociali possono accedere a finanziamenti, di norma dedicati a specifici progetti, dell’Unione Europea, e/o statali, e/o Ma “ricevere risorse e procedere per bandi” quali criticità produce nel sistema dei servizi? Almeno due:
- quasi tutti i governi locali dedicano apposito personale alla funzione di ”cacciatori di bandi”, unica chance per non perdere opportunità, che però distoglie risorse umane;
- il governo locale deve programmare le sue attività cercando o di ricomporre il puzzle dei flussi di risorse che riceve dai diversi bandi (peraltro in tempi differenti) oppure deve attivare interventi che tendenzialmente sono tra loro separati, ciascuno essendo finanziato in base ad una specifica partecipazione ad un diverso bando. Ne esce molto indebolita la possibilità di un governo locale che programmi organicamente cosa fare a partire da un budget unitario che sia destinabile in modo flessibile a diverse azioni1.
2. Sempre in tema di risorse finanziarie è frequente la situazione nella quale i finanziamenti arrivano al governo locale dei servizi in tempi molto diversi entro l’anno finanziario di gestione, e in ritardo rispetto all’inizio dell’anno. Sia perché le risorse che si ricevono in esito a bandi hanno ciascuna i suoi tempi di erogazione, sia perché in molti casi lo stesso Fondo Nazionale Politiche Sociali, (che dalla Stato va alle Regioni, che poi lo fanno pervenire agli enti gestori dei servizi sociali) arriva all’utilizzatore finale molti mesi dopo l’inizio dell’anno. Il che costringe i governi locali, nei mesi che precedono l’arrivo del fondo per l’anno in corso, o a spendere soltanto in dodicesimi mensili ciò che si era speso l’anno precedente, oppure a ricorrere a mutui.
Dunque 1) e 2) non solo minano un governo locale in grado di scelte (e spese) che siano organiche e pianificate per tutto l’anno sin dall’inizio, ma costringono ad acrobazie finanziarie e richiedono non poche capacità equilibristiche. Meriterebbe dunque maggiore attenzione non solo il tema di “quante sono” le risorse, ma anche quello di “come arrivano ai gestori finali”.
3. Il contenuto dei LEA (i livelli essenziali di assistenza sanitaria e sociosanitaria) merita importanti revisioni, ad esempio per superare la assurda differenza del concorso di risorse del SSN quando lo stesso non autosufficiente è ricoverato in RSA (dove il SSN paga metà della retta) e quando invece riceve assistenza tutelare al domicilio (per la quale il SSN non impegna sue risorse).
Ma il contenuto dei LEPS (i livelli essenziali di assistenza sociale) ha anche altre criticità:
- negli ultimi anni sono stati introdotti LEPS in modo molto sporadico e frantumato nel tempo, accumulandone man mano diversi in tempi successivi, e con atti normativi anche molto differenti2. Tanto che adesso non è per nulla agevole disporre di una mappa completa del LEPS vigenti. Ed anche i processi per rendere operativi quei LEPS (ad esempio tramite la definizione di precisi “Obiettivi di servizio” annuali) è tutt’altro che completa e ordinata. Va peraltro ricordato che la legge di bilancio per l’anno 2023 (la 197/2022 all’art.1, commi 791-801) ha previsto di avviare il percorso di determinazione dei “livelli essenziali delle prestazioni” (LEP), ai sensi dell’art.117 secondo comma lettera m) della Costituzione, istituendo una “cabina di regia” composta dai Ministri competenti per materia. E ciò anche come premessa alla messa in opera della crescita delle autonomie regionali avviata dal disegno di legge presentato dal ministro Calderoli;
- né va dimenticato che alcuni LEPS hanno natura veramente curiosa: il Piano Nazionale degli interventi e servizi sociali 2021/2023, nelle ultime due pagine del punto 2.7.3, prevede che spetta ai servizi sociali (e ad esclusivo carico dell’ente locale) garantire la gestione h24 di posti letto per persone senza dimora o con precarietà abitativa dopo la loro dimissione dall’ospedale, durante la loro convalescenza, e dunque mentre devono ricevere motivati trattamenti sanitari post ricovero, e non solo perché devono trovare un luogo di ospitalità. Spettano al SSN solo visite mediche o infermieristiche, e fornitura dei farmaci. Dunque si tratta di posti letto che oggi afferiscono completamente al SSN, nella rete dei presidi di ricovero temporaneo post ospedaliero (denominati variamente nelle diverse Regioni). Il testo (definendo i beneficiari a pag. 63) produce l’effetto che per le persone senza dimora, o in precarietà abitativa, si devono creare dei posti letto post ospedalieri totalmente a carico dei servizi sociali, nonostante siano setting (come è esplicitamente previsto nel testo) dedicati “a convalescenza e stabilizzazione delle condizioni di salute”. A parte la stranezza di attivare una rete di strutture post ospedaliere per questo tipo di persone che è diversa da quella per tutti i cittadini, appare veramente bizzarro che la loro gestione sia solo a carico dei servizi sociali.
La modalità di normazione caotica e dei LEPS diventa quindi un altro vulnus alla possibilità di un governo locale dei servizi in quanto gli assegna nuove funzioni (e per di più col rango di LEP) per accumulazione progressiva discontinua, facendogli ricevere LEPS in momenti diversi, e spesso senza chiarezza delle risorse ad esse destinate.
4. In questo sito sono già stati pubblicati diversi contributi per esplorare le criticità che possono derivare dall’obiettivo dell’attuale Governo (avviato con la legge delega proposta dal ministro Calderoli) di aumentare l’autonomia delle singole Regioni3. Se lo scenario che si profila condurrà ad un rilevante aumento delle differenze dei servizi locali offerti ai cittadini (ad esempio sanitari e sociali) ne deriverà la crescita di diseguaglianze nei diritti esigibili agli interventi, e l’aumento di un fenomeno già oggi assai problematico: che pur in presenza di “livelli essenziali delle prestazioni” normati in sede nazionale, in realtà il welfare pubblico consista in reti di interventi molto diverse nelle diverse regioni, sino a configurare di fatto il cittadino come fruitore di “diritti solo regionali o locali”, e dunque anche strutturalmente e giuridicamente assai più deboli.
5. Esistono nelle politiche sanitarie, sociosanitarie e sociali questioni con queste due caratteristiche compresenti:
- sono temi molto rilevanti per i cittadini, e importanti per poter definire con precisione e completezza il sistema delle prestazioni;
- ma al contempo sono o trascurati nella normativa (e spesso anche nel dibattito tecnico e politico), oppure volutamente affidati solo a scelte locali, anche dei governi sub regionali.
Solo alcuni esempi:
- la definizione dei meccanismi con i quali gli utenti dei servizi socioassistenziali e sociosanitari devono contribuire al costo delle prestazioni, ad esempio per pagare la retta in RSA, o contribuire al costo del servizio di assistenza domiciliare;
- i criteri da adottare per utilizzare l’ISEE nel valutare la condizione economica di chi riceve interventi (di varia natura) e dedurne i volumi di prestazione da erogare o le contribuzioni a carico dei fruitori.
E questi due esempi sono anche snodi da non eludere nella prevista messa in opera delle due leggi delega di riordino dei servizi per disabili (la legge n° 227 del 2021) e per anziani (la legge n° 33 del 2023). Pur essendo, come prima si segnalava, temi che le due leggi nemmeno sfiorano, e che oggi sono o regolati da atti regionali (ma in pochissime regioni), o rimessi alle scelte di Comuni e ASL. Se ne occuperanno i decreti delegati che devo essere emanati per dar corso alle due leggi delega?
Diverse ragioni possono concorrere a connotare in questo modo snodi importanti, come la sottovalutazione del loro rilievo come ingredienti nel sistema dei servizi, oppure (quando si decida di affidare al solo governo locale le scelte) la tentazione di “… passare il cerino acceso di decisioni delicate” all’ultimo anello delle istituzioni pubbliche, ossia ai Comuni e loro Enti gestori, magari colorando questa tentazione con motivazioni più “nobili”, come l’affidare decisioni ai governi ai vicini ai cittadini.
Ma al di là del modello di distribuzione delle scelte di governo che si predilige l’esito di questo “decentramento di fatto” di scelte su snodi cruciali produce:
- la sottrazione di criteri importanti alla natura di diritti robustamente fondati per i cittadini, ed uniformi in tutto il paese;
- l’assoggettamento di quelle decisioni alla dinamica politica solo locale, spesso movimentata da eventi e tensioni non sempre adeguata a supportare giudizi che devono dare “natura reale ai diritti”;
- la crescita delle differenziazioni tra i sistemi locali dei servizi. E dunque uno scenario nel quale ogni governo locale deve operare entro un quadro di criteri differente.
6. Chiunque vede come negli ultimi anni è cresciuta la prassi di far nascere interventi nazionali che, anche se mirati allo stesso problema/bisogno, sono tra di loro del tutto separati o sovrapposti. Ne è lampante esempio la ricca creazione di “bonus” a sostegno del reddito, che ha incentivato un sistema degli interventi pubblici contro la povertà frantumati nei criteri di accesso, nelle prestazioni, negli Enti che li gestiscono, producendo numerose criticità, tra le quali le seguenti:
- impone alle persone in difficoltà economica di essere costantemente informate su che cosa possono richiedere, quando ed a chi; ed è facile constatare come queste capacità siano meno presenti proprio nelle persone e famiglie più deprivate, che possono pertanto non riuscire nemmeno a richiedere interventi ai quali pure potrebbero accedere;
- l’impossibilita per gli operatori di servizi o sportelli che ricevono persone in difficoltà economica (nei servizi pubblici o del terzo settore) di essere aggiornati su tutti gli interventi possibili (non solo del loro servizio, ma di tutto il sistema pubblico), e di produrre informative ritagliate sulle persone che potrebbero utilizzarli4.
L’estrema polverizzazione degli interventi contro la povertà produce anche altre criticità, perché:
- erogazioni disperse in capo diversi enti impediscono che per la stessa famiglia si possano compattare tutte le risorse in un unico progetto più organico;
- un sistema con molti interventi gestiti da soggetti differenti produce diversi costi aggiuntivi, per le spese di organizzazione che ciascun ente deve dedicare alla sua filiera
E va rilevato che un analogo “caotico affollamento” di prestazioni, talvolta sovrapposte, connota anche le offerte pubbliche per la disabilità e la non autosufficienza.
Dunque, per tornare all’indebolimento delle capacità dei governi locali, i loro servizi sono inevitabilmente coinvolti:
- da un lato nel saper mettere in opera un’ampia capacità di informare cittadini e famiglie (ad esempio in povertà, o con non autosufficienti) sull’intero mix di prestazioni che potrebbero richiedere, ed a molti diversi servizi ed amministrazioni
- e dall’altro nel tentativo (talora impossibile) di almeno coordinare, entro un unico e organico piano di intervento per la stessa famiglia, la giungla di prestazioni possibili.
Concludendo ci si può chiedere se queste sei criticità sono figlie di scelte intenzionali, e di chi. Ossia se lo scenario delineato deriva da un quadro di scelte politiche programmatiche, oppure da meccanismi disfunzionali o disattenzioni. In merito:
- come dimostra anche il dibattito tecnico e politico è chiaro che il tema 4 (maggior autonomia regionale) è strutturalmente dipendente da scelte di politica sociale ed istituzionale. E lo sono anche il 5 (snodi trascurati dalla normativa o delegati ai comuni) ed il 6 (creazione di prestazioni frantumate). Tuttavia a me pare che per questi due ultimi sia compresente anche insufficienza di approfondimenti e di conoscenza, nonché una sorta di abitudine a non occuparsi di questi aspetti, oppure a proseguire con micro prestazioni mirate a segmenti di bisogni (con la “moda dei bonus”), considerando che è stata praticata da governi nazionali di diversi colori da non pochi anni;
- anche la questione 3 (creazione caotica dei LEPS) è ovviamente radicata nelle scelte tecnico politiche nazionali di governo del tema. E tuttavia è sintomo anche di un pensiero ancora non sufficientemente organico su che cosa devono essere i LEPS nel loro insieme. Tema tutt’altro che semplice, ma non a lungo eludibile;
- il nodo 2 (problemi nei modi con cui le risorse arrivano ai governi locali) dipende da insufficiente governo dei flussi erogativi, ma è anche prodotto dal nodo 1 (obbligo di caccia ai bandi per trovare risorse). E quest’ultimo scenario è anch’esso figlio di una cultura del welfare che si è diffusa negli ultimi anni, come se la modalità dei bandi fosse ormai un’abitudine da assumere come normale prassi per veicolare risorse.
Naturalmente se ci sono lettori che desiderano far conoscere le loro riflessioni sui nodi esposti, o esperienze per gestirli… ben venga l’invio di loro contributi.
- Una discussione più ampia sui pro e contro di “finanziamenti e interventi attivati tramite bandi” è disponibile qui.
- Ad esempio le Leggi di Bilancio per il 2022 e per il 2023, il Piano Nazionale degli interventi e servizi sociali 2021/2023, il Piano Nazionale Non Autosufficienza per il triennio 2022-2024. Un’analisi dei nodi nel processo di costruzione del LEPS è in questo articolo di Franco Pesaresi.
- Tra gli altri si ricordano gli articoli di Stefano Piperno e di Maurizio Motta.
- Una esperienza in atto di “Catalogo delle prestazioni contro la povertà”, per fronteggiare questi problemi, è descritta qui.
Sono completamente d’accordo.
Atti di indirizzo nazionali e regionali che depositano in capo agli Enti Locali nuove funzioni senza considerare la sostenibilità economica dei Comuni. Questi, anche se accorpati in Ambito (del quale nel Veneto stiamo ancora aspettando la legge) stanno rincorrendo fondi e non il vero significato dei servizi che si andranno a strutturare. Il governo locale non ne è assolutamente consapevole.
Aggiungo infine un altro aspetto ossia che gli interventi sanitari hanno sempre dei criteri per definire un tetto massimo mentre nel sociale questo non è ancora avvenuto. Ad es. le impegnative di residenzialità (quota sanitaria delle rette Case di Riposo) sono un tot e sono fisse quindi consentono una previsione di spesa mentre non hanno un tetto massimo le quote alberghiere. Perché non normare una retta standard per gli interventi pubblici? Questo potrebbe valere anche per la disabilità.
Ma si tratta di una casistica in questo mare in burrasca!
Concordo con i contenuti dell’articolo e col commento della collega Lionzo