Disuguaglianza di genere e Covid-19


Daniela Oliva | 9 Febbraio 2021

L’emergenza sanitaria continua. E con essa le misure di contenimento che coinvolgono pesantemente la vita quotidiana delle persone. Ma gli effetti di queste misure, come sempre accade nelle politiche pubbliche, non coinvolgono donne e uomini allo stesso modo. Sarà anche vero che “siamo tutti nella stessa barca”, ma, passati i primi mesi di stordimento collettivo, adesso è chiaro che alcuni stanno in prima classe e altri si ritrovano in terza classe. È qui che troviamo, in maggioranza qualificata, le donne, in buona compagnia dei figli, nonché degli anziani. Donne della “generazione sandwich”, impegnate nella cura dei figli, dei genitori e, se sono fortunate, anche in un lavoro “esterno”. Dimenticavo… l’equipaggio, dal comandante al mozzo, è rigorosamente maschile. Una sorpresa, vedersi in terza classe. Pensavamo di essere già arrivate almeno “in seconda”.

 

A novembre 2019 il 53esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese nel 2019 sintetizza l’imbarazzante situazione della questione femminile in Italia. Le donne sono il 42,1% degli occupati, con un tasso di attività del 56,2% (75,1% quello degli uomini). Il 60,2% delle donne che lavorano a tempo parziale si colloca nel cosiddetto “part time involontario”. Solo il 27% dei manager è donna e anche nelle società a controllo pubblico sottoposte al DPR 251/2012 di applicazione della legge 120/2011 c.d. Golfo-Mosca) le donne rappresentano solo il 28,5% dei componenti il CdA (peraltro, nei CdA non sottoposti a questa legge le donne presenti sono al di sotto del 18%1). I guadagni medi (Gender Pay Gap) sono inferiori del 18% rispetto a quello degli uomini così come le pensioni il cui importo medio è di 17.569,00 per le donne a fronte dei 23.975,00 degli uomini.

 

Anche il Gender Equality Index 2020 redatto dall’European Institute for Gender Equality (EIGE) evidenzia come, pur avendo guadagnato posizioni in questo ultimo decennio, l’Italia si ritrovi ancora ad un imbarazzante 14esimo posto nella graduatoria dei paesi europei. La condizione di disuguaglianza delle donne interessa ed è trasversale a tutte le aree di analisi, anche se con indici differenti, comunque sempre inferiori alla media europea.

Ma ciò che, forse, rende ancora più “crudi” questi dati è che, sempre il Rapporto Censis, registra come, ancora oggi, “il 63,5% degli italiani riconosce che a volte può essere necessario o opportuno che una donna sacrifichi parte del suo tempo libero o della sua carriera per dedicarsi alla famiglia”.

 

Eppure eravamo migliorati!

Perché non ci siamo resi subito conto che le misure messe in campo non avevano gli stessi effetti per tutti? Una possibile spiegazione, fra le varie, è che, tutto sommato, eravamo convinte (questa volta “il femminile” è d’obbligo) che gli sforzi fin qui fatti avessero prodotto risultati positivi. In tutte le sfere della vita pubblica e privata non si possono negare dei miglioramenti.

Ma le postazioni guadagnate non erano, non sono stabili. Ce ne siamo accorti (accorte) grazie all’emergenza sanitaria che ha determinato quella che alcuni hanno definito come shecession o pink-collar recession, per sottolineare come questa crisi abbia avuto un impatto maggiore sull’occupazione e le prospettive di impiego delle lavoratrici. Vittime della segregazione orizzontale che le vede impiegate in settori più esposti al rischio sanitario e nei settori più colpiti dalla crisi economica, le lavoratrici risultano oggi più a rischio rispetto alla crisi finanziaria del 2008-2009, definita appunto mancession, perché aveva toccato settori come l’edilizia e la manifattura pesante, a occupazione prevalentemente maschile2

 

La sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole è stata una decisione che non ha messo in discussione una visione culturale che vede il lavoro di cura essenzialmente appannaggio delle donne, nonostante modeste esperienze di “condivisione” per lo più veicolate attraverso il welfare aziendale. Il fatto che nella seconda ondata di emergenza sia stata posta una maggiore attenzione a salvaguardare i servizi per l’infanzia non intacca la sostanza del problema.

Secondo il follow up di un’indagine svolta nella primavera del 2019 e replicata a fine aprile 2020 su un campione di 1250 donne rappresentativo delle italiane occupate, è emerso che durante l’emergenza i maggiori carichi familiari hanno riguardato le donne: il 68,5% di esse ha dovuto dedicare maggior tempo al lavoro domestico nonostante la compresenza, in casa, del partner determinata dal lockdown3. Il 55% dei posti di lavoro persi, a causa della COVID, riguarda le donne.

 

Il contributo dell’Europa

In Italia abbiamo affrontato la questione della parità di genere per lo più sul versante “normativo”. È del 1975 la riforma del diritto di famiglia che modifica radicalmente la posizione della donna sancendo pari diritti per l’uomo e per la donna. A seguire altre leggi importanti per la donna (il divorzio, l’aborto…), ma sempre riguardanti la sfera normativa dei diritti personali, poco e niente sul tema della dipendenza economica, il maggiore ostacolo, a nostro avviso, all’uguaglianza di genere.

A questo, tuttavia, ha pensato l’Europa e lo ha fatto mirando, come si suol dire, al cuore del problema: la partecipazione al mercato del lavoro. Attraverso il Fondo Sociale Europeo e non solo, sono state promosse importanti politiche finalizzate a promuovere le pari opportunità di genere per: sostenere una maggiore partecipazione al lavoro; garantire pari opportunità di accesso e di permanenza nel sistema (una donna su tre esce dal mercato del lavoro all’arrivo primo figlio e non rientra); per garantire servizi e dispositivi di conciliazione; superare la segregazione orizzontale (concentrazione in settori di attività “poveri”) e la segregazione verticale (difficoltà di accesso ai vertici della carriera).

Detto ciò, è anche necessario dire che, in Italia, la grande opportunità offerta dai finanziamenti europei è stata, in buona parte, finalizzata a creare servizi e dispositivi di conciliazione. Fondamentali, chiariamoci, ma anche ambigui perché conciliare significa, banalmente, lavorare di meno (nei settori “poveri”), essere pagate meno, non fare carriera.

 

Che fare?

Le politiche di promozione delle pari opportunità di genere finanziate dall’Europa si basano sul cosiddetto “approccio duale” (Dual Approach), ovvero iniziative esplicitamente dedicate all’empowerment femminile e mainstreaming di genere (attenzione ai diversi effetti che le decisioni politiche hanno su uomini e donne). Si tratta di un approccio diverso, per impostazione e impatto, da quello normativo che regola “per quote” la presenza delle donne, ad esempio, nella composizione delle liste elettorali, piuttosto che nei CdA delle aziende quotate in borsa4.

Fino ad oggi questi due filoni di pensiero hanno avuto vita sostanzialmente distinta e parallela. Da un lato, i fautori (le fautrici) di quello che potremmo definire un processo di maturazione culturale. Sostenuto, certo, anche da politiche esplicitamente “a discriminazione positiva” finalizzate a favorire in maniera esplicita gli uomini piuttosto che le donne per riequilibrare le posizioni in essere. Dall’altro, le sponsor di quella che spesso gli oppositori chiamano “la politica del Panda”.

La Covid-19, fra i tanti effetti, forse ha avuto anche quello di avvicinare queste due posizioni. Se c’è una cosa che il Covid-19 ci sta insegnando è che in Italia per avere parità di genere bisogna imporla per legge”5. Con rammarico, devo/dobbiamo riconoscere che il successo pur fin qui registrato non solo non è sufficiente, ma ha gambe troppo deboli: bisogna mettere ancore solide radici ai traguardi conquistati. Per questo credo che dobbiamo fare un passo avanti nella riflessione. Due le linee di lavoro sulle quali ci piacerebbe aprire una riflessione:

  1. pretendere l’equilibrio di genere garantito anche sul piano normativo (sulla falsariga della legge Golfo Mosca). Un esempio lo abbiamo di recente visto in bandi di gara della Regione Lazio6 e non solo;
  2. Istituire un’Authority che sorvegli e sanzioni la mancata applicazione di questi principi (equilibrio di genere e mainstreaming di genere) e obblighi a valutare ex-ante l’impatto potenziale delle decisioni pubbliche sulle pari opportunità e l’empowerment

 

Tra le proposte contenute nel documento “Donne per un nuovo Rinascimento” redatto dalla Task Force costituita dalla Ministra Bonetti si parla di istituire un Osservatorio sulla parità di genere presso il Dipartimento per le Pari Opportunità per il monitoraggio del livello di gender equality dei soggetti pubblici e privati. Così come di prevedere una valutazione dell’impatto di genere nella fase progettuale di qualsiasi iniziativa legislativa ex-ante ed ex-post. Vedremo se questi suggerimenti avranno seguito e la loro forza regolativa visto che gli Osservatori hanno una mera se pur fondamentale funzione conoscitiva. Analogamente, non sappiamo cosa farà l’Osservatorio sullo Smart Working appena varato dalla Ministra della Pubblica Amministrazione. Confidiamo che si occupi anche di monitorare che il dispositivo non sia utilizzato solo o prevalentemente dalle donne. Non vorremmo che fosse un ulteriore strumento di conciliazione che ci blocca in seconda classe, visto che appena nevica o tira brutta aria si chiudono le scuole e dal momento che, sempre grazie alla Covid, si pensa di riorganizzare l’assistenza agli anziani puntando molto, se non tutto, sulla domiciliarità. Ottima soluzione, intendiamoci, se non fosse che la condivisione del lavoro di cura è ancora una chimera e il supporto pubblico alla domiciliarità un auspicio più che una realtà.

  1. Rapporto Fondazione Bellisario-Cerved, 2020.
  2. Prometeia MIO, Elena Salmaso, giugno 2020.
  3. Daniela Del Boca, Noemi Oggero, Paola Profeta, Maria Cristina Rossi, Claudia Villosio, Prima, dopo e durante Covid-19: disuguagianza in famiglia, lavoce.info, 12 maggio 2020.
  4. Cfr la citata Legge Golfo Mosca.
  5. Lella Golfo, La parità di genere, chimera anche in tempi di Covid, Il Sole 24 Ore, 24 aprile 2020.
  6. La Regione Lazio, in alcuni bandi di gara su azioni finanziate con i fondi strutturali ha introdotto dei criteri di premialità (indicativamente tra il 12 ed il 13% sul punteggio complessivo) per le società che sono in possesso della certificazione internazionale di Social Accountability (SA 8000), che qualifica le organizzazioni che investono sulla sostenibilità sociale, ad esempio, con la presenza di donne nel management, asili nido aziendali, tutele per la conciliazione tra vita e lavoro, orari compatibili con la genitorialità.