Cosa ho imparato nel convegno “La coprogettazione in azione”


Gianfranco Marocchi | 20 Dicembre 2018

Il 17 dicembre 2018 si è svolto a Torino il Seminario “La coprogettazione in azione”. Gianfranco Marocchi, che ha tenuto la relazione introduttiva, condivide alcuni prime impressioni sulla giornata di lavoro.

 

Ecco alcune delle cose che ho imparato nel Seminario “La coprogettazione in azione”. O, per essere più precisi: nel Seminario, ascoltando i relatori, ma anche nell’incontro che ne è seguito finalizzato a dare vita ad una Comunità di pratiche sui temi dell’amministrazione collaborativa, nonché dalle discussioni a margine del seminario fatte con operatori pubblici e di terzo settore che stanno sperimentando pratiche collaborative.

 

  1. La coprogettazione vive e si sviluppa se inserita in un contesto adeguato. Quanto più le coprogettazioni sono inserite in un contesto (organizzativo, normativo, di orientamenti politici) coerente, tanto più sono soddisfacenti. Ciò significa chiamare i tavoli a coprogettare sulla base di obiettivi e letture dei bisogni frutto di precedenti fasi di coprogrammazione; coprogettare per quanto possibile entro orientamenti politici esplicitati dagli enti attraverso regolamenti, atti di indirizzo o linee guida; costruire partenariati solidi, ad esempio tramite avvisi pubblici che individuino i soggetti di terzo settore con cui l’ente collabora (periodicamente aggiornati, ovviamente), così da evitare di dover partire da zero nel momento in cui esce un bando e bisogna essere in grado di agire in tempi rapidi. Più invece le coprogettazioni sono isolate, occasionali e contingenti, più difficoltà si incontrano; ma non vi è da demoralizzarsi, da qualche parte si deve partire, poi via via si possono aggiungere i tasselli mancanti.
  2. Vi è un gran bisogno di punti di riferimento. E di non sentirsi soli. È stato importantissimo, nel convegno, poter ascoltare un dirigente apicale del Ministero del Welfare, Alessandro Lombardi, legittimare le pratiche collaborative (in gennaio speriamo di poter mettere online su Welforum.it il suo intervento); così come raccogliere l’esperienza di due Regioni (Liguria e Toscana) che dispongono di atti normativi a supporto dell’amministrazione collaborativa. Ciò aiuta a diminuire la solitudine del funzionario e dirigente che mette la sua firma su pratiche collaborative in un contesto non privo di elementi di ostilità, ma non basta. In assenza 1) di chiare assunzioni di responsabilità del livello politico e 2) di un supporto sistematico sugli aspetti amministrativi, gli amministratori locali rischiano di trovarsi in seria difficoltà di fronte alle inevitabili “perturbazioni” che un sistema emergente come la collaborazione deve necessariamente affrontare: dal parere del Consiglio di Stato, a future linee guida ANAC, ad eventuali sentenze amministrative, ecc. C’è bisogno di sostenere tanto la capacità di reazione politica quanto di assicurare supporto tecnico per mantenere saldo il controllo in queste situazioni. Che possa essere uno sviluppo – assai più impegnativo rispetto alle ipotesi iniziali – dell’idea lanciata a margine del convegno di far nascere una comunità di pratica?
  3. I sistemi collaborativi guadagnano terreno, anche oltre ogni ragionevole previsione. La storia del Piemonte è a questo proposito esemplare: sino alla primavera 2018 le esperienze collaborative erano limitate ad un numero ridotto di enti; anche in occasione del bando WeCare, tanto l’assistenza tecnica incaricata di seguire il bando, quanto alcuni funzionari ragionali, inizialmente (maggio – giugno 2018) escludevano la possibilità di ricorrere a soluzioni collaborative, proponendo invece di procedere con appalti. Nel corso del convegno del 17 dicembre, soli sei mesi più tardi, l’Assessore Regionale Ferrari ha annunciato che la grande maggioranza dei progetti presentati (quindi, presumibilmente, almeno una quarantina di enti) hanno coprogettato in occasione di WeCare. Cosa è avvenuto nel mezzo? Molte cose: diffusione culturale, formazione, sostegno a livello politico, ma soprattutto una determinazione senza pari di tanti enti che hanno costruito dal basso una consapevolezza che questa via è percorribile. Una storia esemplare!
  4. Terzo settore: gli spazi e le risorse per pensare. Parlando con il Terzo settore – premetto, quello migliore – si avverte, insieme ad un notevole interesse per la collaborazione, anche una riserva che in quanto tale può forse apparire poco condivisibile, ma che richiede invece una attenta considerazione. “Ci chiedono di essere ai tavoli, di portare competenza, di coprogettare… Ma i funzionari pubblici sono pagati per farlo, noi no!”, mi dicono alcuni. Si potrebbe rispondere a questa affermazione argomentando con ottime ragioni che è normale non essere remunerati per partecipare ad un tavolo, eppure si tratterebbe di una risposta giusta ma parziale. È giusto non essere remunerati per un esercizio partecipativo; ma va al tempo stesso affermato che non è produttivo, nel medio periodo, comprimere all’osso le risorse per il Terzo settore e in particolare pensare che ogni euro destinato a scopi diversi che il servizio al destinatario sia sprecato (lo diceva molto bene Carazzone a proposito delle fondazioni, ma vale lo stesso per gli enti pubblici). Il fatto che il migliore Terzo settore abbia spazio e risorse – non mi riferisco ai tavoli, ma alla normalità dei canali di finanziamento – per riflettere, elaborare pensiero, fare ricerca, non è uno spreco, ma un vantaggio per tutti, mentre un Terzo settore mero esecutore e organizzatore di personale costa qualche euro in meno ma rappresenta una grave perdita di capitale sociale. Insomma, tanti bandi trovano naturale inserire una quota di budget per la valutazione (pratica, per inciso, che ritengo insensata): perché invece non porsi il problema sistematico di sostenere la capacità di sviluppare pensiero a partire dall’operatività quotidiana?
  5. Poco da fare, la complessità è da gestire. Ai tavoli di lavoro non può essere richiesto di sciogliere grazie alla loro stessa esistenza ogni problema. Chi si detestava o non si fidava prima, continua a farlo anche seduto ad un tavolo di coprogettazione; i differenti linguaggi e approcci non si armonizzano da soli; la capacità a ragionare in termini di interessi generali non è innata ma si impara, soprattutto quando si è abituati a competere. Le dinamiche virtuose sono possibili, ma richiedono tempo, pazienza, professionalità e determinazione da parte di chi li gestisce. Esserne consapevoli aiuta a non guardare con serenità i problemi che, soprattutto in fase iniziale, possono verificarsi (ancor più se il contesto intorno è ancora acerbo, vedi punto 1).
  6. Tema che vai, istanza collaborativa che trovi. Ho recentemente curato, nella mia veste di direttore di una rivista di settore, due approfondimenti su temi specifici, accoglienza migranti e salute mentale. Bene, in entrambi i casi, ragionando con gli autori – esperti nei temi specifici trattati e non di coprogettazione – sulle raccomandazioni finali da inserire, essi convergevano nel mettere al centro i rapporti collaborativi tra enti pubblici e Terzo settore. Insomma, quando ci si interroga su come innovare i servizi e renderli più efficaci, in un modo o nell’altro sempre lì si finisce.