Ddl sull’affido dei figli: rischi e trappole del mito della bi-genitorialità perfetta
Chiara Saraceno | 25 Settembre 2018
La proposta di legge “in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bi-genitorialità”, che vede come primo firmatario il senatore Pillon, ha un obiettivo “ufficiale” condivisibile: garantire il massimo di corresponsabilità tra i genitori anche dopo la rottura della coppia in nome del benessere dei figli minori. Un obiettivo già presente nella legge 54/2006, che ha introdotto l’affido condiviso come modalità di affidamento prevalente e stabilito che ciascun genitore provvede al mantenimento dei figli in maniera proporzionale al proprio reddito eventualmente anche tramite la corresponsione di un assegno di mantenimento al fine di garantire ai figli il soddisfacimento dei bisogni e il mantenimento del tenore di vita pregresso; tenendo conto, per valutare il contributo di ciascun genitore e l’importo dell’eventuale assegno, sia del tempo passato dai figli presso l’uno e l’altra, sia del valore economico del lavoro domestico e di cura effettuato da ciascun genitore.
La legge 54/2006, esito di molte lotte, specie di associazioni di padri separati, oltre che di positivi cambiamenti nel modo di esercitare la paternità, aveva aperto aspettative forse irrealistiche, specie nel breve periodo, e in parte astratte circa le modalità effettive della condivisione. Stante che si è valutato che sia più stabilizzante, per un minore, avere un’unica residenza e mantenere una continuità nella vita quotidiana, di fatto questa residenza è nel 90 per cento dei casi presso la madre, che per questo rimane più spesso nella casa (ex)coniugale. I padri devono trovarsi un’altra abitazione, possibilmente con uno spazio per i figli perché questi possano trovare anche presso di loro una normale quotidianità. Stante la prevalente asimmetria nel potere economico di padri e madri, inoltre, non desta stupore che siano nella stragrande maggioranza dei casi i primi ad essere tenuti ad un assegno di mantenimento per i figli. Il fatto è che, mentre ritenevano normale mantenere i figli in costanza di convivenza di coppia, quando la coppia finisce scoprono che non gli piace più il ruolo di male breadwinner.
Non vi è dubbio che, anche se l’impoverimento assoluto o relativo a seguito di separazione/divorzio riguarda statisticamente in larga prevalenza le donne, riguarda anche una minoranza di uomini, specie nei ceti più modesti, perché perdono economie di scala e lavoro domestico gratis mentre devono fare fronte a spese aumentate, se non altro sul piano dell’abitazione. Inoltre, così come ci sono padri che spariscono, o si presentano irregolarmente, o non pagano, o solo irregolarmente gli assegni di mantenimento non per mancanza di risorse, ma per vendetta, ci sono anche madri che non favoriscono la continuità dei rapporti con il padre, o non si danno da fare per aumentare la propria capacità economica, anche se ne avrebbero la possibilità. Ma sia gli uni sia le altre sono una minoranza. La normalità è che la co-genitorialità, difficile anche in costanza di rapporto di coppia, lo diviene ancora di più quando la coppia non c’è più e occorre elaborare nuovi modi sia di cooperare, sia di stare in relazione con i figli.
Il progetto di legge Pillon pensa di risolvere questi problemi gordianamente, trasformando la co-genitorialità in bi-genitorialità perfetta, di cui ciascun genitore è l’esatta metà, in una visione della genitorialità come una attività che si può descrivere in un mansionario e tabelle di spese dettagliate e divisibili nettamente a metà, senza sovrapposizioni, smagliature. Ne discende che gli stessi figli sono percepiti come “spacchettabili” a metà: esistono, con i loro bisogni e relazioni, in due metà distinte, che si “attivano” partitamente quando sono con l’uno o l’altro genitore. Tutto, a partire dal tempo trascorso dai figli con l’uno e l’altro genitore, alle spese fino alla residenza anagrafica è diviso perfettamente a metà (nel caso della residenza anagrafica e della abitazione, in realtà raddoppiato), a prescindere dall’età e bisogni dei figli nella loro specifica individualità ed anche a prescindere da ciò che avveniva in costanza di rapporto di coppia. In teoria, anche bambini piccolissimi dovrebbero pendolare sistematicamente da un genitore all’altro, cambiando ambiente fisico e punti di riferimento proprio nel periodo in cui hanno maggior bisogno di stabilità. E quelli più grandi dovrebbero sistematicamente alternare tempi di distanza dalla scuola, possibilità di incontrare gli amici e partecipare ad attività extrascolastiche in funzione della distanza delle abitazioni dei loro genitori e del tempo identico che sarebbero tenuti (più che averne il diritto soggettivo) a trascorrere con ciascuno. Padri che finché la coppia teneva avevano lasciato alla madre la principale responsabilità della cura, educazione, sostegno ai figli, improvvisamente si troverebbero a dovervi fare fronte da soli, senza averne sviluppato capacità e sensibilità (può valere anche all’inverso, per le madri, anche se i casi sono più rari).
Questa idea di “bi-genitorialità perfetta” non tiene conto del fatto – documentato da diverse ricerche – che ancora oggi persistono forti asimmetrie tra padri e madri nella divisione del lavoro e nella presenza con i figli, nonostante nelle giovani generazioni si assista ad un maggiore coinvolgimento dei padri. Ignora inoltre che anche nelle coppie genitoriali più paritarie la condivisione non si realizza esclusivamente e principalmente nella minuziosa divisione a metà di tempi e mansioni, ma nella disponibilità condivisa e reciproca a organizzare il proprio tempo e priorità tenendo conto sia dei bisogni dei figli, sia dei bisogni e capacità dell’altro genitore. C’è, ed è importante, una interscambiabilità per alcune cose ed invece integrazione e complementarietà su altre, in equilibri che variano nel tempo. È un processo dinamico, che si costruisce in rapporti di fiducia e rispetto, oltre che aggiustamenti progressivi. Non è l’esito di un mansionario e calendario dettagliato, anche se liste e calendari possono aiutare l’organizzazione quotidiana.
Questa visione astratta della bi-genitorialità perfetta e dei figli come prodotti “spacchettabili” ha il suo fulcro nella norma che definisce come residuale e limitato a casi eccezionali l’assegno di mantenimento dei figli. Ciascun genitore pagherebbe le spese del/dei figli non in base al proprio reddito, ma solo relativamente ai consumi durante il tempo in cui stanno con lui/lei. Quelle “generali” – scuola, attività di tempo libero, abbigliamento – sono divise paritariamente. È previsto un assegno di mantenimento per i figli solo in caso di grave difficoltà economica dell’altro genitore. In questo modo il figlio/i, in barba al principio del diritto al mantenimento del tenore di vita, rischia di dover sperimentare due livelli di vita anche molto diversi a seconda del genitore con cui sta, stante che nella maggior parte dei casi, a causa della divisione del lavoro in famiglia e delle discriminazioni sul mercato del lavoro, le madri hanno meno possibilità economiche dei padri. È per questo motivo e non per una qualche discriminazione contro i padri che gli assegni di mantenimento sono pagati in oltre il 90 per cento dei casi dai padri. Il pendolarismo tra contesti di tenore di vita molto diseguali avviene frequentemente anche ora. Ma se venisse eliminato l’assegno di mantenimento il fenomeno diverrebbe insieme più diffuso e più sistematico, con dubbi effetti educativi e sulla elaborazione della separazione dei genitori da parte dei figli.
Oltre alla eliminazione dell’assegno di mantenimento per i figli, il disegno di legge, in nome della bi-genitorialità perfetta, prevede anche che l’assegnazione della casa coniugale non trovi più il proprio criterio guida nel diritto dei figli alla continuità abitativa. Se di proprietà, la casa andrà venduta, oppure chi vi rimane dovrà pagare un affitto all’altro, a prescindere dal fatto che questa abitazione sia anche quella dei figli, che ne sono “consumatori interi” anche quando sono fisicamente altrove. È un costo che vale, ovviamente, per entrambi i genitori, nella misura in cui entrambi devono predisporre uno spazio per i figli, ma che può essere molto oneroso per chi ha un reddito modesto e, in certi casi, nullo perché si è dedicata alla famiglia, e che può aggravare la disparità del tenore di vita non solo dei due ex partner, ma anche dei figli quando stanno con quello più povero.
Al fine di facilitare gli accordi, il disegno di legge introduce la mediazione obbligatoria, almeno per un primo incontro, “ovviamente” a spese dei separandi/divorziandi (da ripartirsi paritariamente). Anche in questo caso emergono diverse criticità: la possibile incostituzionalità di una norma che imponga una qualche trattamento obbligatorio; l’inopportunità, richiamata da molti psicologi, di imporre qualche cosa che può funzionare solo se intrapresa volontariamente; la pericolosità di obbligare alla mediazione chi sia stato oggetto di violenza da parte del proprio partner o che, come figlio, vi abbia assistito; la indefinitezza del profilo professionale del mediatore famigliare, come si evince anche dalla lunga ed eterogenea lista di chi potrebbe ottenerne il titolo. Oltre alla mediazione famigliare obbligatoria, nel caso dei prevedibili contenziosi che possono scaturire nella implementazione della “bi-genitorialità perfetta” ideata dal disegno di legge, è previsto anche il ricorso, sempre obbligatorio, ad un non specificato “coordinatore genitoriale”. In ultima analisi, i genitori separati/divorziati vengono messi sotto tutela giudiziale perché rispettino la bi-genitorialità perfetta così come è concepita dalla legge (e solo nel loro caso, non anche in quello di genitori che continuano ad essere una coppia).
La tutela giudiziale si spinge fino a dichiarare punibile a priori, prima di verificarne le cause e il contesto, il genitore il cui figlio si rifiuta di stare con l’altro. Come se questo rifiuto fosse sempre e solo l’esito di una manipolazione da parte del genitore “accettato” e non anche, e probabilmente soprattutto, un modo in cui il figlio fa i conti con la separazione, o la conseguenza di un cattivo rapporto con il genitore rifiutato, o della difficoltà di entrambi a “riconoscersi” e stare assieme senza la presenza e mediazione dell’altra/o. Anche senza separazione ci sono casi più o meno drammatici e transitori in cui un figlio rifiuta, o si distanzia, da un genitore. Forzare la presenza e punire l’altro genitore, specie se questo non ne ha responsabilità, non aiuta.