Parafrasando ed edulcorando il titolo di un recente film di Pif, alcuni fatti recenti invitano ad aprire una nuova riflessione sulla ingombrante ideologia della competizione.
Su welforum se ne è parlato spesso (tra i tanti, in modo particolarmente lucido, Borzaga 2019) a proposito delle relazioni tra Enti pubblici e Terzo settore: argomentando quindi come in talune (frequenti) circostanze la competizione di mercato non sia lo strumento più adatto per tutelare l’interesse pubblico, meglio perseguibile attraverso forme di amministrazione condivisa. In linea generale, ciò che si è voluto affermare è che l’elemento “ideologico” nasca dalla scelta acritica, non ponderata della competizione di mercato, che in taluni casi può effettivamente portare a chiari benefici, mentre in altri non rappresenta l’opzione ottimale: ma, appunto, per elementi ideologici, il secondo caso non viene nemmeno considerato, presupponendo che la competizione sia un bene sempre e comunque.
Questo lo si è affermato relativamente alle relazioni tra enti pubblici e terzo settore, ma forse è bene allargare questa riflessione ad un contesto in cui l’ideologia della competizione appare ancor più paradossale: quella dell’organizzazione di interventi sul territorio nazionale allocando risorse tra le pubbliche amministrazioni istituzionalmente responsabili della funzione socioassistenziale. Già nel 2018 in un ben argomentato articolo pubblicato su Welforum Maurizio Motta si interrogava sulla diffusione dei bandi come strumento di attribuzione di risorse alle pubbliche amministrazioni, mettendo in luce, insieme ad alcune potenzialità di tale opzione, anche tutti i rischi a ciò connessi, primo tra tutti la rinuncia, da parte delle istituzioni, ad assumere la responsabilità di adottare delle politiche.
Ci si sarebbe potuto attendere che, in questi anni, le riflessioni su elementi a favore o contro la scelta di allocare risorse alle pubbliche amministrazioni attraverso bandi competitivi si fossero moltiplicate, giungendo, nel corso del tempo, a consolidare criteri per orientarsi tra queste due strategie.
Invece ciò non è avvenuto, mentre il ricorso a bandi competitivi appare sempre più diffuso. Talvolta si tratta, è vero, di competizioni almeno in parte pro forma, con un’attribuzione effettiva delle risorse realizzata almeno in parte d’ufficio sulla base di criteri ripartitori (se va bene) o di criteri di prossimità politica. Ma, accanto a questi casi di “competizione pilotata”, vi sono altri casi in cui la competizione è effettiva e la valutazione dei progetti presentati porta al finanziamento o meno delle proposte di ciascuna pubblica amministrazione interessata.
Il sistema dei bandi è, tra l’altro, il sistema che in molti casi governa l’attribuzione a pubbliche amministrazioni delle risorse provenienti dal PNRR.
Il tema degli avvisi pubblici che stanno uscendo in queste settimane è stato oggetto di dibattito, ancora una volta, relativamente alle relazioni tra Enti pubblici e Terzo settore; ad esempio nel caso dell’Avviso per la valorizzazione dei beni confiscati alle mafie che trascura il Terzo settore, con conseguenti rimostranze e tentativi di ricucitura tra il Forum Nazionale del Terzo settore e la ministra Carfagna: al di là che si tratti di un avviso rivolto ad enti pubblici, non appare in tale atto nessun riferimento al fatto che essi siano tenuti a coinvolgere il Terzo settore del proprio territorio.
Ma, appunto, forse è utile fare un passo indietro: è ragionevole che la strategia di allocazione di risorse tra Enti pubblici sia governata da meccanismi competitivi? È corretto per i beni confiscati? È corretto per la destinazione dei fondi del PNRR missione 5 (e quindi destinati a servizi sociali, disabilità, housing, marginalità sociale, ecc.) allocati alla Regioni che, quantomeno in alcuni casi, stanno a loro volta provvedendo a destinarli mettendo in competizione tra loro le istituzioni che gestiscono la funzione socioassistenziale?
Da una parte, vi sono ragionamenti che portano ad una risposta affermativa: evitiamo finanziamenti a pioggia, che vanno in realtà a disperdersi su attività ordinarie senza portare elementi aggiuntivi; stimoliamo anche le pubbliche amministrazioni ad essere innovative premiando quelle migliori, e così via.
D’altra parte, non sfuggirà la delicatezza di questo tipo di scelte: uno Stato dovrebbe fare in modo che, laddove un certo livello di amministrazione della cosa pubblica – un comune, un distretto sociale, un’azienda sanitaria – risulti inerte o inadeguato, evolva verso il meglio, mentre appare discutibile dare vita ad un meccanismo competitivo, soprattutto nel momento in cui da questo discende che alcuni cittadini abbiano opportunità diverse da altri perché il progettista dell’ente gestore del territorio in cui abitano è più o meno capace del collega del distretto vicino. Si pone inoltre un problema simile a quello che porta, nell’ambito delle relazioni con il Terzo settore, a ragionare di coprogettazione: avendo a mente l’interesse generale, è auspicabile un contesto in cui “vince il migliore” o uno in cui i diversi soggetti – nel discorso che oggi stiamo conducendo, i diversi enti pubblici – condividono ciascuno le proprie eccellenze? Laddove un ente pubblico – per bravura dei suoi dirigenti o per effetto del caso – sia riuscito a ingaggiare una risorsa preziosa, ad esempio un progettista in grado di tessere network a livello comunitario, preziosi per accedere ai fondi europei, cosa è più utile per far crescere il sistema dei servizi e cosa genera equità tra i cittadini: mettere in competizione questo ente pubblico con altri, così da stimolare i soggetti più arretrati a migliorarsi, o fare in modo che tali risorse siano condivise, che condividano i propri contatti e il proprio sapere con persone di altri enti, li formino e li facciano crescere?
La competizione diventa ideologia nel momento in cui il secondo di questi termini – in altre parole, quello orientato alla condivisione di saperi all’interno delle pubbliche amministrazioni e all’azione organizzativa per migliorarle – non viene nemmeno considerato come alternativa e si procede per riflesso condizionato a generare competizione.
E la competizione, si sa, da forma alle menti e alle priorità. Riprendiamo l’esempio precedente: nel momento in cui il contesto competitivo entra a far parte della mentalità degli enti che gestiscono la funzione socioassistenziale, i comportamenti, nel medio periodo, si conformano: e quindi non si competerà solo per le risorse PNRR, ma si considererà con estrema cautela che il proprio migliore funzionario possa formare i colleghi del distretto confinante, perché domani essi potranno risultare concorrenti. È accaduto al Terzo settore allevato per trent’anni alla competizione e gli enti pubblici non sono immuni.
Al tempo stesso è del tutto da verificare l’effetto di “stimolo” generato dalla competizione, tanto più laddove, come in questo caso, il legame tra eccellenza, finanziamento, servizi ai cittadini e consenso risulta per sua natura opaco.
Si pensa davvero, in altre parole, che la penalizzazione di un territorio il cui ente è poco capace ad esprimere progettualità porti 1) la diminuzione dei servizi ai cittadini (questa sì, lo porta) e quindi 2) lo scontento dei cittadini che, resisi conto di essere peggio serviti rispetto ad un territorio confinante, avviano un’azione di pressione nei confronti dei propri amministratori locali (improbabile), i quali, di conseguenza 3) avviano un’azione di riorganizzazione delle strutture deputate alla funzione socioassistenziale. Nulla di strano se in molti territori il flusso delle conseguenze si ferma al punto 1, con buona pace sia dell’equità (ovviamente), sia dello stimolo all’innovazione.
Con ciò non si intende affermare – sarebbe altrettanto ideologico – che, in generale, la competizione tra pubbliche amministrazioni sia sempre da evitare: si possono immaginare talune azioni dove effettivamente, più che assicurare un miglior livello di vita ai cittadini, si punti ad elaborare idee innovative, con l’obiettivo di diffonderle successivamente; non che sia inutile, anche in questo caso, chiedersi in che misura l’innovazione possa nascere dalla competizione e dalla collaborazione, ma talvolta potrebbe essere una via da seguire. Ma il fatto di far evolvere in modo implicito e generalizzato in senso reciprocamente competitivo la mentalità delle pubbliche amministrazioni è cosa diversa.
Questo sta avvenendo in modo strisciante ma diffuso, senza che il tema sia oggetto di approfondimento o di dibattito pubblico. Insomma, mentre tutto ciò sta accadendo, a quanto pare, tutti, compresi gli enti pubblici diretti interessati, stanno a guardare.
super gianfranco, sempre lucido e chiaro.
condivido
grazie
ARTICOLO DENSO DI SPUNTI DI RIFLESSIONE.
articolo molto interessante, condivido la competizione non può garantire l’interesse pubblico
Generalmente commentare se stessi è un po’ strano, ma… giusto per segnalare che nei giorni successivi all’articolo si sono moltiplicati i casi di competizione tra enti pubblici per i bandi relativi alla Missione 5 del PNRR. Per aggiungere un particolare su un altro tema a me caro: spesso per affrontare tale scadenza molto ravvicinata gli enti stanno promuovendo “coprogettazioni” – in realtà più che altro esternalizzazione delle funzione di progettazione – per chiedere al Terzo settore di redigere i progetti da presentare. Da grande sostenitore dell’amministrazione condivisa, mi chiedo che senso abbia una coprogettazione che ha davanti un orizzonte di tempo una decina di giorni…