L’occasione di questa riflessione è stata la presentazione degli esiti del bando InTreCCCi, finanziato dalla Fondazione Compagnia di San Paolo, e cofinanziato da Fondazione Carige, Fondazione Agostino De Mari e Fondazione Carispezia, che ha visto lo sviluppo di numerosi interventi in Piemonte1 e Liguria; al di là degli specifici progetti e delle considerazioni valutative proposte in quella sede, per le quali si rimanda a questo link, il racconto delle esperienze presentate offre lo spunto per una riflessione sulle idee-guida di chi opera nel sociale.
Certo le tematiche del bando spingevano nettamente in questa direzione, ma l’elemento emerso chiaramente è la centralità di dimensioni quali la prossimità, l’attivazione della comunità, il protagonismo dei cittadini, la generatività, e così via; ciò si traduce in strategie di intervento basate sul mutuo aiuto tra cittadini, sulla capacità degli enti di mettersi in rete per sviluppare azioni di comunità, su azioni che si realizzano al di fuori dei contesti istituzionali e così via. Questo welfare è inoltre dialogico, collaborativo, partecipato, è tipicamente un welfare che si costruisce insieme; l’enfasi sull’amministrazione condivisa, tema di cui Welforum si è più volte occupato, è in piena sintonia con tale sviluppo. Il welfare che emerge da tanti progetti è quindi un luogo di incontro tra operatori pubblici, di terzo settore, soggetti attivi della società civile, cittadini attivi, in cui spesso la barriera tra chi fruisce di un servizio e chi lo realizza tende a sfumare, in cui le persone dialogano, e integrano, senza soluzione di continuità, risposte formali e informali, professionali e di vicinato.
Tale visione, che qui sinteticamente possiamo sintetizzare come welfare di prossimità, oggi esercita un notevole fascino su chi opera nel welfare; ma, al tempo stesso, segna una discontinuità non marginale con il sistema dei servizi sociali così come si è sviluppato negli ultimi decenni. Non perché il welfare consolidato neghi esplicitamente questo tipo di orientamenti, ma perché esso si è sviluppato enfatizzando aspetti diversi, che risultano di fatto solo parzialmente compatibili con la visione sopra richiamata.
Quali saranno gli esiti lo si vedrà negli anni a venire, ma in primo luogo è bene essere consapevoli di quanto i due universi – il welfare di prossimità e il welfare consolidato, prevalentemente prestazionale – procedano su binari distinti; e quindi del fatto che l’enfasi sul primo deve fare i conti con un contesto che mostra registri molto diversi. Facciamo degli esempi.
Le professionalità degli operatori sociali, quelle insegnate nei corsi di laurea e nelle altre offerte formative, sono generalmente ispirate ad un welfare essenzialmente professionale / prestazionale; certamente si assiste ad una declinazione di tali professioni in termini coerenti con un welfare di prossimità (l’infermiere di comunità, l’operatore di prossimità, il portiere sociale) e talvolta queste declinazioni sono oggetto di specifiche iniziative formative. Ma la domanda è: diventerà ad un certo punto “normale”, nella costruzione dei curriculum formativi, che l’assistente sociale, l’educatore, lo psicologo, l’oss, l’infermiere siano in ridefiniti come professioni coerenti con un welfare di prossimità?
Le relazioni tra enti, malgrado la positiva enfasi sull’amministrazione condivisa e quindi sul principio di collaborazione, ereditano un trentennio fortemente orientato alla competizione di mercato tra i soggetti di terzo settore e alla considerazione di enti pubblici e terzo settore come controparti contrattuali anziché come alleati mossi da un medesimo obiettivo. Non a caso vengono documentati casi in cui le coprogettazioni faticano ad adottare schemi realmente collaborativi, riproducendo schemi di relazioni asimmetrici tipici degli equilibri preesistenti.
Come conseguenza, le organizzazioni di terzo settore, che senza dubbio fanno diffusamente propria, a livello ideale, la visione del welfare di prossimità, hanno spesso tratti organizzativi e leadership fortemente muscolari, talvolta un po’ aggressive e carnivore; questione di selezione naturale, se non lo fossero probabilmente sarebbero state pasto di predatori più spregiudicati di loro. La necessità di sopravvivere in un ambiente competitivo, la necessità di “pagare gli stipendi a fine mese” agli operatori, di quadrare il bilancio, spesso spingono questi enti a volersi muovere nei terreni più sicuri e definiti del welfare prestazionale, dove è chiaro quanto si è pagati e per cosa.
Gli enti pubblici comprendono le istanze del welfare di prossimità, ne intravedono il potenziale di cambiamento, ma sono in difficoltà nel momento in cui ciò scardina i loro presupposti organizzativi: quando si tratta di superare l’approccio settoriale “per uffici” e di rapportarsi con il cittadino con i suoi bisogni complessi o uscire dagli uffici e incontrare i cittadini lì dove vivono. Anche in questo caso è chiara una dialettica tra aspirazioni all’innovazione e la constatazione che ciò implica luoghi, orari, atteggiamenti profondamente diversi dall’organizzazione ordinaria degli uffici; e richiede operatori che riescano a superare la fatica della relazione che spinge talvolta a “ripararsi” dal cittadino, ergendo un muro difensivo burocratico professionale
Le comunità sono idealmente partecipi, attive, animate da spirito di protagonismo; ma, al tempo stesso, nella realtà, se non stimolate con continuità, appaiono generalmente inerti, passive, richiedenti, rivendicative. Anche perché partecipare è bello, ma costa tempo, impegno e costanza. Non è raro che chi sostiene il lavoro di comunità sottolinei come, oltre ad essere necessario un innesco iniziale, le dinamiche partecipative richiedano una continua e talvolta faticosa cura. Quanti sono i cittadini che di fronte alla prospettiva di diventare “protagonisti delle soluzioni ai propri problemi” preferiscono invece fruire di un servizio come utenti?
E, al di là delle comunità, anche le persone prese singolarmente amano la relazione, lo stare insieme, il costruire con altri. Ma al tempo stesso avvertono come rapportarsi con altri costituisca una fatica. La “fuga dalla relazione”, la ricerca di forme impersonali e distaccate per interfacciarsi con altri durante la vita quotidiana, fa parte delle esperienze vissute tanto in ambito lavorativo che personale.
Le politiche enfatizzano e auspicano, da sinistra e da destra, l’attivazione delle comunità, ma le leggi (scritte da politici di destra o di sinistra) tendono a (iper)regolare lo svolgimento di ogni attività sociale rendendo oggettivamente problematiche quelle realizzate su base di prossimità. Una cena di strada, una festa di paese, un’attività a scuola con dei ragazzi o in una scuola materna con i bambini o sono svolti chiaramente al di fuori del welfare formale, o sono ingarbugliate da norme stringenti che scoraggiano le comunità a partecipare alla co-costruzione dei servizi. Cosa mai potrebbe accadere, a livello di responsabilità, in una struttura per l’infanzia dove fossero compresenti operatori professionali, nonni e genitori?
I finanziatori sono attenti al welfare di comunità, ma generalmente le risorse – pur con l’eccezione di alcuni fondi specifici, come alcuni progetti di fondazioni – sono indirizzate in grande prevalenza verso il welfare prestazionale. Quanti programmi a matrice comunitaria e di prossimità vi sono, in tutta Italia, che possano contare su importi economici superiori a quelli – 3 milioni all’anno circa – spesi per una singola RSA di un’ottantina di posti? Generalmente, invece, a fronte di un welfare prestazionale che su un dato territorio gode di finanziamenti di alcune decine di milioni di euro, le azioni di prossimità sono sostenute con progetti, sicuramente creativi e innovativi, finanziati con poche decine di migliaia di euro.
Questo elenco è ben lontano dall’essere sistematico. Ma basta probabilmente per argomentare che, a fronte di un’adesione ideale diffusa a modelli di welfare di prossimità, esistono una pluralità di elementi che tendono a riproporre con forza un welfare di tipo prestazionale.
A fronte di questa dialettica, quali opzioni si aprono?
La prima è che l’enfasi culturale sulla dimensione della prossimità porti progressivamente ad intaccare la dimensione del welfare prestazionale, sostituendo i servizi con azioni di prossimità. Questa opzione è concretamente poco praticabile e comunque apre scenari controversi, soprattutto laddove sia necessario assicurare ai cittadini la fruizione di diritti soggettivi. Orientamenti di questo tipo sono stati teorizzati ad esempio in Inghilterra nell’ideologia della big society del governo Cameron all’inizio degli anni Dieci; nello stesso periodo dal Governo Berlusconi (il Libro Bianco La vita buona nella società attiva del Ministro Sacconi del 2009) e in generale dai governi conservatori, contrapponendo l’attivazione della società civile ad un solido assetto di servizi. Di fatto, comunque, queste opzioni non hanno avuto serie realizzazioni concrete, se non sotto forma di definanziamento del welfare. Se l’enfasi sul welfare di prossimità si collocasse in uno scenario politico che lo apparenta all’indebolimento delle risposte istituzionali, oltre che improbabile risulterebbe per molti versi ambiguo; è vero che non sembra essere questa la direzione che caratterizza l’attuale dibattito – ad esempio, nel caso del citato bando InTreCCCi, molti dei progetti finanziati riguardano azioni i cui primi protagonisti sono enti pubblici gestori della funzione socioassistenziale -, ma si tratta comunque di un rischio di involuzione di cui è necessario rimanere consapevoli.
La seconda è che i due binari, quello del welfare prestazionale e quello del welfare di prossimità, proseguano come binari paralleli e asimmetrici: paralleli, perché non si incontrano e non si contaminano; asimmetrici perché il binario del welfare prestazione è incomparabilmente più grande rispetto a quello del welfare di prossimità. È, da alcuni punti di vista, la situazione attuale, dove, per effetto delle circostanze sopra richiamate, non è facile che il welfare di prossimità, ancorché attraente da un punto di vista narrativo, possa incidere in modo significativo sul resto del sistema di welfare.
La terza possibilità è che il welfare di prossimità si riveli una fiamma di breve durata. Non sarebbe la prima volta che orientamenti potenzialmente in grado di modificare profondamente il nostro sistema di welfare abbiano un ciclo di vita relativamente breve, con una fase di enfasi soprattutto narrativa e comunicativa, seguita dall’estinzione dell’interesse per il tema. Si prenda come esempio l’enfasi sulla voucherizzazione del welfare, che a tratti, negli anni Novanta, sembrava portare ad un processo di trasformazione importante o agli schemi di pay by results sperimentati nel mondo anglosassone, acclamati da taluni autori anche nostrani, ma rimasti di fatto (e a parere di chi scrive, fortunatamente) marginali.
Gli ultimi due scenari, in cui il welfare di prossimità rimane parallelo e marginale rispetto al welfare prestazionale o anche recede, potrebbero realizzarsi laddove i costi – in senso ampio – risultassero non commisurati ai risultati. Il tema è stato sviluppato in una delle poche indagini esistenti sul tema, #WelCo – Il Welfare collaborativo, curata da Sergio Pasquinelli, in cui, dopo avere analizzato alcune esperienze pratiche, si evidenzia come questione aperta il tema anche qui richiamato: “la collaborazione richiede tempo, risorse (“collaborare costa”), vede risultati non immediati, ha un andamento carsico che i numeri spiegano solo in parte”, aspetto quest’ultimo che può rendere diffidenti circa l’effettiva ragionevolezza di investire in questa direzione.
Infine, vi è la possibilità che il welfare di prossimità contamini in modo significativo il welfare consolidato, innescando processi di cambiamento. Un esempio in via analogica può essere quello del cambio di paradigma occorso negli anni Settanta Ottanta del secolo scorso, con il progressivo abbandono di approcci basati sul principio di segregazione (isolare l’anomalia in manicomi, istituti, carceri) a vantaggio di approcci basati sull’integrazione. Gli esiti sono stati molteplici: taluni servizi sono stati profondamente trasformati (oggi riterremmo disumano un istituto per bambini come quelli che nel nostro paese erano comuni una cinquantina di anni fa e riteniamo invece di provvedere allo stesso bisogno con l’affido o la comunità alloggio), mentre altri nuovi sono stati inventati, con un vocabolario dei servizi che si è fatto via via più complesso grazie al tentativo di concepire sembra nuove e più adeguate forme di integrazione. Se il welfare di prossimità riuscirà a non essere soffocato dalle resistenze sopra descritte, se la nostra società considererà sempre più gli interventi del welfare attuale come ingessati, burocratici, spersonalizzanti e sembrerà quindi naturale promuoverne il cambiamento, è probabile che il welfare di prossimità rappresenterà uno degli snodi delle future evoluzioni del nostro sistema di protezione sociale. In quali forme ciò potrà accadere (se accadrà) saranno solo gli eventi a dirlo.
- Si rimanda qui in particolare alla presentazione della Bottega del Possibile