Da un lato gli annunci, prima sulla fase 2, ora sulla fase 3. Dall’altro gli appelli, mai così numerosi come in queste settimane: lettere aperte, dichiarazioni, manifesti. In questa rincorsa tra promesse più o meno mantenute e richieste più o meno circostanziate non guasterebbe qualche collegamento in più. Così come un allineamento tra le risorse che si stanno rendendo disponibili e i contenuti, i progetti. Qualche esempio.
Il “Piano Colao” non contiene alcuna previsione di spesa, quindi non sappiamo quanto costano le 102 proposte avanzate. Viceversa, il Decreto Rilancio stabilisce diversi e rilevanti stanziamenti, in particolare a favore della territorialità delle cure, tutti da riempire di contenuti, attraverso Piani regionali dalla geometria inevitabilmente variabile e una tempistica molto incerta.
Ancora: l’Italia dovrà presentare a settembre un Recovery Plan in adesione al programma Next Generation EU per utilizzare le ingenti risorse disponibili (oltre 100 miliardi), un piano che toccherà anche il welfare – la cosiddetta Italia Inclusiva: con quali proposte? Riforma degli ammortizzatori sociali, costruzione di un “secondo pilastro” di tipo integrativo, messa a punto di una “dote” per i giovani e le giovani coppie – i grandi assenti nelle misure emergenziali di questi mesi – revisione del reddito di cittadinanza, rafforzamento del welfare territoriale, su cui ritorniamo più oltre: i dossier possibili sono tanti. Che cosa hanno prodotto gli Stati Generali, concretamente, su tutto questo? Perché i fondi ci saranno, ma senza progetti li perderemo.
E poi: la Commissione europea darà luce a un Action plan per l’economia sociale per la programmazione comunitaria 2021-2027. In quella cornice verranno definiti obiettivi, strumenti e risorse per rafforzare il contributo allo sviluppo economico e sociale europeo del terzo settore. L’appello sottoscritto da decine di studiosi e dirigenti del settore è che l’Italia faccia altrettanto: si doti di un ”Action Plan” per tracciare la strategia con cui rendere l’impresa sociale e l’economia civile parte integrante del rilancio del sistema Paese.
Family Act: il percorso è iniziato
Finalmente un pacchetto integrato, organico, a favore delle famiglie, delle giovani coppie, della natalità, della conciliazione dei tempi. È vero, mancano molti dettagli e l’iter previsto prevede molti decreti, sarà un iter lungo, da uno a due anni: richiede una stabilità di intenti politici su cui è difficile scommettere. Ma si tratta di un traguardo a lungo atteso. Che ruota su tre assi: il sostegno economico (assegno universale), l’intervento sui tempi, con nuovi e più estesi congedi per maternità e paternità, e il potenziamento dei servizi, in particolare i nidi, particolarmente carenti al Sud.
Centrale la proposta di assegno universale, che dovrebbe in parte riassorbire quella disordinata stratificazione di bonus vigenti, ma la cui entità e la cui platea restano incerte. Secondo la proposta originaria del ministro Bonetti si prevedeva da 80 a 160 euro per figlio minore, a seconda del reddito familiare. Cifre che non faranno molta differenza per i lavoratori dipendenti, per i quali il nuovo beneficio sostituirà gli attuali assegni al nucleo familiare, mentre la farà per i disoccupati, i lavoratori autonomi, precari, intermittenti. Cifre su cui già iniziano a circolare dubbi sulla reale efficacia nel sostenere la genitorialità, ma intanto un punto fermo, certo, universale, che prima mancava.
E adesso un Family Act per la disabilità e la non autosufficienza
È da 30 anni che si attende una riforma dei servizi di long term care, mentre sulla disabilità se mettiamo a confronto gli annunci fatti negli ultimi due anni e le azioni effettivamente realizzate il quadro è deprimente.
I non autosufficienti di domani saranno più numerosi, più poveri, con meno aiuti familiari. Arriveranno infatti all’età della pensione generazioni con carriere lavorative frammentarie, intermittenti, molto penalizzate dal sistema contributivo. Le pensioni modeste di domani aumenteranno le diseguaglianze tra chi potrà contare su patrimoni familiari e chi no. E inoltre, bassa fecondità e crescita delle separazioni coniugali ridurranno drasticamente il numero di parenti (figli, coniuge) che si prenderanno cura di una persona non autosufficiente, i cosiddetti caregiver. Ci stiamo preparando a questo scenario?
Passata la tragedia nelle RSA, dovremo mettere mano a un settore congelato in termini decisionali in vari ambiti: i servizi da garantire in termini di livelli essenziali di assistenza, una indennità di accompagnamento i cui limiti abbiamo più volte evidenziato, una legge sui caregiver su cui – notizia di fine maggio – finalmente è ripreso l’iter parlamentare in Senato1.
30 giugno: Un Webinar sulla nuova assistenza domiciliare
I servizi domiciliari sono uno degli assi portanti di un welfare di territorio. Il decreto Rilancio stanzia 734 milioni di euro per il rafforzamento dell’assistenza domiciliare sociosanitaria (Adi), cifra che rappresenta quasi la metà di quanto si spende annualmente a livello nazionale per questo tipo di servizio. Si tratta di un’opportunità da cogliere per superare i limiti attuali: prestazioni molto standardizzate e di durata limitata nel caso dell’Adi, un’assistenza di scarsa intensità e utilizzata da una piccola nicchia di persone fragili nel caso dell’assistenza domiciliare dei Comuni (Sad).
E le famiglie ora chiedono servizi: i risultati della ricerca che abbiamo realizzato ad aprile su un campione non probabilistico di mille caregiver ci hanno sorpreso. L’abbiamo intitolata L’Italia che aiuta chiede servizi perché solitamente, al primo posto tra ciò che si desidera, le famiglie chiedono aiuti economici. E invece qui è emersa per prima la richiesta di informazioni, aiuti diretti, insomma servizi che le sostengano nei compiti di cura.
Se questo è lo stato dell’arte, non ha senso limitarsi ad aggiungere risorse, lasciando immutato il resto: verrebbe sprecata un’importante occasione di rinnovamento e discontinuità col passato, un’occasione per ripensare l’intero sistema dell’assistenza a domicilio.
Questo è il motivo del Webinar che abbiamo organizzato per il 30 giugno in collaborazione con Acli e Legacoop. Qui il programma e le modalità di iscrizione.
E finalmente, l’infermiere di famiglia
Per rafforzare la rete di cure territoriali, il secondo stanziamento più rilevante per entità nel decreto Rilancio riguarda l’infermiere di famiglia: 332 milioni per dotare tutto il territorio nazionale di 8 infermieri ogni 50.000 abitanti: ne servono 9.600. Un intervento che ha ricevuto il plauso della Fnopi, la Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche.
Una figura assolutamente chiave, che potrebbe avere un ruolo cruciale sia nel collegamento tra ospedale e territorio, sia in quello tra sanità e servizio sociale.
Una figura istituita ora per legge, aprendo la porta alla sua presenza omogena a livello nazionale. Dove l’infermiere di famiglia/comunità è già attivo: ad esempio dal 2004 in Friuli-Venezia Giulia, ma lo ha regolamentato anche la Toscana che lo affianca già in micro-equipe ai medici del territorio e altre Regioni hanno deliberato la sua in introduzione come il Piemonte, la Liguria, il Lazio. Con risultati interessanti: riduzione del 20% dei codici bianchì al pronto soccorso, del 10% delle ospedalizzazioni, interventi più rapidi sul territorio con una riduzione dei tempi di percorrenza dal 33 al 20%, maggior gradimento dei cittadini.
Rimane aperta, e variamente regolamentata, la collocazione organizzativa di questa figura: in taluni casi in stretta – controversa – sinergia con i medici di famiglia, in altri in una posizione più autonoma, all’interno di presidi distrettuali e aggregazioni funzionali di territorio. La Fnopi elenca dieci funzioni che dovrebbero essere attribuite a questa figura, tra cui – sottolineiamo – quella di sostenere i percorsi di continuità assistenziale tra sociale e sanitario, tra ospedale e territorio e nell’ambito dei servizi territoriali sanitari e sociosanitari residenziali e semi-residenziali. Purtroppo, troppe volte indicazioni di tale portata hanno poi trovato difficoltà ad essere precisate, tradotte nella pratica quotidiana. Ci auguriamo che venga trovata una messa a terra concreta, sostenibile, praticabile.