In un precedente articolo ho avuto occasione di raccontare la mia esperienza di lavoro come pedagogista negli istituti comprensivi sia in Friuli Venezia Giulia che nel Veneto orientale; un’esperienza ormai pluriennale a contatto con gli insegnanti, i ragazzi e le loro famiglie.
Questo incarico mi ha permesso di entrare in contatto con numerosi soggetti del territorio e da tali relazioni è nata l’occasione per lo sviluppo di un nuovo progetto, questa volta non centrato solo sulla scuola, ma più in generale sui giovani della comunità, qui analizzato e discusso.
L’esperienza
Dopo molti anni di lavoro come pedagogista nelle comunità con le diverse sue ramificazioni, mi sento di raffigurarle come una grande ruota che gira; non importa a quale punto di accesso riesca ad appigliarmi per entrare, l’importante è trovarne uno e avere chiaro l’obiettivo. Mi spiego meglio: una comunità è composta da persone, associazioni, istituzioni ma anche trasversalmente da bambini, giovani, famiglie, anziani. Ognuno di loro porta in sé un desiderio o un bisogno. Intercettarne uno significa aprire la porta per la comunità, perché ciascuno è interconnesso.
In alcune comunità si entra attraverso l’associazionismo, che comunemente ha nel suo ventre una serie di persone già inclini alla solidarietà, ma anche il mondo parrocchiale è una buona porta di accesso, in altre occasioni sono passato attraverso la scuola e l’amministrazione comunale o addirittura lo sport. Ciascuno di noi può trovare un appiglio che, per sensibilità o appartenenza, si possa dimostrare più adatto.
Rispetto al caso narrato in questo articolo, l’occasione mi fu fornita dalla scuola alla quale, assieme ad un collega, avevo presentato un progetto di prevenzione educativa innovativo, così come descritto appunto nell’articolo citato.
Inserirsi come pedagogista a scuola mi ha permesso di partire da un punto privilegiato di osservazione perché avevo già la fortuna di incontrare una comunità composta dagli alunni, le loro famiglie e gli insegnanti. Nelle comunità medio/piccole, il Comune conta circa 13.000 abitanti, è facile incontrare i figli degli amministratori ed arrivare poi ad una conoscenza personale.
Il cambiamento di rotta impostato dalla dirigente scolastica ha dato la possibilità di presentarsi all’amministrazione comunale con credito importante, un tesoro dal quale partire per far fruttare altre occasioni. La più importante fu la possibilità di essere chiamato al tavolo di comunità attiva: una riunione bimestrale con le persone più significative del territorio per discutere di politiche giovanili e sociali.
Il tavolo viveva da tempo di asti interni dovuti alla gestione approssimativa e ad una richiesta di senso lasciata cadere nel vuoto dai coordinatori del momento.
Il poter rappresentare una parte nutrita della comunità civile, attraverso la scuola, mi ha dato l’opportunità di spingere sui temi che mi stanno da sempre a cuore: la formazione dei genitori come modelli educativi principali per i nostri ragazzi, l’alleanza scuola famiglia come paradigma di una società che da liquida torna ad essere più organica e la connessione con un territorio che possa garantire stili di vita sani ed educativi. Maggiore è la sintonia sul pensiero antropologico di riferimento che ciascuno degli attori ha maggiore sarà la nostra capacità di incidere sulla vita delle persone che incontriamo.
I momenti più significativi sono stati due:
- delineare un calendario annuale con incontri mensili per il tavolo di comunità attiva, in modo da definire obiettivi e finalità, ha fatto cambiare passo e ridato motivazione a tutti i soggetti coinvolti. Ho tracciato la necessità di diventare noi embrionalmente comunità per poter poi parlarne al di fuori; dovevamo prima noi essere un esempio e perciò ho proposto un incontro di conoscenza reciproca definendo bene la mission e la vision di ciascun appartenente. Non si può pensare di lavorare assieme se non siamo a conoscenza delle possibilità e delle bellezze di ciascuno, dividendoci bene i compiti e fidandosi reciprocamente;
- iniziare su mandato dell’amministrazione, coinvolto il tavolo di comunità, un nuovo progetto nel territorio che coinvolgesse le associazioni sportive, in particolar modo il calcio, il basket ed oggi anche la ginnastica per incontrare gli allenatori, la dirigenza, le famiglie e naturalmente i ragazzi iscritti. Lo sport è forse l’ultimo baluardo educativo dove la voce e la decisione dell’allenatore ha ancora la capacità di mettere un limite, questione difficile per molte famiglie e molti insegnanti.
Invitare nuove istituzioni al tavolo, come la biblioteca, luogo privilegiato di incontro dei ragazzi e una rappresentante della polizia locale ha dato ancor più spessore alla progettazione trovando nuovi spazi di dialogo e nuovi progetti comuni nei quali le diverse competenze e professionalità si sono integrate in una prospettiva comune.
L’ultima tappa, per arrivare a giorni nostri, è stata indire un incontro con le associazioni culturali, sociali, giovanili per un confronto, anche grazie alla necessità di adeguarsi all’ultima normativa sul terzo settore, che potesse dare voce e valore al grande lavoro che continuamente fanno per sostenere il tessuto sociale di tutto il territorio.
I risultati sono stati molteplici, i più di difficile narrazione: la percezione di aver vicino le famiglie, di esser diventati poco alla volta punti di riferimento per i genitori, gli insegnanti e gli amministratori, la sensazione di poter effettivamente contare per il bene degli altri, i ringraziamenti, le attestazioni di stima, il saluto mentre si passeggia per strada; tutto questo rimane impalpabile ma forse il traguardo più significativo.
Nell’ordine delle attività il lavoro di comunità ha prodotto:
- cicli di incontri per il sostegno della genitorialità, nati inizialmente in seno alla scuola e poi, per l’impossibilità della capienza nell’aula magna, diventato di dominio pubblico ed inserito nel programma degli interventi sociali comunali;
- serate a tema costruite per consolidare l’alleanza famiglia, sport e scuola come unica rete capace di sostenere il cammino dei ragazzi in un territorio segnato fortemente dal lavoro stagionale dei genitori e quindi della loro assenza per una buona parte dell’anno;
- una ricerca pedagogico/sociale volta a sondare le complicazioni educative, relazionali e sociali vissute dai ragazzi della città importate dalla situazione sanitaria in atto. La diffusione del link ha unito i siti di tanti soggetti pubblici e privati, una nuova forma di solidarietà.
Per un rinnovato desiderio di comunità
Un vecchio proverbio africano recita “ci vuole un villaggio per far crescere un bambino” e questo è un buon punto di partenza per delineare il pensiero di fondo. Il villaggio come luogo dell’incontro, come luogo della responsabilità condivisa, come luogo di cultura educativa, come luogo di scambio e riflessione sulle azioni, come luogo di fratellanza e solidarietà.
Quanto mancano queste cose ad un figlio della nostra comunità, oggi? Credo che se avessimo il coraggio di guardare attentamente ci scopriremmo sempre più legati ad una modalità educativa personale, privata, vissuta solo tra le mura domestiche e spesso stonata rispetto alle altre agenzie educative nelle quali inostri ragazzi sono inseriti (scuola, sport, ecc..).
L’accelerazione che si è avuta negli ultimi anni in merito a questa modalità centripeta dell’educare cozza violentemente con la realtà che sempre più privato e pubblico, locale e globale in una società liquida come la nostra si intrecciano fino a perdere i suoi confini naturali. E se è vero che anche questo porta ad una grande confusione e smarrimento soprattutto nelle giovani generazioni è anche vero che ad un occhio più attento non può sfuggire il fatto che un ragazzo non è solo figlio della famiglia che lo sta crescendo. È sempre e comunque anche un figlio di quel villaggio, quella comunità che gli appartiene e che su di lui nutre delle aspettative, lo dota di diritti ma gli impone anche dei doveri.
I figli quindi sono un frutto di quel villaggio che ha il desiderio di crescere assieme ed è per questo che va a scuola, in parrocchia, per strada, al cinema, in treno ed è per questo che ci aspettiamo una condotta di vita più simile al rispetto delle regole che all’infrazione, più incline alla libertà che al bisogno.
Il tempo passato a costruire un modello di “Comunità Educante” mi ha portato a “mettere in acqua alcuni ferri”.
Il primo è quello della corresponsabilità e della reciprocità. Si costruiscono legami positivi e duraturi se vi sono atteggiamenti di rispetto reciproco, tra le persone e tra le istituzioni e se tutti i soggetti si vivono in un rapporto di parità, senza stabilire delle gerarchie approvate o implicite. Ciò che lega questi soggetti è il comune interesse per i ragazzi, è l’avere a cuore la loro crescita: questo ci rende responsabili nel costruire dei legami positivi, capaci di riconoscere l’identità e il ruolo educativo dell’altro e di costruire una relazione all’insegna della valorizzazione delle specifiche originalità.
Il secondo criterio è quello della identità e del dialogo. Occorre essere consapevoli del proprio specifico modo di educare: quello della famiglia, della comunità, della scuola, della società sportiva. Ciascuno educa in modo diverso e nessuno basta da solo. Ciascuno ha un contributo importante da dare ma in rapporto con il contributo di altri: una relazione dialogica, aperta, che riconosce il proprio valore e la parzialità del proprio punto di vista. È questo che può dare vita a dialoghi significativi, in cui si mettono a confronto le differenti culture educative dei soggetti in campo: la visione più affettiva della famiglia, che ha bisogno di integrarsi con quella più formale e culturale della scuola, o quella più attenta alla sua fisicità o alla sua originalità artistica come le associazioni relative.
Anche le istituzioni pubbliche hanno un ruolo importante in questo dinamismo che costruisce legami e dunque costruisce comunità, appartenenza, genera servizi migliori per i giovani. Non si tratta di pensare a iniziative di cui le istituzioni pubbliche debbano essere protagoniste; piuttosto, l’istituzione ha il compito di favorire i legami, di contribuire a tessere le reti che fanno comunità: censire ciò che di positivo esiste sul territorio, dar vita a tavoli che facciano incontrare i protagonisti, mettere a disposizione risorse perché ciò che di positivo e di serio si progetta possa essere realizzato e possa contribuire a dare sempre più valore al servizio di coloro che si dedicano alle nuove generazioni.
Questo nuovo modo di intendere la pedagogia di comunità tende a liberarci dalla schiavitù delle pochezze personali per metterci a servizio del bene comune, quindi anche del nostro, per ricollocare al centro l’altro, vero senso della vita di ciascuno di noi. Coinvolgiamoci in questa rivoluzione e assieme “scopriremo il prezzo della felicità”.