Covid-19 e disuguaglianze: quale impatto sui senza dimora?


Eleonora Gnan | 9 Febbraio 2021

#IoRestoaCasa. Così recitava l’hashtag più condiviso durante la prima ondata della pandemia. Ma chi una casa non ce l’ha? Le persone senza dimora sono tra i gruppi sociali più vulnerabili e maggiormente esposti all’emergenza sanitaria in corso. L’ultimo censimento nazionale1 dei senza dimora in Italia annovera oltre 50 mila persone in tale condizione: più della metà vive nelle Regioni del Nord, in particolare all’interno delle grandi aree metropolitane. In Lombardia si contano oltre 16 mila senza dimora (il 31,5% del totale nazionale), di cui più di 12 mila solo a Milano. Questi ultimi sono essenzialmente uomini, stranieri, con età inferiore ai 54 anni e con basso titolo di studio. I dati raccontano che la maggior parte di queste persone, prima di diventare homeless, viveva nella propria casa; quasi un terzo risulta occupato in lavori a termine, saltuari e a bassa qualifica, senza quindi percepire un reddito dignitoso. Nonostante un ampio numero di persone senza dimora si siano nel tempo avvicinate ai servizi pubblici e privati attraverso l’inserimento in strutture di accoglienza, permane uno “zoccolo duro”, costituito da almeno un migliaio di persone, che fatica ad inserirsi in percorsi di inclusione sociale, anche di bassa soglia.

Come è noto, gli esiti del Covid-19 non sono uguali per tutti: per questa fetta di popolazione infatti le criticità legate alla malattia risultano amplificate e dilatate. Alla maggiore esposizione ai fattori di rischio sia per infezione che per conseguenze della malattia della prima ondata, si aggiunge la problematica del freddo contrassegnante i mesi invernali della seconda. Per queste persone – caratterizzate generalmente da stili di vita malsani, copresenza di più patologie croniche, problemi di disagio psichico e dipendenza, fragilità relazionali, difficoltà di accesso a servizi sanitari e strutture di accoglienza – la prevenzione dal contagio non è stata di fatto possibile. Allo stesso tempo, chi vive in strada ha subìto in modo più marcato le conseguenze del lockdown: con la chiusura delle attività e le città deserte, i senza dimora non hanno potuto nemmeno contare sulla solidarietà di cittadini e commercianti, con il conseguente aggravamento dei bisogni primari in termini di cibo e igiene, maggior solitudine e isolamento.

La pandemia ha colpito duramente non solo le persone senza dimora, ma anche i servizi rivolti a questi.  Fio.PSD e Istituto di Ricerche Educative e Formative (Iref), in collaborazione con Caritas Italiana, hanno curato la pubblicazione del report L’impatto della pandemia sui servizi per le persone senza dimora che, attraverso una serie di interviste a referenti di servizi rivolti a tale categoria in diverse città italiane, mette in luce gli effetti che la pandemia sta producendo sulla grave marginalità adulta, i cambiamenti che molte organizzazioni hanno dovuto adottare per mettere in sicurezza le persone più fragili e accogliere nuove istanze, e le modalità operative che in alcuni casi hanno stravolto i servizi stessi.

 

 

L’impatto sui servizi: una questione di riorganizzazione

Dalla ricerca sopracitata emerge come i servizi rivolti al contrasto della grave marginalità abbiano dovuto riorganizzare velocemente il proprio assetto funzionale a causa della necessità di distanziamento fisico posta dall’emergenza sanitaria. Due sono le principali esigenze emerse durante il periodo di lockdown: la prima si ricollega alla necessità di mettere in sicurezza le persone presenti nei servizi (operatori, volontari e utenti), fornendo loro i dispositivi di protezione necessari e assicurando il servizio mediante modalità operative inedite; la seconda riguarda invece la necessità di informare e sensibilizzare le persone sulla pandemia in atto, stimolandone l’accettazione del cambiamento.

Prima dell’esplosione dell’emergenza sanitaria, oltre a garantire interventi di dormitorio e mensa, i servizi rivolti alle persone senza dimora operavano anche nella reintegrazione di queste ultime all’interno nel tessuto sociale, attraverso l’acquisizione di competenze mediante la partecipazione a laboratori, e offrivano supporto di tipo legale. Con l’avvento del Covid-19, l’attenzione si è spostata repentinamente dai progetti più complessi – resi di fatto non perseguibili dalla pandemia – all’erogazione di servizi a bassa soglia in risposta ai bisogni primari, specie di tipo alimentare.

La pandemia ha colpito in particolare i dormitori e le grandi strutture di accoglienza che hanno dovuto mettere in atto una serie di processi riorganizzativi, al fine di limitare il rischio di contagio e garantire il distanziamento fisico delle persone accolte:

  • i tempi di accoglienza sono stati dilatati in modo da consentire alle persone senza dimora di trascorrere nella struttura anche le ore diurne, proteggendosi così dal rischio del contagio in strada;
  • gli spazi fisici sono stati rimodulati per garantire una fruibilità qualitativamente diversa dei servizi;
  • le persone accolte sono state maggiormente coinvolte nella cogestione di servizi, spazi e tempi di convivenza;
  • il grado di apertura di alcuni servizi (docce, guardaroba e distribuzione di indumenti) è stato limitato, negando così nuove accoglienze;
  • la gestione della positività al virus e delle quarantene hanno richiesto non solo l’individuazione di spazi isolati o di nuovi spazi, ma anche la ricollocazione di risorse umane ed economiche.

È soprattutto nelle grandi città che i servizi rivolti al contrasto della grave marginalità hanno subìto importanti riorganizzazioni. Ad esempio, a Torino sono state introdotte modifiche agli spazi esistenti, aperti straordinariamente h24, e individuate nuove strutture. Anche a Milano i servizi sono stati potenziati e riqualificati: dall’allestimento di nuovi centri di prima accoglienza attrezzati con brandine e cucine da campo, al noleggio di nuove docce per garantire la fruibilità dei servizi igienico-sanitari, all’attivazione di presidi medici2.

Anche le mense hanno riorganizzato la loro attività, assicurando pasti da asporto e intercettando al tempo stesso una platea di beneficiari più ampia rispetto al periodo precedente al Covid-19. Durante la fase più acuta dell’emergenza sanitaria, in molte città italiane (Milano, Rovigo, Trento, Palermo e Roma) le unità di strada sono rimaste attive e hanno fornito alle persone senza dimora non solo beni di prima necessità (distribuzione pasti e dispositivi di protezione), ma anche supporto emotivo, informazioni e indicazioni sui servizi ancora disponibili.

Il Covid-19 ha prodotto importanti impatti anche sul lavoro degli operatori coinvolti in tali servizi. Dalle interviste condotte da Fio.PSD e Iref emerge l’esigenza di ricostruire – in alcuni casi ex novo – le condizioni per dare continuità ai servizi, tenendo conto delle inevitabili paure e inquietudini degli operatori. I cambiamenti hanno riguardato alcuni aspetti specifici. Innanzitutto è mutata la tipologia e la numerosità del personale a disposizione: all’esonero dal servizio di volontari e operatori in età avanzata, immunodepressi o in condizioni di fragilità, ha fatto seguito l’afflusso inaspettato di nuovi volontari di giovane età. L’esigenza di rendere operative h24 le strutture destinate all’accoglienza delle persone senza dimora e la diminuzione del personale a disposizione hanno provocato un aumento sensibile dell’orario di lavoro: in particolare è stata richiesta agli operatori ancora attivi una maggiore reperibilità che si è concretizzata nel passaggio a turni lavorativi più lunghi. Sono aumentati anche il senso di smarrimento e disorientamento degli operatori, e la necessità di ricevere maggiori indicazioni per fronteggiare una situazione estranea alle procedure standard.

Anche a seguito di disposizioni nazionali, la seconda fase è invece stata caratterizzata da una consapevole ripresa dei servizi, operando quindi una spinta verso la mobilitazione al fine di assicurare la miglior prestazione possibile.

 

 

L’impatto sugli individui: tra pregiudizi e consapevolezze

Lo svantaggio implicato dalla pandemia sulle persone senza dimora, non riguarda solo la maggiore esposizione ai fattori di rischio sia per infezione che per conseguenze della malattia, ma anche la mancanza di mezzi a disposizione per capire quanto effettivamente stava accadendo e le motivazioni alla base del repentino cambiamento imposto alla loro quotidianità. A tale situazione già di per sé complicata si è sommato il pregiudizio diffuso all’interno di alcune comunità secondo il quale le persone senza dimora sarebbero portatrici del virus, per questo pericolose e da allontanare.

All’atteggiamento di iniziale ostilità agito dalle persone senza dimora nei confronti degli operatori che chiedevano loro di rivoluzionare le proprie abitudini di vita e di cambiare i propri pochi punti di riferimento, ha fatto seguito lo sviluppo di una lenta e graduale capacità di accettazione, adattamento e partecipazione. In particolare, le attività messe in campo dagli operatori di informazione e condivisione delle notizie relative alla pandemia, ma anche dell’importanza delle misure di protezione hanno contribuito a stimolare un senso di responsabilità collettiva: la collaborazione delle persone senza dimora nel rispetto delle norme tutelava tutti, loro compresi.

Le difficoltà legate alla condivisione degli spazi con altre persone – condizione non facile per chi è abituato a vivere in piena libertà – e alla cogestione delle attività in funzione alle nuove esigenze imposte dalla pandemia, hanno progressivamente portato, in alcuni casi, a una ridefinizione dei ruoli, delle relazioni interpersonali e ad una maggiore consapevolezza rispetto a caratteristiche personali e progetti di vita futuri delle persone senza dimora.

 

 

Apprendimenti e punti di attenzione

Ingressi contingentati, insufficienza degli spazi, indisponibilità dei dispositivi di protezione e di luoghi per isolamenti e quarantene, sospensione dei percorsi di inclusione e inserimento sociale e lavorativo, difficoltà ad offrire un iter sanitario adeguato e integrato per la gestione dei casi positivi sono le principali criticità emerse dal lavoro di ricerca condotto da Fio.PSD e Iref sulle conseguenze della pandemia sui servizi rivolti alla grave marginalità.

È bene però sottolineare anche i diversi elementi di forza riscontrati in tali servizi, quali capacità di adattamento continuo, agilità e flessibilità degli operatori, condivisione e creazione di reti. L’insegnamento più importante per i servizi rivolti alle persone senza dimora apportato dall’emergenza sanitaria riguarda però una maggiore consapevolezza circa la necessità di ripensare complessivamente tali servizi. La pandemia ha messo in luce l’importanza dell’inserimento dei servizi rivolti alla grave marginalità all’interno di una programmazione territoriale strategica; della promozione di servizi che puntino all’attivazione delle persone nella gestione degli spazi, delle relazioni e dei percorsi; del consolidamento delle reti pubbliche e private con investimenti adeguati in relazione al mutato contesto socio-economico.

  1. L’indagine è stata condotta nel 2015 da Istat, in collaborazione con Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Fio.PSD e Caritas Italiana, in occasione della pubblicazione delle Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta in Italia, oggetto di apposito accordo tra Governo, Regioni, Province Autonome e Autonomie locali in sede di Conferenza Unificata. Per approfondimenti sugli esiti del censimento si veda l’articolo di Eleonora Gnan, Contrasto alla grave emarginazione: dall’emergenza all’inclusione, pubblicato su Welforum.it il 21 marzo 2018.
  2. Per approfondimenti relativi alle esperienze di riorganizzazione dei servizi rivolti alle persone senza dimora in seguito alla pandemia si vedano l’articolo di Daniela Mesini, Il Comune di Milano in prima linea nel contrasto all’emergenza, pubblicato su Welforum.it il 23 aprile 2020, e il contributo di Martina Buffa, Il contrasto all’homelessness ai tempi del Covid-19, pubblicato su Welforum.it il 10 novembre 2020.