Ognuno di noi pensa che l’Altro ci veda come noi ci vediamo o crediamo di apparire. Spesso questa è l’origine dei nostri fallimenti, delle nostre delusioni e delle nostre sconfitte. Quando osserviamo l’Altro lo guardiamo con i nostri occhi che ci danno immagini filtrate e rielaborate dalla nostra esperienza e dai nostri pregiudizi. Avere coscienza e conoscenza di come osserviamo l’Altro, e come lui ci vede, facilita le relazioni e consente scambi comunicativi funzionali. “Non esistono osservatori ingenui. Nessuno emette giudizi indipendenti dalla propria esperienza”1. L’Altro è visto da noi attraverso lenti colorate dalla nostra storia, dalla nostra esperienza e dalla nostra professionalità; un professore, ad esempio, vede le persone in modo diverso rispetto a un dottore o a un allenatore. In ognuno di noi, inoltre, scatta l’atavica paura di fronte all’Altro, al non conosciuto, al potenziale pericolo per placarsi nel momento in cui viene identificato come non pericoloso.
Solamente nel momento in cui si inserisce un’intenzionalità emotiva positiva si crea un’apertura verso l’Altro che consente di coglierne i bisogni, le richieste, ecc.. Si cerca di comprendere chi è, cosa vuole, cosa sta facendo, per poi entrare nella fase utilitaristica del rapporto che porta alla continuità o all’interruzione, volontaria o spontanea. Il rapporto nasce sempre e comunque da un interesse, da un bisogno. I rapporti sociali hanno sempre come premessa uno scopo di tipo utilitaristico; anche i rapporti che scaturiscono dai sentimenti. Alla base dei rapporti umani sta l’interesse, il bisogno, la necessità. I rapporti sono intrinsecamente ego-centrati e di natura egoistica. Attraverso l’Altro si cerca di appagare un proprio bisogno. Un utilitarismo che non deve essere inteso, nell’accezione comune, come un atteggiamento negativo. Se amo qualcuno è dovuto al fatto che ho bisogno di amare e di essere amato, se ricambiato ciò vale anche per l’Altro. Ciò si verifica anche nei rapporti di lavoro, con una connotazione più cinica, in quanto non sono accompagnati da sentimenti positivi condivisi, ma da egoismi, necessità, ambizioni, scaturiti dalla volontà di conquistare un vantaggio sull’Altro. Queste dinamiche si sviluppano anche nei rapporti fra gruppi sociali con l’aggravante attivazione di rigidi meccanismi di difesa da ambo le parti. L’incontro con l’Altro è sempre un momento complesso della nostra quotidianità, eppure non se ne ha conoscenza o viene sottovalutato, così come il linguaggio utilizzato nella relazione.
“Il linguaggio è la casa dell’essere”2. E’ ciò che rappresenta la persona. Nel primo incontro il linguaggio verbale e il linguaggio del corpo vengono controllati e valutati inconsciamente dall’Altro. Attraverso il linguaggio una persona cerca di comprendere chi ha di fronte e cosa vuole; di afferrare il controllo della situazione, di restare o di allontanarsi se la ritiene pericolosa o a lui non utile. Alcuni giorni fa mi trovavo sul metrò Milano; ad un certo punto notai un uomo di mezza età che stava rubando un oggetto da uno zainetto di un altro passeggero. Avvicinatomi chiesi di consegnarmi il maltolto e lo restituii al legittimo proprietario. Raggiunta la stazione successiva il borseggiatore scese e fermatosi sulle porte sbarrate, mi gridò: “Io sono un ladro, tu chi c…. sei ?” Era evidente che per lui ero un vecchio, ma il mio linguaggio lo aveva confuso e sconfitto. Non mi aveva compreso!
Queste dinamiche sono presenti anche nei rapporti fra i soggetti coinvolti nel processo di inserimento al lavoro delle persone disabili. Quando un soggetto – ente, servizio o persona – vuole perseguire un collocamento al lavoro si rivolge a una azienda, attiva comportamenti di relazione e comunicazione che possono ottenere o compromettere il risultato se non adeguati.
L’azienda, di fronte a una richiesta di inserimento, attiva sempre atteggiamenti di difesa che spesso si traducono in una iniziale chiusura. Di conseguenza si attivano comportamenti aggressivi di insistenza che compromettono definitivamente l’esito positivo; questo induce nel servizio la constatazione che l’azienda è contraria ad accogliere lavoratori disabili, rafforzando la convinzione che si tratti di un’impresa da obbligare con tutti mezzi previsti dalla legge. E’ difficile porsi nei panni dell’Altro. Non si cerca di comprendere le ragioni di questo atteggiamento; non si pensa che questo è dovuto al semplice fatto che l’azienda ritiene un suo diritto decidere quando e come assumere un lavoratore. L’imposizione normativa è già ritenuta a priori un’ingiusta aggressione. Non comprendendo il punto di vista dell’azienda, non si capisce che la richiesta di assunzione è considerata lesiva di legittimi interessi e si conclude che l’azienda non è disponibile ed è refrattaria al rispetto della legge. Se non si comprendono i bisogni dell’altro e si usano linguaggi diversi, non ci può essere alcun incontro e comprensione dei rispettivi ruoli e si preclude qualsiasi possibilità di esito positivo.
Alla non condivisione dei bisogni si accompagna l’uso di linguaggi diversi. La complessità ontologica del processo inclusivo viene infatti drammaticamente complicata dalla errata modalità di comunicazione e dai pregiudizi che appartengono agli enti preposti e ai servizi dedicati. Spesso quella che è una dinamica complessa di rapporto sul tema viene aggravata dall’uso del linguaggio. Il linguaggio utilizzato dal servizio e dall’impresa sono diametralmente opposti: uno parla di sostegno, l’altra di profitto; uno di diritti e servizio al sociale, l’altra di servizio all’azienda. Uno parte da un bisogno collettivo, l’altro da un bisogno soggettivo d’impresa. La richiesta e il linguaggio utilizzati dai professionisti del collocamento mirato risultano incomprensibili per l’azienda e l’ostinazione produce inasprimento delle posizioni e conseguente insuccesso. Ovviamente l’esito negativo dell’incontro sarà attribuito all’altro e quindi, dal punto di vista del servizio, al solito atteggiamento delle aziende di fronte ai disabili. L’azienda viene considerata ostile all’inserimento dei disabili e la sua ostilità è causa dell’incontro fallimentare con il servizio. L’azienda è pertanto un avversario da sconfiggere, un nemico da punire e sottomettere.
In questi casi non ci si pone nemmeno il dubbio che l’impresa non ha compreso il nostro linguaggio e quindi non ci può essere d’aiuto, che abbiamo presentato le nostre richieste e i nostri bisogni e non abbiamo ascoltato quelli aziendali. Perché il responsabile del personale dovrebbe aiutarci? Come ci saremmo comportati se fossimo al suo posto? Quando cerchiamo un collaboratore per il nostro lavoro ci comportiamo allo stesso modo?
Comprendere l’Altro è un esercizio complesso che richiede un costante allenamento. Bisogna cercare di capire a fondo il suo essere, ascoltare i suoi bisogni, comprendere e com-prenderlo. Si pensa comunemente che dipenda unicamente dal datore di lavoro, dal superiore, dal capo, dal desiderio di avere più denaro, più carriera, più autonomia. Non è cosi! E’ il subordinato che attraverso il suo comportamento porta il superiore a concedergli; è lui che prende, Il superiore con-cede. Se non si comprendono queste dinamiche relazionali si rischia di faticare molto e ottenere poco. Ecco che il servizio si presenta in azienda per chiedere di assumere un proprio assistito e di fronte a a un rifiuto, si arrende maturando delusione, per poi ripresentarsi in un’altra azienda con le stesse modalità, usando lo stesso linguaggio e ottenendo, di conseguenza, analogo risultato. In queste situazioni quando si ottiene un risultato positivo lo si deve al fatto che l’azienda era già in cerca di un lavoratore disabile o aveva una convenzione in scadenza o aveva ricevuto una sanzione con l’obbligo di regolarizzare la posizione.
I risultati conseguiti nei vent’anni di vigenza della legge 68/1999 sono alquanto deludenti3. Sono state sprecate risorse inutilmente. Gli addetti hanno fallito il loro mandato, ma nessuno si sente in difetto in quanto la colpa viene scaricata sulle aziende che, da sempre, non vogliono assumere lavoratori disabili e preferiscono pagare le sanzioni previste dalla legge.
Ritengo che le aziende assumono lavoratori disabili perché soggette a un obbligo e non per un dovere sociale; tuttavia non è certo con l’arroganza ideologica o l’imposizione normativa che riusciremo a cambiare la sensibilità e la disponibilità delle imprese. Non otterremo mai nulla se non utilizzeremo un linguaggio comprensibile e accettabile per le aziende, se continueremo a parlare di diritti, di obblighi, di doveri, di accoglienza…. Solo un messaggio di supporto, di aiuto sul piano tecnico potrà renderle disponibili.
Spesso mi sono sentito dire che in azienda non potevano inserire dei lavoratori disabili in quanto sarebbero stati esposti a pericoli e di pregiudizio alla sicurezza degli altri lavoratori. Quando spiegavo ai responsabili del personale o agli amministratori che un lavoratore disabile poteva essere un dipendente cardiopatico o diabetico, a volte si scoprivano disabili loro stessi. Spesso gli imprenditori ritengono disabili gli handicappati, i matti e i mutilati. A conferma che per comprendere chi incontro e per essere capito devo conoscerlo, conoscere i suoi pregiudizi, le sue opinioni, la sua esperienza e le sue aspettative. Questa è la sola porta d’accesso per comprendere l’Altro; il resto è un muro invalicabile e, mentre cerco di espugnarlo, ricorrendo ai vecchi metodi di richiamo ai suoi obblighi e doveri, le persone disabili attendono invano un’occupazione, o cercano altri passeur verso il lavoro, e la comunità continua a sperperare risorse e a sostenere mediatori incapaci anziché accompagnare efficacemente le persone disabili disoccupate.
È quindi tempo di invertire il paradigma di intervento: non più dal disabile all’azienda, ma dall’azienda al disabile. Imparando ad ascoltare l’azienda, comprendendo e usando il suo linguaggio.
I servizi che si occupano di inserimenti lavorativi dispongono di pochi operatori, spesso impreparati al compito. Serve una rifondazione culturale dei Servizi per il Collocamento Disabili attraverso una adeguata formazione. Sono passati quasi due decenni dall’entrate in vigore della legge 68/1999, di anno in anno diminuiscono le risorse economiche disponibili, mentre le persone disabili da troppo tempo attendono una proposta di lavoro.
Cerchiamo di comprendere il mondo delle imprese, i loro bisogni, le loro ansie e le loro paure se vogliamo ottenere una collaborazione e una condivisione della cultura inclusiva.
- Cfr. A. Anastasi, Psicologia differenziale: differenze di comportamento individuali e di gruppo, Giunti-Barbera, 1969.
- M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, Adelphi, 1987.
- Si veda l’articolo di Nicola Orlando pubblicato su questo sito.
Grazie, articolo molto interessante e utile.
Grazie, condivido ampiamente i contenuti dell’articolo. Ne faccio tesoro perchè, in questa fase della mia vita lavorativa ho un duplice ruolo di Assistente Sociale in un ente locale e di piccolo Imprenditore Agricolo alle prese con esperienze di inserimenti lavorativi in azienda. Sono partita fortemente motivata a questa esperienza in azienda al punto che ho coinvolto altri colleghi imprenditori in un dialogo con i servizi sociali preposti all’inserimento di lavoratori disabili proprio per favorire la reciproca conoscenza, convinta di favorire opportunità per entrambe le parti. L’esperienza avviata mi ha aperto ben altre prospettive: In primo luogo mi sono sorpresa del fatto che, durante questi incontri, riscontravo maggiore difficoltà al dialogo e all’incontro, allo sforzo di reciproca conoscenza proprio da parte di “alcuni” operatori dei servizi sociali piuttosto che da parte degli imprenditori presenti (come mi immaginavo potesse essere). Inoltre sto scoprendo come l’impianto normativo sia talmente rigido e standardizzato da non favorire affatto l’incontro e la personalizzazione dei percorsi di integrazione lavorativa di persone disabili, cosa che invece viene ampiamente declarata.
Farò sicuramente tesoro di queste suggestioni nel mio percorso.
Grazie