Dal REI al Reddito di Cittadinanza: questioni di metodo e di merito
Lorenzo Lusignoli | 17 Giugno 2019
Il ruolo dell’Alleanza contro la povertà nel processo di policy
La creazione dell’Alleanza contro la povertà nel 2013, che vede tra i soci fondatori e con un ruolo trainante la Cisl, ha costituito senz’altro un punto di svolta nel percorso verso il disegno e l’introduzione di uno strumento di sostegno minimo al reddito nel nostro paese. Ci sono tuttavia voluti due anni di battaglie per giungere alla creazione di un Fondo strutturale necessario a finanziare tale strumento e altri tre per avviare finalmente nel 2018 su scala nazionale la prima misura organica di contrasto alla povertà: il Reddito d’Inclusione (REI). In questo percorso l’obiettivo più difficile è stato quello di ottenere le risorse adeguate e, nonostante le nostre insistenze, non è stato raggiunto appieno. Infatti gli incrementi del Fondo che si sono succeduti nelle diverse Leggi di bilancio sono risultati, per scelte politiche in connessione con gli equilibri di finanza pubblica, sensibilmente inferiori ai bisogni. Non a caso oggi sono in molti a riconoscere che il principale difetto del REI consiste nell’essere stato sotto finanziato. Di converso, la sua definizione e introduzione è stata fatta attraverso un efficace e approfondito processo concertativo, del quale il Memorandum d’intesa con L’Alleanza è risultato essere il momento apicale, e che costituisce un’assoluta novità nel panorama delle politiche sociali assistenziali dell’ultimo ventennio. Se da un lato il governo ha tratto senz’altro beneficio nel rapportarsi a un unico soggetto di advocacy, il coordinamento dei Sindacati e delle numerose associazioni all’interno dell’Alleanza ha permesso di avere una forte e completa rappresentanza nonché di costruire e successivamente fornire una credibile ed adeguata proposta di sostegno minimo al reddito, il Reddito D’inclusione Sociale (Reis), che è stata in buona parte ripresa nel disegno del REI, che dunque a tutti gli effetti costituisce una fusione tra questa proposta e la sperimentazione precedentemente avviata su tutto il territorio nazionale (il SIA).
Il Reddito d’Inclusione non è dunque il frutto esclusivo delle scelte operate dai due precedenti governi quanto piuttosto il risultato di un lavoro congiunto tra Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Parlamento e Alleanza contro la povertà nel quale la componente tecnica ha spesso in parte preceduto quella politica dandole impulso e sostanza, svolgendo un ruolo pari e anticipatore rispetto alle scelte governative. Per una volta si è giunti a introdurre una misura fondamentale per il nostro sistema di welfare non solo col consenso ma anche con l’apporto di tutte le principali organizzazione impegnate sul tema.
Anche per il Reddito di Cittadinanza si sarebbe potuto proseguire convintamene e agevolmente su questo sentiero mantenendo il medesimo metodo di lavoro. Nel decreto legislativo 147/2017 esisteva infatti un articolo che rendeva assai flessibile lo strumento permettendo addirittura modifiche sui principali parametri: i requisiti economici e anagrafici, l’importo, e la durata, solo per citarne alcuni.
Sarebbe bastato innestare le nuove ingenti risorse sul Rei, cambiandone i parametri, innalzando soglie ed importi, e dando maggior consistenza al possibile sbocco lavorativo attraverso il potenziamento dei Centri per l’Impiego (CPI). Si sarebbe trattato di un nuovo strumento che manteneva l’intelaiatura del precedente, ereditandone i vantaggi e correggendone i difetti. Vi sarebbe stata una vantaggiosa continuità nella governance del medesimo, agevolando i compiti di Regioni, Comuni e cittadini, che invece si sono visti cambiare per la terza volta in poco tempo la misura di lotta alla povertà. Si sarebbe conservata la parte progettuale sul futuro con il concorso dei diversi soggetti attraverso il Piano nazionale di contrasto alla povertà, una più equa distribuzione delle risorse attraverso la scala di equivalenza dell’Isee, una più attenta ed efficace ripartizione dei beneficiari. L’accentuata contrapposizione politica ha impedito che si percorresse questa via ottimale, e si è scelto invece di imboccare l’altra via, rafforzata nella comunicazione mediatica, di una nuova riforma, come purtroppo di sovente avviene nel nostro paese. C’è da augurarsi che almeno al livello locale venga recuperato quel dialogo tra le parti, che già in passato ha prodotto risultati nel contrasto all’indigenza e che oggi può avvalersi dell’aggregazione creata all’interno delle Alleanze regionali contro la povertà, per agevolare e rendere efficace l’attuazione della nuova misura.
Continuità o discontinuità rispetto al passato?
Non possiamo però dire che il Reddito di Cittadinanza sia un’altra cosa rispetto al Reddito d’inclusione. Nell’ultimo passaggio parlamentare del decreto, infatti, sono state accolte alcune proposte di modifica provenienti in larga misura dall’Alleanza contro la povertà e in parte dalle audizioni dei sindacati, che hanno tra l’altro variato il criterio di ripartizione tra i due percorsi di presa in carico. La complicazione dell’articolo che definisce tale ripartizione resta notevole e necessita di alcuni chiarimenti interpretativi. Non risulta infatti prevista alcuna presa in carico per i minori delle famiglie i cui componenti sono convocati dai CPI, mentre la salvaguardia dei percorsi personalizzati intrapresi dai nuclei percettori di REI rischia di determinare una ripartizione non in linea con le intenzioni del legislatore per gli altri nuclei. Nonostante ciò, grazie alle modifiche effettuate, i beneficiari indirizzati verso i servizi sociali dei comuni, come stimato dall’Ufficio Parlamentare di bilancio (UPB), dovrebbero risultare largamente superiori a quelli indirizzati verso i CPI. E per i primi resta invariato il sentiero già tracciato dal provvedimento del Rei, che parte dall’analisi preliminare del nucleo per arrivare alla sottoscrizione di un Patto per l’Inclusione Sociale con l’eventuale presa in carico da parte dei suddetti servizi. Inoltre per il potenziamento di questi ultimi resta in vigore la quota dedicata del Fondo povertà, che viene altresì aumentata nei prossimi anni (da 347 milioni nel 2019 a 615 a partire dal 2021) e viene rafforzata la possibilità di usarne una parte per l’assunzione di assistenti sociali in deroga ai vincoli imposti ai comuni. La normativa resta dunque in questo caso in piena continuità con la previgente e risulta salvaguardato quanto già in qualche modo è stato rodato nell’anno passato e costruito attraverso la concertazione nel precedente. Al di là di quanto annunciato dal governo e delineato nello schema iniziale del decreto, il Reddito di Cittadinanza non è dunque una misura strettamente legata alla ricerca del lavoro ed il Patto per l’Inclusione Sociale risulta avere pari dignità del Patto per il Lavoro.
E’ tuttavia indubbio che una delle principali novità di questo provvedimento risieda nella vocazione “lavoristica” e nell’intenzione che attraverso questa misura si possano spronare una parte degli inattivi verso la ricerca di un’occupazione. Occorre preliminarmente notare che le aspettative di un aumento dell’occupazione a breve non possono prescindere dall’andamento della domanda di lavoro la cui evoluzione prevista è per ora assai modesta. Inoltre, la tempistica accelerata di attuazione, uno dei difetti principali di questo provvedimento, mal si addice con uno sviluppo della struttura di sostegno dei percorsi lavorativi, i CPI, ancora tutta in divenire. E’ senz’altro positivo che si siano dedicate risorse ingenti allo sviluppo di tali centri e che vi sarà un sostanziale incremento della forza lavoro attraverso l’assunzione complessiva di 11.600 unità, numeri mai visti in passato, che tuttavia avverrà gradualmente nei prossimi anni1. D’altra parte le stime dell’UPB ci dicono che solo un 21% circa dei beneficiari della misura sarebbe immediatamente attivabile mentre un altro 21% lo sarebbe solo in un secondo momento, a fronte di una maggioranza di beneficiari (58%) non attivabili. Vi è poi sostanziale disarmonia tra le condizionalità insite nel provvedimento e quelle già presenti nell’attuale normativa del Jobs Act per i percettori di ammortizzatori sociali con riguardo all’offerta congrua: sul numero di offerte rifiutabili (due invece di nessuna), sulla distanza (che varia da 100Km a tutto il territorio nazionale, largamente superiore a quella prevista in precedenza pari a 50Km nei primi 12 mesi e 80Km nei successivi), sul livello di retribuzione minima accettabile (una cifra fissa pari a 858€ a fronte di una variabile pari al 120% dell’indennità percepita). Si potrebbe aggiungere anche l’ingiusta sottrazione dell’Assegno di ricollocazione ai percettori di Naspi attuata in favore dei percettori di Rdc. Si tratta di elementi talvolta di vantaggio e talvolta di svantaggio che comunque alimentano la confusione, creano un trattamento duale ingiustificato e potrebbero generare, come nel caso del minimo retributivo, rilevanti squilibri settoriali nel mercato del lavoro (in diversi casi la cifra indicata non è lontana ad alcune retribuzioni part-time). Pesa con tutta evidenza a riguardo l’assenza di un confronto con il Sindacato.
La difficile e opinabile scelta di tenere in un unico strumento il duplice obiettivo di attivazione lavorativa e di contrasto alla povertà trova un elemento di criticità nella durata del trattamento: è sensato per una misura di attivazione lavorativa immaginare un importo elevato e una durata limitata, così come per una misura di contrasto alla povertà un importo più contenuto e una durata illimitata; concedere invece un incremento reddituale fino ad una soglia piuttosto elevata, come nel caso del Rdc per il singolo beneficiario (paragonato a quello vigente nei principali partner UE e ad alcuni livelli salari), in connessione con una durata potenzialmente illimitata del sussidio rischia di risultare fortemente disincentivante per la ricerca di lavoro del percettore.
Requisiti all’accesso, ammontare del contributo e risorse stanziate
Possiamo sostenere che il nuovo strumento sarà in grado di contrastare adeguatamente la povertà? Senz’altro vi sarà un impatto sensibilmente positivo a riguardo sia nella riduzione dei principali indici che ne misurano l’incidenza sia, soprattutto, con riguardo a quello che ne misura l’intensità. E’ questa una logica conseguenza del più ampio stanziamento mai effettuato allo scopo. Eppure anche in questo caso la scelta di mantenere alta la soglia base reddituale (780€ mensili), pur in presenza di risorse ridotte anche a seguito della “trattativa con l’Europa”, connessa con la volontà di raggiungere un’ampia platea di famiglie, ha portato ad un’allocazione del sostegno sub-ottimale rispetto all’obiettivo. La progressione della scala di equivalenza è troppo contenuta, in particolare per le famiglie con minori o con portatori di handicap, ed ha un massimo che penalizza le famiglie numerose. Questo determinerà uno squilibrio nella fruizione della misura e nell’importo della medesima a favore delle famiglie monocomponente o comunque coppie senza figli o con pochi figli maggiorenni a discapito delle atre tipologie familiari, come ci indicano anche la gran parte delle stime effettuate. Vi saranno dunque ad esempio diverse famiglie numerose in povertà assoluta che non potranno accedere alla misura a fronte di famiglie con pochi componenti adulti che la riceveranno pur non essendo in tale condizione.
Occorre inoltre sottolineare come i vincoli anagrafici risultino assai problematici per i senza dimora e discriminatori nei confronti dei cittadini extra UE, tra i quali l’incidenza della povertà è senz’altro sensibilmente più elevata (secondo l’ISTAT 1/3 degli stranieri, pari a 1,6 milioni d’individui, è in povertà assoluta a fronte di 1/16 degli italiani, pari a 3,4 milioni). Il vincolo di residenza di 10 anni, oltre ad essere contrario alla normativa comunitaria (dunque soggetto in futuro a revisione a seguito di una probabile procedura d’infrazione), è accompagnato da un obbligo per gli stranieri extra UE di certificazione (su stato di famiglia, reddito e patrimonio) proveniente dallo Stato di appartenenza, che risulta condannabile da molti punti di vista e che si spera venga sostanzialmente ridimensionato dal decreto che indicherà i paesi esclusi dall’obbligo. E’ chiaro che comunque alcune famiglie di stranieri extra UE che percepiscono il REI verranno escluse dalla nuova misura a causa di tali vincoli.
L’importo del sostegno economico si basa su due componenti: una integra il reddito fino ad una certa soglia e l’altra è un contributo al canone di locazione per coloro che sono in affitto. L’entità di queste componenti è squilibrata a favore della prima2. Questo da un lato rafforza il vantaggio già indicato per i single e le coppie senza figli che posseggono l’abitazione, dall’altro non consente di distribuire le risorse sul territorio in misura più equa a favore dei luoghi dove i canoni di locazione risultano mediamente più elevati. La separazione delle due componenti, invece, rappresenta un vantaggio rispetto al Rei, poiché consente il rimborso del canone di locazione anche nei casi di morosità incolpevole (quando ad es. il reddito è nullo).
Il vincolo sul patrimonio mobiliare, sostanzialmente simile a quello vigente per la precedente misura (salvo che per i disabili), che tuttavia era calibrato su soglie di accesso assai inferiori, rischia di risultare troppo stringente in relazione alla più ampia platea di riferimento del Rdc.
Infine, la modifica della normativa sull’Isee che consente al figlio con almeno 26 anni non convivente, non coniugato e senza figli di fare un nucleo a se stante anche se fiscalmente a carico, oltre ad avere la finalità di spingere all’indipendenza alcuni giovani, potrebbe però generare comportamenti che determinino la fruizione della misura anche da parte di chi non si trova in particolari situazioni di difficoltà economica.
Quelle elencate sono alcune criticità che potrebbero ostacolare un buon funzionamento della nuova misura. Occorrerà effettuare nei prossimi mesi un attento monitoraggio sui dati riguardanti la sua evoluzione per valutare la veridicità ed il peso di tali criticità.
Tassi di accoglimento presenti e futuri
Per il momento i dati forniti dall’Inps, che pure potrebbero risultare di fondamentale importanza per comprendere l’efficacia della misura, sono poco significativi. Quelli riferiti al primo trimestre, un periodo comunque breve, riguardano le domande effettuate (oltre un milione e duecentomila), che sono in numero considerevole, ma per le quali non si ha piena contezza della loro accettazione né della corrispondente distribuzione del beneficio, fornita invece solo per il primo bimestre anche se non esaustivamente3. Si tratta di due variabili chiave, insieme alla dimensione delle famiglie riceventi, per valutare il successo o meno della misura. Se ipotizzassimo che le domande ancora da elaborare nell’intero trimestre si distribuissero in maniera analoga a quanto fatto sinora vedere tra accettate e rifiutate, avremmo una percentuale di domande accolte intorno al 70%, mentre l’importo medio del beneficio risulterebbe aggirarsi intorno ai 500€. Sono numeri rilevanti ma si tratta solo di un’ipotesi e ci stiamo riferendo alle domande che rispettano i requisiti economici il cui controllo spetta all’Inps, mentre sembra che in diversi casi vi sia ancora incertezza sul rispetto dei requisiti anagrafici il cui controllo spetta ai Comuni. Anche la distribuzione sul territorio potrebbe essere destinata a modificarsi nel tempo se pensiamo che in alcune aree la massiccia presenza di lavoro nero potrebbe generare un ritardo nella richiesta della prestazione subordinatamente al rischio di incorrere nelle pesanti sanzioni penali previste.
Risulta comunque evidente, da questi dati, il lavoro intenso condotto dai Caf, presso i quali sono state effettuate la maggior parte delle domande. Tra l’altro in assenza dei punti unici di accesso comunali, spesso i Caf si trovano anche necessariamente a svolgere un ruolo d’informazione sulla prestazione davanti ai richiedenti. E’proprio dalle notizie che ci giungono da questi centri che possiamo ricevere alcune prime indicazioni sull’andamento della misura. Emergerebbe che: le domande effettuate da cittadini stranieri extra UE sarebbero comunque significative (intorno al 10%), ma in parte destinate in un secondo momento ad essere bloccate dai vincoli anagrafici; il vincolo sul patrimonio mobiliare sembrerebbe effettivamente determinare un importante elemento di riduzione dell’accesso alla prestazione; le famiglie numerose riceverebbero importi troppo contenuti rispetto alle aspettative o verrebbero escluse, a riprova della scarsità della scala di equivalenza, perché difficilmente presentano redditi sensibilmente inferiori alla soglia.
Infine non è al momento ancora prevista la possibilità di rinuncia, che può emergere nel caso in cui una volta scoperto l’importo del sostegno economico il beneficiario lo consideri troppo esiguo rispetto alle condizionalità richieste, o non meritevole dell’abbandono di un lavoro non dichiarato o persino, in casi sporadici, inferiore all’importo del REI che comunque andrebbe a sostituire.
Si tratta solo di alcuni elementi e sappiamo che la normativa sull’ISEE non consente elaborazioni o pubblicazioni di dati dettagliati da parte dei Caf. Proprio per questo è importante che vengano al più presto diffusi dall’INPS dati assai più significativi di quelli fin qui forniti. Sarebbero necessari anche per confermare o meno le continue “voci” di risparmi sui soldi stanziati, che, se dovessero essere certificati a fine anno, potrebbero efficacemente essere impiegati per apportare alcune correzioni ai difetti sopra indicati, partendo dalla scala di equivalenza, piuttosto che essere destinati ad altre spese.
- Si tratta in particolare di 4.000 unità di personale che verrebbero assunte dalle Regioni nel 2019, alle quali si aggiungerebbero i 3.000 “navigator” assunti inizialmente con incarichi di collaborazione presso Anpal Servizi e 1.600 assunzioni a tempo determinato presso i CPI a valere sui fondi FSE, effettuate portando a termine procedure già avviate dai precedenti governi. A decorrere dal 2020 le Regioni sono autorizzate ad assumere in pianta organica altre 3.000 unità, mentre a decorrere dal 2021 potranno assumere 4.600 unità, stabilizzando i 3.000 navigator ed i 1.600 sopra citati.
- Cfr. Baldini Lusignoli, “Un reddito di cittadinanza da riequilibrare”, Welforum.it, 15 febbraio 2019.
- Lo schema diffuso dall’Inps riporta, per il periodo Marzo-Maggio, 1.252.148 domande effettuate, delle quali risulterebbero accolte circa il 53,9% (ovvero 674.435), il 22,1% sarebbero respinte, lo 0,7% sospese e il 23,3% da elaborare. Buona parte di queste ultime (quasi i due terzi) sarebbero le domande presentate a Maggio per la totalità delle quali il processo di elaborazione è ancora in corso. I dati sugli importi erogati sono ovviamente relativi alle sole domande accolte e riportano un beneficio medio di 540€ per i percettori di reddito di cittadinanza e di 210€ per i percettori di pensione di cittadinanza.
È utile anche analizzare e pubblicare la causa del disagio economico.